2
marginalmente il tema, concentrandosi soprattutto sul tentativo di difendere la fiction da
quanti la giudicano dannosa per gli stereotipi rappresentati. In questi testi si parla inoltre
di psicoterapia, di Italoamericani, di rappresentazione della figura femminile, di
religione e di rapporti stretti tra I Soprano e l’American Dream, mentre si accenna solo
agli aspetti di costruzione narrativa, non analizzandone né la struttura né le implicazioni
pragmatiche.
Il nostro lavoro muoverà dunque dall’analisi della famiglia come istanza antropologica
fondamentale. La nostra riflessione si proporrà come base per la comprensione del
dramma e del protagonista, Tony Soprano, mafioso di terza generazione, ma anche
padre di famiglia stressato e in cura psicoanalitica.
Nel primo capitolo osserveremo, avvalendoci dei contributi dell’etica e
dell’antropologia, che la famiglia svolge un ruolo impareggiabile sia per il Sé, in quanto
luogo in cui raggiungere la felicità, sia per i figli, sul versante, cioè, dell’accudimento,
dell’educazione, e del loro inserimento nella società. Addentrandoci in ambito
psicologico, descriveremo dunque alcune delle nozioni principali usate per inquadrare la
famiglia.
Nel secondo capitolo, affronteremo un’altra tematica che, come abbiamo visto, è
connaturata alla fiction, ossia quella degli stereotipi diffusi sull’etnia italoamericana.
Tenteremo di evidenziare quali sono questi stereotipi e come sono nati, ripercorrendo
gli anni della Grande Emigrazione, dal 1876 agli anni Venti in particolare, accennando
brevemente a come poi l’emigrazione si è evoluta sino alla fine degli anni Sessanta.
Esploreremo dunque il tema dei rapporti tra Italia e Stati Uniti negli anni, fino a
giungere al nocciolo della questione, ossia la rappresentazione degli Italiani – diventati
ormai italo-americani – nel cinema di Hollywood. Come contraltare a queste
osservazioni, offriremo una panoramica sugli Italoamericani nel Ventunesimo secolo,
utilizzando i dati del Censimento dell’anno 2000 per verificare, sia in termini
demografici che di valori e comportamenti, quanto avanzato sia il processo di
assimilazione. Affrontare il tema dell’emigrazione ci è sembrato ineluttabile per capire
le origini del fascino del mafioso e allo stesso tempo la sua declinazione in forma di
capro espiatorio, due sentimenti che stanno proprio alla base della popolarità de I
Soprano.
3
Gli ultimi due capitoli della nostra analisi verteranno più approfonditamente sulla
fiction. Dopo aver descritto il modo in cui I Soprano si inserisce nella produzione
seriale americana, e dopo aver raccontato le origini della serie, ci dedicheremo alla
costruzione narrativa e drammaturgica. Delineeremo un profilo dei personaggi e delle
tre stagioni sulle quali ci siamo concentrati, per offrire poi alcune osservazioni sulle
implicazioni pragmatiche del prodotto in termini di rappresentazione della famiglia e
dell’etnia italiana.
Per documentare quanto affermato, proporremo, nel quarto e ultimo capitolo, un’analisi
più approfondita di due episodi tratti dalla prima stagione, e organizzata secondo la
struttura adottata nel terzo capitolo.
4
Capitolo Uno
La famiglia come sfondo antropologico del dramma
seriale audiovisivo
0. Premessa.
In questo capitolo affronteremo alcuni dei temi principali legati al concetto di famiglia
ed inseriti nel contesto delle discipline dell’etica e dell’antropologia, in quanto scienze
che si occupano dell’uomo, della sua natura e dei suoi bisogni. Di qui amplieremo il
quadro di esame sul tema anche in ambito di psicologia sociale, di sociologia e di
pedagogia.
In primo luogo cercheremo di tratteggiare sinteticamente, avvalendoci di alcuni
contributi dell’antropologia filosofica, lo scopo della vita dell’uomo e come questo
venga perseguito concretamente nell’esistenza quotidiana, soprattutto nell’ambito del
rapporto con gli altri.
