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di capacità imprenditoriali, di educazione scolastica, di infrastrutture e non avevano
accesso ai mercati stranieri. Di conseguenza si pensò di eliminare il gap tra Nord e Sud
del Mondo mediante trasferimenti di denaro da governo a governo (aiuti bilaterali) o
attraverso istituzioni internazionali come ad esempio le Nazioni Unite (aiuti
multilaterali).
L’Occidente ha comunque sempre subordinato l’erogazione di tali fondi
all’adozione da parte dei LDCs di politiche di industrializzazione messe a punto da
economisti occidentali. In questo modo sono stati applicati a società impreparate a
riceverli, modelli di sviluppo occidentali spesso incompatibili con le peculiarità dei
paesi del terzo mondo.
Questo è il quadro storico in cui Bauer si trova ad elaborare le proprie teorie. Si
tratta di un background culturale che ha portato alla costituzione della corrente di
pensiero principale che ha avuto come autorevoli rappresentanti economisti del calibro
di Gunnar Myrdal o Arthur Lewis e che ha fornito un importante fondamento teorico
alle errate motivazioni con cui l’Occidente giustificava l’erogazione di aiuti ai LDCs.
Il motivo per cui Bauer è l’oggetto di questa tesi è che si sta assistendo ad una
rivalutazione delle sue idee, le quali, per la gran parte della letteratura sull’economia
dello sviluppo, venivano stigmatizzate, sino a quindici anni fa, quasi come eresie. Lo
scorso anno, ad esempio, è stato conferito a Bauer il Milton Friedman Prize for
Advancing Liberty. Si tratta di un’onorificenza assegnata a coloro che si sono
contraddistinti nella battaglia per il progresso della libertà. Fin dai primi anni della sua
lunga carriera, Bauer ha, infatti, preso le distanze dalle teorie interventiste e inclini alla
pianificazione economica che costituivano la corrente di pensiero principale.
L’economista inglese ha contestato numerose affermazioni comunemente
condivise dalla maggioranza degli accademici e anche dalle istituzioni internazionali tra
cui, prima fra tutte, la Banca Mondiale. Come spiegherò con maggiore dovizia di
particolari nei prossimi capitoli, Bauer attacca in particolare le seguenti convinzioni:
1. Esiste una sorta di ”Circolo Vizioso della Povertà” che impedisce agli LDCs di dare
inizio ad un vero processo di sviluppo.
2. La povertà dei paesi del Terzo Mondo è una conseguenza dell’oppressione e dello
sfruttamento perpetrato nei loro confronti dall’Occidente.
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3. Il protezionismo è l’unico strumento di difesa che i LDCs possono usare per evitare
di venire schiacciati dalla competitività delle industrie occidentali.
4. Il peggioramento dei termini di scambio è un trend continuo ed apparentemente
inarrestabile.
5. Senza l’intervento massiccio dei governi nell’economia è impensabile alcun
progresso dei paesi del Terzo Mondo.
6. Si deve intervenire per contenere la pressione demografica attraverso campagne di
sensibilizzazione e di informazione per operare un efficace controllo delle nascite.
7. Sono fondamentali gli aiuti stranieri per dare inizio allo sviluppo.
Queste idee vengono smontate ad una ad una dai ragionamenti che Bauer
fornisce sia nei numerosi libri da lui scritti, che negli accesi dibattiti apparsi sulle
maggiori riviste economiche. Bauer ritiene infatti che tutte queste convinzioni siano
frutto di un errato modo di procedere nella trattazione del problema. Piuttosto che
soffermarsi sugli aspetti tradizionali dell’analisi economica, quali l’ammontare degli
investimenti, l’offerta di infrastrutture, le risorse naturali, etc. è bene fare riferimento ai
fattori culturali e politici dei singoli LDCs considerati: sono le attitudini, i costumi e le
tradizioni dei singoli cittadini e delle comunità di questi paesi che fanno da motore per
lo sviluppo.
L’atteggiamento di sfida e il tono polemico dei suoi saggi hanno reso Bauer
soggetto a molte critiche. Non per questo non si possono trovare anche suoi estimatori.