Seguendo una linea di pensiero attenta alla natura relazionale dell’uomo, si cercherà di
evidenziare come la persona si realizzi in particolar modo nella comunità familiare,
luogo in cui l’individuo può stare al centro di rapporti affettivi e non contrattuali e in cui
può attuare il suo “essere-per-gli altri” e il dono di sé come principio dell’amore
soprattutto coniugale.
Poste queste premesse, oggetto specifico del capitolo sarà, come detto, la famiglia,
sfondo antropologico ed esistenziale determinante alla comprensione delle serie
televisive americane e, in particolare, di quella su cui ci soffermeremo nel terzo e nel
quarto capitolo. Presteremo innanzitutto attenzione alla funzione educativa della
famiglia, cioè alla famiglia come luogo di trasmissione dei valori e di formazione
dell’individuo.
Il nostro discorso si svilupperà concentrandosi sulla nozione di “ciclo di vita”, elaborata
in ambito psicologico e sociologico per rendere conto delle difficoltà che una famiglia
incontra nel suo percorso e dei compiti necessari per affrontare tali crisi.
Evidenzieremo soprattutto quella che definiremo la fase più critica, ossia il rapporto tra
genitori e figli adolescenti.
5
La menzione del concetto di ciclo di vita della famiglia, inoltre, ci consentirà di
descrivere quali sono le caratteristiche della famiglia funzionale rispetto a quella
disfunzionale, sottolineando come una famiglia che funziona sia fondamentale non solo
per l’intera società, ma soprattutto per i nuovi nati, che apprendono un modello di
famiglia garante della serenità.
Da queste considerazioni muoveremo, infine, verso una definizione dei ruoli di padre e
madre, sottolineando come, in particolare, il ruolo del padre si sia evoluto dalla famiglia
patriarcale a quella odierna e quali siano i compiti imprescindibili della figura paterna.
Questo ultimo tema riveste notevole importanza, data la spiccata caratterizzazione di
alcuni dei tratti paterni nella personalità di Tony Soprano, protagonista della fiction di
nostro interesse.
6
1. La centralità umana della famiglia.
In questo paragrafo cercheremo di porre le basi per lo studio della famiglia,
analizzandola dapprima nell’ambito dell’etica e dell’antropologia in quanto discipline
che la vedono come luogo in cui l’uomo può raggiungere lo scopo della vita.
Nell’ampio panorama di testi sull’etica, ci baseremo in particolare sulle coordinate
elaborate da Gabriel Chalmeta in Etica applicata
1
, integrando con i contributi di altri
autori che ci sembra possano fornire un valido approccio al tema.
2
L’importanza della famiglia per l’individuo verrà in seguito esaminata su un altro piano,
quello della trasmissione di valori e della crescita interiore dei nuovi nati, che imparano
nella famiglia a vivere nella società e a distinguere il bene dal male.
Per questo argomento faremo riferimento in particolare a Nascere, amare, morire, a
cura di Sandro Spinsanti
3
, che propone una riflessione su quali siano i valori della
famiglia, pur dovendo constatare come essi siano cambiati negli ultimi anni.
Interessante, anche se datato, è l’articolo di Helen Hacker, La famiglia americana ieri e
oggi
4
, in cui l’autrice parla delle funzioni assolute della famiglia, osservando come esse
siano purtroppo spesso delegate ad istituzioni esterne al nucleo familiare.
1
GABRIEL CHALMETA, Ética especial, Gabriel Chalmeta Olaso, Navarra 1996; trad. it. Etica applicata.
L’ordine ideale della vita umana, Le Monnier, Firenze 1997.
2
Il riferimento è a SABINO PALUMBIERI, L’uomo, questa meraviglia. Trattato sulla costituzione
antropologica, I, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 1999, soprattutto alla sezione relativa
alla dimensione del “per-altri”; a KAROL WOJTYLA, Milosc i odpowiedzianlnosc, Wydnwnictwo “Znak”,
Kraków 1960; trad. it. Amore e responsabilità, Marietti, Genova 1988; a TOMÁS MELENDO GRANADOS,
Ocho lecciones sobre el amor humano, Ediciones Rialp, Madrid 1992; trad. it. Otto lezioni sull’amore
umano, Ares, Milano 1998; e AA.VV., Genitori e figli nella famiglia affettiva, Glossa, Milano 2002.
3
SANDRO SPINSANTI (a cura di), Nascere, amare, morire. Etica della vita e della famiglia, oggi, Edizioni
Paoline, Cinisello Balsamo 1989.
4
HELEN M. HACKER, La famiglia americana ieri e oggi, in “Studi di sociologia”, Anno II, Fascicolo III,
Luglio-Settembre 1964.
7
1.1. Il senso della vita dell’uomo.
Nel suo testo di etica, Gabriel Chalmeta sottolinea come il significato della vita
dell’uomo stia nel raggiungere quella perfezione che viene designata con il termine di
“felicità” o “beatitudine”, tale per cui, in base a un criterio finalistico, saranno buoni (o
eticamente razionali) quei comportamenti che avvicinano l’uomo alla beatitudine,
malvagi (o eticamente irrazionali) quegli altri comportamenti che lo allontanano da
questo obiettivo o che non lo avvicinano ad esso.
5
La ricerca della felicità è, per l’individuo, non oggetto di scelta, bensì una vocazione
naturale, che gli deriva, secondo Chalmeta, “dalla sua natura di uomo”.
6
Poiché, però,
l’uomo non possiede dentro di sé tale beatitudine, egli si risolverà a cercarla in realtà
extrasoggettive: oggetti – ossia beni materiali, e dunque effimeri e in grado di garantire
solo una felicità apparente e momentanea –, o beni superiori, che appagano l’uomo nel
profondo.
7
A queste realtà che stabiliscono la felicità dell’uomo Chalmeta dà il nome di
‘Ideale pratico’:
Se queste realtà sono proporzionate ai più profondi e ambiziosi desideri
umani, potremmo concludere che nella comunione con esse consiste la
beatitudine. Per designarle, utilizzeremo l’espressione Ideale pratico, in
ragione della loro capacità di soddisfare i più profondi desideri umani […].
8
5
Cfr. CHALMETA, Etica applicata…, pp. 1-2.
6
CHALMETA, Etica applicata…, p. 9.
7
Circa la natura di questi beni superiori, ci sembra interessante la descrizione data da Palumbieri dei
bisogni che egli denomina fontali, ossia quei valori che si collocano a livello di conoscenza, sussistenza,
volontà di essere, comunione. A livello di conoscenza, si tratta di quei valori inerenti alla sfera del sapere,
inteso come scienza (scoperta del cosmo e delle sue leggi), tecnica (uso e possesso delle cose), estetica
(fruizione del bello e contemplazione) e sapienza (rinvenimento delle radici e dei significati). A livello di
sussistenza, si tratta di quei valori relativi allo sviluppo dell’economia (conseguimento di beni scambiabili
per soddisfare i bisogni) e all’affermazione del lavoro (autorealizzazione nell’investimento dei propri
talenti e guadagno dei mezzi per la sussistenza). A livello di volontà di essere, Palumbieri distingue tra i
valori “per essere di più” (relativi alla propria crescita interna e allo sviluppo di qualità quali fedeltà,
fortezza, temperanza, pace interiore), quelli “per far essere di più” (relativi alla collaborazione con gli
altri e alla capacità di creare spazi di sicurezza, di pace sociale, di crescita degli altri), e quelli “per
potenziare l’essere in più” (relativi allo sviluppo di serietà, responsabilità e all’impostazione di una vita
significativa per consegnare il proprio mondo migliore di quanto non lo si sia trovato). A livello di
comunione, si tratta della sfera dell’amore e dei valori inerenti all’amicizia, alla coniugalità, alla
socialità, alla gratuità volontaria, all’affettività “produttiva”, cioè dono e servizio. Cfr. PALUMBIERI,
L’uomo…, pp. 296-7.
8
CHALMETA, Etica applicata…, p. 21.
8
L’uomo cerca nella vita beni superiori che lo appaghino nel profondo e gli facciano
provare la beatitudine. Si consideri l’origine etimologica del termine: beo, beare,
beatum significa colmare, riempire, non permettere che manchi qualcosa.
9
È
interessante ricordare, a questo proposito, come, secondo Platone, simbolo
antropologico per eccellenza fosse Éros, figlio di pénia e póros.