Ad esempio, Amartya Sen ha più volte affermato come non si possa non apprezzare lo
stile e la linearità dei ragionamenti di Bauer. Si può non essere d’accordo con le sue
idee, lo stesso Sen spesso ne prende le distanze, ma non si può negare che le sue analisi
siano ricche e tutt’altro che superficiali. Il fatto che le teorie di Bauer nascano
dall’esperienza sul campo e non da pure riflessioni accademiche conferiscono alle sue
affermazioni maggior rispetto anche da parte di chi non le condivide. Secondo Sen
(2000) i meriti scientifici del lavoro di Bauer non possono essere messi in discussione:
Bauer ha fatto compiere un passo in avanti alla disciplina economica nel campo dello
sviluppo.
Un po’ per la sua collocazione anagrafica, un po’ per la novità delle sue idee,
Bauer è più volte stato definito come un pioniere dell’economia dello sviluppo. Nel
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1984, ad esempio, è stato invitato dalla Banca Mondiale a partecipare ad una sorta di
”tavola rotonda virtuale” organizzata per fare il punto della situazione sull’evoluzione e
sulle prospettive del problema dello sviluppo. A questo progetto sono stati invitati a
partecipare anche altri studiosi che hanno dettato i principi di questo ramo
dell’economia. Si tratta, oltre che di Bauer, di Clark, Hirschman, Lewis, Myrdal,
Prebisch, Rosenstein-Rodan, Rostow, Singer e Tinbergen. Ad ognuno sono state poste
due domande: a che punto è, oggi, lo sviluppo e come può essere resa più veloce la
crescita economica dei LDCs? Quello che risulta dalla lettura di questi saggi è una forte
contrapposizione tra le idee di Bauer e quelle degli altri partecipanti a questa virtuale
tavola rotonda: viene infatti accusato di spendere troppe energie in polemiche, piuttosto
che nell’approfondire le proprie analisi. Inoltre vengono criticati gli esempi portati da
Bauer a sostegno delle proprie idee, giudicati come eccezionali e non corrispondenti alla
realtà della maggioranza dei LDCs.
Lo scambio polemico segna il punto di maggior divergenza tra le opinioni
dell’economista inglese e quelle, condivise anche dalla World Bank, del mainstream.
A partire dal 1990 ha però inizio un’inversione di tendenza che sta portando ad
una rivalutazione delle teorie di Bauer. Ciò che Bauer diceva trenta anni fa sul ruolo
fondamentale del libero mercato nello sviluppo dei paesi poveri, scandalizzando i suoi
colleghi, attualmente sta diventando parte della nuova teoria dominante. Le intuizioni di
Bauer si trovano ora a far parte della corrente di pensiero più importante, non perchè il
loro autore abbia modificato le proprie opinioni, ma perchè è stato proprio il
mainstream a cambiare direzione e ad avvicinarsi a tesi più liberistiche. Questo
mutamento ha avuto luogo a seguito di eventi storici che hanno sancito, almeno nelle
dichiarazioni ufficiali, la fine della visione paternalistica dell’Occidente che aiuta i
”cugini poveri ” del Sud del Mondo.
Attualmente si sta abbandonando il pregiudizio secondo il quale i paesi
sottosviluppati non hanno le medesime possibilità di sviluppo che in passato hanno
avuto gli Stati oggi detti avanzati. L’idea che esista un circolo della povertà che ostacoli
l’inizio dello sviluppo sta venendo soppiantato da un nuovo paradigma proposto dallo
stesso Bauer: anche i paesi arretrati non sono immuni dall’accumulazione della
ricchezza. In tutte le società, anche quelle più primitive, vi è lo stimolo al baratto prima
e al commercio poi. Questa tendenza dei cittadini dei LDCs allo scambio di beni e
servizi deve essere sfruttata in tutta la sua interezza in quanto è il commercio, anche su
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piccola scala o informale, il vero motore dello sviluppo. Una volta capito questo
concetto, secondo Bauer, la strada verso la prosperità economica diventa più semplice
da percorrere. Al contrario, continuare a giustificare sentimenti compassionevoli
dell’Occidente nei confronti del Terzo Mondo, fornendo aiuti finanziari in misura
esponenziale, non può essere che dannoso. Essi creano solo dipendenza e impediscono
la crescita.