10
Éros indica una
mancanza, e dunque il motivo per cui l’uomo cerca la comunione con gli altri è che egli
ha bisogno di completarsi.
Tuttavia, osserva Chalmeta, si potrebbe obiettare che una definizione di felicità come di
qualcosa che appaga l’essere umano, rende l’uomo una creatura egoista, tesa alla ricerca
di una soddisfazione personale. Indubbiamente un amore umano che sia puramente
disinteressato è impossibile, ma questo perché la nozione di felicità va intesa in una
duplice accezione: il soggetto cerca di realizzare sì il bene per se stesso, arricchendo la
propria persona, ma allo stesso tempo coinvolge le altre persone – le persone amate –
nella sua azione:
[…] Tutti gli uomini nell’amare partono dall’amore di sé e in funzione di se
stessi amano ogni altra cosa […].
11
In ogni uomo esiste un amore naturale di sé, “un desiderio, ineludibile e irrinunciabile,
di conservare il proprio essere e di svilupparlo perfettivamente fino ad attingerne il
culmine”
12
, ed in questo consiste la felicità per l’uomo. Ma per la natura relazionale e
dialogica dell’uomo, l’uomo non può attingere la felicità se non nel rapporto con le altre
persone, cioè nella consapevolezza di aver attuato la felicità di quelli che George
Herbert Mead chiama gli “altri significativi”
13
, amando le persone che lo circondano
non per il piacere, il benessere, la pienezza, la letizia che gli possono procurare, ma per
se stessi, per la dignità della loro persona. È questo quello che insegna il cosiddetto
“principio personalista”, che impone di amare gli altri come fini e mai come mezzi:
9
Cfr. Ibidem, nota 20.
10
PLATONE, Convivio, 203b, cit. in PALUMBIERI, L’uomo …p. 27. Cfr. anche GIANFRANCO BETTETINI,
FAUSTO COLOMBO, Eros, memoria, civiltà : saggi sui media, Costa & Nolan, Genova 1999, pp. 27-37.
11
S. AGOSTINO, cit. in CHALMETA, Etica applicata…, p. 38, nota 3.
12
MELENDO, Otto lezioni…, p. 171.
13
GEORGE HERBERT MEAD, Mind, Self and society, Chicago University Press, Chicago 1934; trad. it.
Mente, sé e società. Dal punto di vista di uno psicologo comportamentista, Barbera, Firenze 1966, cit. in
CHARLES TAYLOR, The Malaise of Modernity, Canadian Broad. Corp. 1991; trad. it. Il disagio della
modernità, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 39.
9
La persona è “qualcosa” che non dev’essere mai trattato (amato) come
semplice mezzo, come uno strumento del quale ci si possa servire
indiscriminatamente […] allo scopo di raggiungere qualsiasi altra cosa; al
contrario, la persona deve essere trattata (amata) come un fine o, più
precisamente, rispettando e in alcuni casi promuovendo i fini suoi propri.
14
Dello stesso parere è anche Sabino Palumbieri che, sottolineando come la pienezza della
vita derivi dalla dimensione denominata del “per-altri”, dimostra come solo nella
promozione dell’altro l’uomo possa ottenere la felicità per sé:
È possibile avvicinarsi all’altro, tendendo a far essere lui più uomo, cioè più
libero e più capace di sviluppare i talenti, le attitudini e le opportunità. E,
facendo essere l’altro tu più uomo, l’io si percepisce un essere-in-più lui
stesso.
15
L’amore della persona deve fondarsi sull’affermazione del valore intrinseco di questa:
Melendo ricorda come Heidegger parlasse dell’uomo come di un essere onto-logico –
capax entis –, cioè capace di afferrare la realtà come è in sé. Non in virtù di un
tornaconto personale, cioè del danno o vantaggio che a lui possa derivare, ma del valore
intrinseco di ciò che lo circonda.
16
L’amore per sé è certamente un fatto naturale, ma affinché l’uomo possa realizzare la
sua felicità, affinché possa raggiungere la sua pienezza interiore, la completezza del suo
essere personale, deve ricercare attivamente il bene degli altri:
[…] La felicità, la quale costituisce la quintessenza ambita dell’amore
naturale di sé, può conseguirsi unicamente ignorando per davvero l’amor
proprio per consegnarsi […] agli altri. La felicità si guadagna solo quando
non è perseguita direttamente.
17
14
CHALMETA, Etica applicata…, p. 14. Il principio personalista si presenta in una duplice formulazione:
minimalista, che presta attenzione semplicemente al rispetto dell’altro come prima esigenza d’amore;
massimalista, che invece considera la natura completa dell’amore, cioè il suo essere comunione e, di
conseguenza, volontà di promozione dell’altro. Come vedremo, una caratteristica fondamentale della
famiglia è proprio che al suo interno si applica non solo il rispetto, ma soprattutto la promozione dell’altro
attraverso la trasmissione di valori in base ai quali vivere una vita buona.
15
PALUMBIERI, L’uomo …, p. 339.
16
Cfr. MELENDO, Otto lezioni…, p. 8.
17
Ibidem, p. 180.
10
La vita buona, sostiene lo stesso Chalmeta, non può consistere in un isolato “io vivo
bene” bensì, per la natura dell’uomo, è possibile solo nella forma del “noi viviamo
bene”:
[…] Non è possibile una vera felicità umana quando nessun vincolo d’amore
ci unisce ad altre persone; ebbene, esercitando la nostra capacità di amare,
entriamo in comunione con esse e proprio per questo ci interessiamo e
condividiamo la loro felicità (il loro bene) come se si trattasse della propria
felicità (bene); e la stessa cosa avviene reciprocamente.
18
La sottolineatura del verbo “condividere” non è casuale, perché l’autore vuole precisare
che la vita buona implica senz’altro un certo darsi o donarsi, “ma non per
«scomparire», bensì per compartire, per vivere in comunione con l’amato”.
19
Donare se stessi, che sta alla base della felicità dell’uomo, non vuol dire non essere più
se stessi, al contrario: è nella donazione di sé in un clima di amore reciproco (e la
reciprocità, come vedremo, è la caratteristica precipua dell’amore) che l’uomo accresce
il proprio valore personale e, dunque, attinge la beatitudine.
È questo il motivo per cui l’uomo, nel corso della vita, cerca di instaurare comunità
dette da Chalmeta “di amicizia”
20
perché ciascuno dei suoi componenti è vincolato agli
altri da amore di amicizia o di benevolenza e dall’applicazione del principio
personalista. In queste comunità, tra cui spicca la famiglia, ognuno si impegna a mettere
in pratica la totalità dei suoi doveri verso l’altro, ottenendo in cambio la felicità.
21
Siamo arrivati così all’affermazione della famiglia come luogo in cui l’uomo trova la
piena realizzazione della felicità o beatitudine, in quanto nel rapporto con gli altri egli
cerca il bene per le persone amate, e questo bene si trasforma poi nel bene per se stessi.
Questa perfetta comunione tra le persone trova la sua massima espressione nell’amore
tra i coniugi, tanto che dalla loro unione, frutto di un affetto indissolubile, ha origine
una nuova vita umana.
18
CHALMETA, Etica applicata…, p. 78.
19
Ibidem, p. 39.
20
Ibidem, p. 93.
21
Chalmeta ricorda come l’uomo, per soddisfare tutte le esigenze della vita buona, abbia bisogno di
costituire altri sistemi di relazioni sociali più ampi, e cioè la società del lavoro e la società politica. Noi ci
concentreremo tuttavia solo sulla comunità amicale, ed in particolare sulla famiglia. Per un
approfondimento degli altri tipi di comunità, cfr. ibidem, pp. 145-242.
11
Di questo parleremo nel prossimo paragrafo, mostrando in particolare cosa differenzi
l’amore coniugale dall’amore detto “di amicizia” o “di benevolenza”.
1.2. Le caratteristiche dell’amore sponsale.
La felicità dell’uomo si costruisce sul rapporto con gli altri individui, nel dare e ricevere
amore. L’amore va inteso innanzitutto come un “rapporto reciproco di persone […]
fondato sul loro atteggiamento individuale e comune nei confronti del bene”.