Un ulteriore argomento che pone Bauer in una posizione di forte scontro con le
principali teorie dello sviluppo riguarda il concetto di “eguaglianza”. Esso è stato a
lungo il filo conduttore dei principali progetti per combattere la povertà e l’arretratezza
dei LDCs, proposti dalla comunità occidentale. Il termine eguaglianza è stato soggetto a
numerose interpretazioni, spesso influenzate da due approcci in contrapposizione:
quello di stampo socialista e quello di matrice cristiana. In entrambi i casi ciò che viene
sottolineata è l’importanza di raggiungere un livello di maggiore equità. Entrambe le
concezioni, seppur basandosi su presupposti ideologici totalmente diversi, evidenziano
ed amplificano quel senso di colpa latente che da almeno cinquant’anni affligge i paesi
occidentali nei confronti dei ”parenti più poveri”. Bauer ritiene invece che questo
atteggiamento compassionevole sia frutto di un pregiudizio di base che può essere
riassunto nella frase: ”i poveri sono visti come passivi ma virtuosi, i ricchi come attivi
ma malvagi” (Bauer,1982). In realtà egli ritiene che vi siano almeno quattro buoni
argomenti a sostegno delle differenze economiche tra Paesi avanzati e paesi in via di
sviluppo:
ξ non si può pensare che, in presenza di diversi livelli culturali e politici e che a fronte
di differenti capacità e motivazioni delle persone, tutti abbiano il medesimo reddito.
Secondo Bauer che produce di più è giusto che abbia un ritorno economico in
proporzione;
ξ le differenze di reddito trovano una giustificazione di tipo procedurale. Le maggiori
entrate di un individuo non corrispondono ad una riduzione di quelle di un altro;
ξ le disuguaglianze di reddito sono giustificate dalle loro conseguenze: le politiche
redistributive hanno l’effetto di creare ancora più disparità tra ricchi e poveri, tranne
che in qualche eccezione di breve periodo. Potendo contare su una sempre maggiore
assistenza finanziaria pubblica, le persone meno produttive perdono l’incentivo ad
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aumentare i propri sforzi lavorativi. Tutto questo è una conseguenza di un altro male
moderno, l’eccessiva politicizzazione dell’economia che distoglie le energie
dall’attività economica produttiva a favore della politica e della pubblica
amministrazione;
ξ l’idea di egualitarismo è di per sè in contrasto con quella di società aperta. Politiche
volte al livellamento degli standard di vita sono una forma di coercizione
intollerabile per una società che si definisce libera. Il raggiungimento di tale
obiettivo ”baratterebbe” la promessa riduzione delle differenze di reddito e di
ricchezza in cambio di una nuova disuguaglianza di potere tra i governanti e i
cittadini.
Da questi primi accenni alle principali tematiche affrontate da Bauer si nota
subito come egli sia stato un personaggio di particolare interesse, sia per le posizioni
poco ortodosse da lui prese, che hanno scatenato accesi dibattiti, sia per il metodo
d’analisi utilizzato. Bauer (1987), infatti, ritiene che la “matematizzazione”
dell’approccio ai temi studiati sia stata il filo conduttore dell’economia dello sviluppo a
partire dagli anni cinquanta. Mentre inizialmente si poteva utilizzare un linguaggio più
descrittivo ed evitare il ricorso a funzioni e modelli analitici, col passare degli anni l’uso
di metodi econometrici è diventato inevitabile. Questo processo ha portato ad uno
sprezzo della realtà che ha avuto alcune conseguenze negative:
1. Ingiustificata concentrazione di elementi importanti per capire lo sviluppo sotto
poche macro-variabili (es. si considerano i paesi poveri come un blocco uniforme).
2. Mancata tenuta in considerazione di alcuni elementi che, seppur altamente
pertinenti, non sono trasformabili in termini matematici (es. attitudi personali).