22
La
reciprocità, infatti, è una componente essenziale dell’amore, senza la quale esso muore,
perché non si può raggiungere la felicità se non si nutre fiducia nella persona amata e
nel fatto che questa ami la nostra persona e non ci sfrutti come mezzo per ottenere il
piacere. L’amore stabilisce una comunità interpersonale in cui le persone si amano
mutuamente, tanto che “l’amore «in una sola direzione» è un amore incompleto”.
23
Tuttavia, la definizione di amore non è univoca, in quanto ci sono diversi modi di amare
una persona. In Amore e responsabilità, Karol Wojtyla identifica quattro forme
d’amore: l’amore come attrazione, come compiacenza (o amore di simpatia), come
benevolenza (o amore di amicizia) ed infine l’amore sponsale, che supera le tre forme
precedenti, nello stesso tempo comprendendole.
24
Vediamo brevemente in cosa
consistono i primi tre tipi di amore, per poi soffermarci sull’amore coniugale.
L’amore come concupiscenza è quello che nasce dall’attrazione sensibile, e dipende dal
fatto che la persona è un essere limitato che, non bastando a se stesso, desidera una
persona del sesso opposto per completare una mancanza propria. È un atto involontario,
22
WOJTYLA, Amore…, p. 53. In queste pagine faremo riferimento ai lavori frutto dell’attività di
insegnamento filosofico, presso l’Università Cattolica di Lublino, del futuro Papa Giovanni Paolo II.
L’importanza della sua opera teologica e pastorale, infatti, non deve sottrarre la nostra attenzione al
dibattito filosofico cui Karol Wojtyla ha preso parte negli anni precedenti la sua investitura.
23
MELENDO, Otto lezioni…, p. 36. Melendo sottolinea giustamente come il desiderio che ogni persona
innamorata nutre di essere contraccambiata nei sentimenti non comporti un allontanamento dall’affetto
autentico, dall’amare l’altro in quanto altro. Infatti, è la natura stessa dell’amore a pretendere
corrispondenza: “[…] Chi ama, in virtù della generosità che comporta il fuoriuscire da sé per confermare
l’essere dell’altro e in virtù della nobiltà insita nella sua donazione, merita la corrispondenza da parte
dell’amato” (Ibidem). Anzi, la purezza dell’amore consiste non solo nell’amare l’altro
disinteressatamente, ma anche nel desiderare con tutto il cuore che questa persona ci ami. Proprio per
raggiungere la pienezza e perfezionarsi come persona, cioè per raggiungere la felicità, l’uomo ha bisogno
di essere amato, oltre che di amare. La formula dell’amore, secondo Melendo, potrebbe essere questa: “Io
ti amo sperando che tu corrisponda; ma non ti amo a causa di una tua possibile corrispondenza […] né
tantomeno a condizione di essere corrisposto” (Ibidem, p. 38). Cfr. anche ibidem, pp. 29-47, sulla
reciprocità dell’amore.
24
WOJTYLA, Amore…, pp. 53-101.
12
nel senso che “capita” indipendentemente dalla volontà delle persone: il corpo di una
persona provoca in noi una reazione dei sensi.
L’amore come compiacenza si fonda invece su un’attrazione psicologico-affettiva; a
differenza dell’amore come concupiscenza, infatti, qui entra sempre in gioco il fattore
emotivo-affettivo, dove con affettività si intende la facoltà di reagire al valore di una
persona verso il quale, per nostra indole, siamo particolarmente inclinati.
“Compiacenza” significa infatti che una data persona ci si presenta come un “bene”.
Anche in questo caso, si tratta di un sentimento involontario, dove la volontà della
persona non è sufficientemente forte da determinare l’oggettività di tale amore: ciò
comporta che le reazioni emotivo-affettive deformino l’attrazione facendo sì che si
creda di percepire nella persona dei valori di cui essa è in realtà priva. La simpatia,
infatti, è un fatto passivo poiché gli uomini la provano in maniera spesso
incomprensibile verso una persona solo perché questa ha suscitato in noi una risonanza
affettiva positiva. Il rischio è che, passata la reazione emotiva (caratterizzata da
fluttuazione), il soggetto si accorga che la persona amata non possiede quei valori che
egli vi aveva attribuito.
L’amore come benevolenza è invece un avvenimento oggettivo, cioè un atto volontario
che fa sì che la persona venga riconosciuta come effettivamente è: si sceglie la persona
da amare come unica e irripetibile tra tutte le altre esistenti e si accettano
consapevolmente tutti i suoi difetti. Melendo chiama questo tipo di amore “dilezione”
25
,
un amore elettivo che si distingue dall’amore sentimentale, che al contrario è un atto
spontaneo radicato nell’istinto. Indubbiamente nella maggior parte dei processi di amore
umano c’è un periodo iniziale passivo, caratterizzato da simpatia, mutuo interesse,
attrazione reciproca e impulso sessuale; ma in questo periodo ancora non si può parlare
di innamoramento:
[…] la condizione piena di innamorato non insorge finché quell’individuo
non decide coscientemente e liberamente […] di “eleggere” il termine dei
suoi amori, confermando nell’essere la persona scelta e mettendosi al suo
servizio, risolutamente, perché quello diventi quello che la sua stessa natura
esige: una persona integrale, completa.
26
25
MELENDO, Otto lezioni…, p. 79.
26
Ibidem, p. 84.
13
L’amore di benevolenza, dunque, è un atto lucido della volontà orientata al
conseguimento del bene dell’altra persona. Soffermiamoci un momento sulle quattro
caratteristiche di questo amore secondo Melendo. Questa descrizione ci sarà utile poi
nel delineare i tratti dell’amore più intenso per eccellenza, quello coniugale.
Il primo tratto costitutivo dell’amore è il desiderio di conferma dell’essere:
Voler bene a qualcuno, amarlo, suppone in primo luogo la volontà che egli
possieda il bene fondamentale, il requisito ineludibile per qualsiasi ulteriore
bene: la vita. Coloro che si amano vogliono che il termine del loro amore
esista, che viva, totalmente e senza condizioni.
27
Così, l’amore per la persona amata ha la virtù di renderla per noi reale, tanto che senza
di essa l’universo ci risulta incompleto.
La seconda caratteristica è il desiderio di pienezza per la persona amata. Oltre a volere
che la persona sia, cioè, noi vogliamo anche che sia buona, ossia che raggiunga la
perfezione, la pienezza del proprio essere. Si tratta, come abbiamo visto, della
formulazione massimalista del principio personalista: non solo rispettare ma
promuovere la persona dell’altro. Questo è possibile perché l’amore elettivo acuisce la
propria capacità di conoscere:
[…] solo uno sguardo reso perspicuo dall’affetto sarà capace di cogliere la
grandezza e le sfumature che un essere personale racchiude […] Unicamente
l’amore permette di penetrare fin nelle latebre ontologiche di una persona e
di scoprire le meraviglie riposte sempre nel fondo del suo essere.
28
Inoltre, l’amore non solo ci permette di conoscere l’oggetto dei nostri desideri come
esso realmente è, ma è addirittura in grado di anticiparne il futuro progetto perfettivo,
quello che la persona amata può divenire. Per questo motivo, chi ama tende a impiegare
ogni mezzo a sua disposizione perché la persona amata attinga quella interezza
conclusiva cui è destinata:
[…] la forza stessa dell’amore – nella misura in cui sia profondo e autentico
– ci induce ad “affermare” l’amato non solo in quello che egli è, ma anche
nella grandezza che può – e per ciò stesso deve – raggiungere.
29
27
Ibidem, p. 11.
28
Ibidem, p. 17.
29
Ibidem, p. 18.
14
Proprio per aiutare l’altro nella sua avventura perfettiva, la persona innamorata accetta
spontaneamente di mettersi al servizio dell’altro, affinché questo si elevi. Questo
donarsi, tuttavia, non significa dissolversi, perché è anzi proprio attraverso il dono di sé
che la persona si perfeziona:
Solo spendendosi, l’uomo attinge la dimensione completa della propria vita
[…]. L’uomo si innalza fino alla sua peculiare indole personale solo quando
attua l’inclinazione verso il bene dell’altro, configurandosi così,
propriamente, come uomo: quando ama, quando si dà.