3. Confusione tra ciò che è “significativo” e ciò che è “quantificabile”.
4. Omissione del background e dei processi storici dai modelli di crescita economica.
Il lavoro di Bauer è frutto dell’esperienza sul campo. Questo lo differenzia dal
resto del mainstream: mentre l’ortodossia del mondo accademico ha un approccio
analitico al problema dello sviluppo, Bauer ritiene che l’evidenza dei fatti sia tutto quel
che serve ad un buon economista (Bauer, 1987). L’accettazione incondizionata dei
metodi quantitativi ha permesso il diffondersi di studi econometrici a volte
inappropriati. Al contrario il metodo basato sull’attenta osservazione della realtà è stato
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definito come aneddotico, poco scientifico e superficiale, mentre invece, dice Bauer
(1987), è quello che meglio è in grado di fornire un quadro esaustivo del problema dello
sviluppo.
Ed è proprio utilizzando questo approccio, ossia attraverso l’attento esame della
realtà, che Bauer costruisce le proprie teorie. Ho deciso di circoscrivere gli argomenti da
affrontare in questa dissertazione nel modo che segue.
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Per capire da dove nascano le idee di Bauer è necessario acquisire alcune
informazioni di tipo biografico sul suo conto. A questo argomento è dedicato il primo
capitolo. Le tappe fondamentali della carriera dell’economista inglese sono numerose.
In particolar modo, a segnare le sue future teorie, contribuiscono due esperienze
maturate poco più che trentenne, nel corso degli anni quaranta: prima in Malesia, poi
nell’Africa Occidentale. Avendo lavorato per un’importante industria londinese
operante nel settore della gomma in Malesia, Bauer riesce ad ottenere una borsa di
studio post laurea per compiere ricerche in questo campo. Contemporaneamente il
British Colonial Office gli commissiona un rapporto sui piccoli proprietari terrieri
produttori di gomma in Malesia. Sulla base di questa esperienza nascono i primi due
saggi: The Rubber Industry (Bauer, 1948a) e Report on a Visit to the Rubber-Growing
Smallholdings of Malaya (Bauer, 1948b). Pochi anni più tardi, sempre su richiesta del
governo britannico, Bauer effettua ricerche sul campo affrontando il tema dei marketing
boards in uso nell’Africa Occidentale. Da questa esperienza nasce West African Trade
(1954). Parallelamente alla pubblicazione di numerosi raccolte di saggi, tra cui
ricordiamo Dissent on Development (1972), Reality and Rhetoric (1984) e The
Development Frontier (1991a), Bauer si dedica anche alla carriera accademica, venendo
nominato titolare della cattedra di economia, con specializzazione in economia dello
sviluppo, presso la London School of Economics nel 1960. Nel 1982 diventa membro
della British Academy e, l’anno seguente, viene nominato Lord dalla Thatcher.
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Con il secondo capitolo si entra nel vivo della dottrina di Bauer. Vi sono infatti
alcune tematiche che hanno costituito il cuore delle sue teorie, ma che, al contrario ad
esempio delle critiche agli aiuti internazionali, non hanno suscitato lo stesso scalpore.
Si tratta delle questioni: commodities, scarsità della terra, problema demografico e il
commercio interno. Infine il capitolo si conclude vertendo su una delle questioni
maggiormente poste in rilievo dallo stesso Bauer: l’importanza cruciale dei fattori
culturali e politici nello sviluppo dei LDCs.
I prodotti agricoli e altre materie prime come i metalli o il petrolio costituiscono
i principali beni commerciati dai LDCs. I paesi in via di sviluppo spesso basano le
proprie economie essenzialmente sull’esportazione di questi beni. In questo modo si
crea una forte dipendenza dai mercati di sbocco: nel caso in cui essi attraversino una
fase di crisi, le ripercussioni sul LDC che vi opera, sono molto forti. Questo è dovuto in
primo luogo al fatto che, spesso, i paesi del Sud del Mondo sono esportatori di un
numero molto limitato di commodities (par.2.1). Di conseguenza, avendo un portafoglio
così poco diversificato, sono costretti a sopportare un maggiore rischio di crisi nel caso
di una variazione negativa del prezzo del bene.