30
L’ultima caratteristica dell’amore è l’identificazione con l’amato, in cui la donazione
del proprio essere culmina. L’identificazione con l’amato è quel processo in base al
quale si considera la persona amata come un’unica cosa con se stesso. Quando c’è
l’amore, gli amanti avvertono il desiderio di dissolvere la propria individualità in quella
dell’altro e, viceversa, di assorbire nella propria quella dell’essere amato. Significa
amare l’altro come se si trattasse di noi stessi, perché di due personalità se ne forma una
sola:
[…] quanto accade a lui mi tocca nel più intimo dell’essere, con le stesse
risonanze di come fosse accaduto a me […] Proprio perché l’affetto, l’amore,
senza distruggere la mia personalità, mi ha trasformato, mutandomi
interiormente fino a farmi coincidere con la realtà personale dell’essere
amato.
31
Da questa fusione il soggetto ottiene una grande ricompensa, che è quella dell’amore
reciproco, della donazione a noi della persona amata.
L’amore sponsale comprende tutti questi tratti, ma allo stesso tempo possiede un tratto
esclusivo che lo caratterizza. Nell’amore coniugale, infatti, gli sposi si donano
totalmente, intendendo con questo non solo la donazione della propria anima, ma
soprattutto del proprio corpo. Nell’amore sponsale ad essere amato è la persona
dell’altro in quanto distinta, cioè in quanto maschio o femmina. Qui, diversamente da
ogni altro tipo di amore, noi amiamo la persona sessuata, la sua sessualità, l’insieme
delle sue caratteristiche psico-fisiche. In questo caso, desiderio di pienezza significa
desiderio di completamento della sua sessualità, cioè desiderio che divenga padre o
30
Ibidem, p. 24.
31
Ibidem, p. 56.
15
madre, educatore o educatrice dei figli. Ovviamente la donazione è l’elemento base
affinché tale pienezza possa essere raggiunta:
Il padre non diviene tale […] se non grazie alla donazione che la madre fa
della propria sessualità; e quest’ultima non acquisisce la maternità se non in
virtù della capacità fecondante dello sposo. Il padre non educa, come padre,
ma in funzione dell’amore che lo unisce a sua moglie e fa dell’uno e
dell’altra la comune fonte della vita, anche spirituale, dei figli; e così la
donna.
32
La differenza con gli altri tipi di amore, dunque, è che nel matrimonio i coniugi donano
tutto il proprio corpo, e lo donano ad un’unica persona: è un dono esclusivo ad una
persona affinché questa possa raggiungere, anche grazie a noi, la felicità, cioè la
pienezza.
L’amore coniugale mira direttamente alla complementarità sessuale tra i coniugi:
Poiché gli uomini hanno una vita limitata, e poiché nessuno di loro esprime
in sé a sufficienza tutta la nobiltà virtualmente racchiusa nella specie umana
[…] i rappresentanti del genere umano appartengono all’uno o all’altro
sesso, di maniera che con la loro unione la specie si perpetui.
33
Da questa unione di corpi (accompagnata, sottolinea Melendo, dall’unione affettiva
delle anime), ognuno dei quali dotato delle proprie caratteristiche di mascolinità e
femminilità, nasce un corpo unico, che unisce in sé, nella sua personalità unica, la
duplice personalità del padre e della madre, “fuse in una tale unità, così
armoniosamente, che non solo sono da lui inseparabili, ma non è possibile neppure
distinguere esattamente ciò che proviene dall’uno o dall’altra”.
34
L’amore che i coniugi provano l’uno verso l’altro si trasmette poi al frutto del loro
amore, il figlio. È un amore che possiede le stesse caratteristiche dell’amore di
benevolenza delineate più sopra, orientato al bene della persona in sé, non tanto come
soddisfazione dei genitori, quanto come persona ricca di una sua dignità personale.
Verso il figlio i genitori si donano, realizzando soprattutto la seconda delle
caratteristiche dell’amore, cioè il progetto perfettivo per il figlio.
32
Ibidem, p. 108.
33
Ibidem, p. 116.
34
JACQUES LECLERCQ, El matrimonio cristiano, Rialp, Madrid 1987, p. 150, cit. in MELENDO, Otto
lezioni…, p. 143.