Per far fronte al problema, a partire dagli anni cinquanta sono sono stati
intrapresi nei LDCs vari progetti di contrasto della volatilità dei prezzi. Purtroppo
questi tentativi non hanno avuto il successo sperato. Si è poi diffusa l’opinione che
lasciar lavorare il mercato, come diceva anche Bauer, sarebbe stato più utile. In
particolare bisognava ricorrere a quelle tipologie di contratti (futures e forward) e di
mercato (dei derivati), create in Occidente nel corso dell’Ottocento proprio per tutelarsi
dalla volatilità dei prezzi. Il problema attuale consiste nello scarso ricorso a questi
strumenti finanziari da parte dei paesi in via di sviluppo e, qualora comunque vengano
usati, coloro che effettivamente operano su tali mercati sono solo le grandi
organizzazioni, sia pubbliche che private, mentre i piccoli produttori vi partecipano
ancora poco.
Un altro tema trattato in questo secondo capitolo riguarda il problema della
scarsità della terra (par.2.2). Esso è strettamente collegato anche alla questione della
pressione demografica (par.2.3). Secondo Bauer entrambi i fattori non sono
necessariamente incompatibili con lo sviluppo di un paese. Ciò che rende possibile il
progresso non è una questione di dotazione di riserve naturali. Quello che conta è che le
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popolazioni interessate mostrino di essere in possesso del giusto spirito imprenditoriale.
In seguito si possono acquisire le competenze tecniche, anche con l’aiuto dei paesi più
progrediti, e i capitali. Se però manca l’attitudine, il coraggio e l’intraprendenza delle
popolazioni locali è impossibile che si dia inizio ad un processo di crescita economica
che faccia realmente migliorare gli standard di vita dei paesi del Terzo Mondo. Allo
stesso modo le differenti performance economiche dei LDCs non sono legate alla
pressione demografica. Non è dunque né un problema di densità di popolazione né di
scarsità della terra. Di conseguenza tutte quelle teorie del mainstream che vedevano nel
boom demografico una delle principali disgrazie del XX secolo, e che trovavano in
Malthus il principale modello teorico di riferimento, si basavano su un presupposto
errato: quello che l’abbondanza di terre e di risorse naturali fossero le condizioni
necessarie da cui non si poteva prescindere per la prosperità di un paese.
Per finire ho affrontato la questione del ruolo del commercio interno come
motore di crescita (par.2.4). Secondo Bauer non si può ignorare il ruolo dei
commercianti. Essi promuovono non solo un efficiente utilizzo delle risorse disponibili,
ma anche il loro aumento. Il commercio è quindi un’attività produttiva in due sensi:
statico, perché assicura l’allocazione ottimale delle risorse; dinamico perché determina
la crescita del mercato. I traders, con il loro operato, facilitano la nascita di istituzioni
commerciali e di nuove professioni. Questo permette una crescita del livello del capitale
umano, il quale, attraverso la specializzazione, raggiunge gli standard qualitativi
necessari per lo sviluppo economico. A seguito di tale crescita migliorano le condizioni
di vita e si allargano le possibilità di scelta per i consumatori. Il commercio è quindi il
vero motore dello sviluppo di un paese, ma purtroppo la corrente di studio dominante se
ne è resa conto tardi. Se fossero stati notati prima gli effetti positivi dell’attività dei
traders probabilmente anche il mondo accademico avrebbe sottolineato gli effetti
negativi di certe politiche economiche adottate nei LDCs, che prevedevano forme di
discriminazione nei loro confronti. Anche le conseguenze pratiche di queste idee
sarebbero state differenti. Spesso si è osservato il mancato intervento della comunità
internazionale nei casi di soppressione dell’attività economica in numerosi LDCs,
specie in Africa negli anni sessanta e settanta. I maltrattamenti subiti dalla classe dei
commercianti, spesso colpevoli solamente di essere di etnia o di religione diversa da
quella nazionale, hanno portato a periodi di stagnazione, di regressione e, a volte, di
collasso delle economie dei loro paesi. In alcuni casi si è addirittura tornati indietro a
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modelli di produzione di sussistenza. Al contrario, nei casi in cui il commercio ha
potuto diffondersi liberamente, le condizioni economiche dei paesi interessati sono
migliorate. Il classico esempio di questo fenomeno è rappresentato dal caso del Sud-Est
asiatico.
Il commercio interno è dunque il vero promotore dello sviluppo ed è anche il
primo gradino verso l’apertura di un paese al commercio internazionale. La mancanza
di contatti con l’estero preclude le possibilità di nascita e diffusione di nuove idee,
competenze e desideri. Preclude quindi la strada verso il progresso.
È necessaria un’ultima annotazione riguardo a questi temi e all’importanza
cruciale dei fattori culturali e politici. Bauer fornisce un esempio che, almeno in teoria,
dovrebbe confermare i suoi ragionamenti: il caso Hong Kong (par.2.5). Secondo
l’economista questo paese ha sperimentato sia una forte carenza di risorse naturali, che
un boom demografico. Nonostante questo ha dimostrato di essere in grado di
raggiungere tassi di crescita straordinari. La giustificazione apportata da Bauer consiste
nel giusto atteggiamento che la popolazione ha manifestato: forte spirito
imprenditoriale, intraprendenza, capacità di cogliere al volo le opportunità del mercato.
Sul fronte delle politiche Hong Kong si è caratterizzata poi per lo scarso grado di
interventismo dello Stato nelle questioni economiche: bassa tassazione, libero scambio
(sia per le esportazioni che per le importazioni), assenza di restrizioni alla circolazione
del capitale, inesistenza di barriere contro gli investimenti stranieri, assenza di sconti
fiscali a particolari gruppi d’interesse… In realtà si possono facilmente muovere delle
critiche a quest’opinione in quanto tale LDC ha goduto di particolari elementi
favorevoli, assenti in altri paesi, che possono giustamente essere considerati la vera
causa della crescita economica. In loro assenza è probabile che lo stato asiatico non
avrebbe sperimentato un tale boom.
Ad esempio Hong Kong era favorito da due
situazioni: per prima cosa era l’unico mercato di sbocco della Cina. Inoltre, poiché fino
al 1997 è stato un protettorato Britannico, ha goduto di links commerciali con
l’Occidente fino dalla fase iniziale del suo sviluppo. Seppur, nel corso del mio lavoro,
non abbia trovato materiale che testimoni una critica esplicita al caso Hong Kong
proposto da Bauer, da parte di nessun economista, è però possibile, sulla base di altri
elementi, fare la seguente riflessione. Quella di Bauer non è una tesi sostenibile in
quanto, al pari degli esempi Malesia e Africa Occidentale (su cui invece ho trovato
numerose osservazioni critiche), si basa su fondamenta deboli. Egli, dicono i suoi
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oppositori, ha sempre scelto esempi di paesi che, o per le risorse naturali (es. oro in
Africa) o per le opportunità di mercato (es. commercio della gomma in Malesia) prima
o poi avrebbero attratto, in ogni caso, capitale straniero. Questo flusso di fondi avrebbe
permesso in seguito l’avvio di una crescita autonoma. Ciò che Bauer ha dimenticato è
che si tratta di casi particolari, di eccezioni che non possono trovare conferma nella
maggioranza dei LDCs. Ad esempio, afferma Lipton in Pioneers in Development
(Meier e Seers, 1984), le ex colonie dell’Africa occidentale di cui parla Bauer, o la
Malesia, hanno ricevuto ingenti finanziamenti occidentali tra il 1900 e il 1940. Questo
ha permesso ai produttori e ai commercianti locali di dare inizio allo sviluppo del
proprio paese. Inoltre, continua Lipton, Bauer non ha tenuto conto del fatto che la
crescita demografica in questi territori, seppur sostenuta, non ha raggiunto i livelli
impressionanti dei LDCs più poveri.
*******
Nel terzo capitolo viene affrontato il tema fondamentale delle teorie di Bauer:
gli aiuti esteri ai paesi in via di sviluppo. Egli si è sempre posto in una posizione
controcorrente rispetto alla maggioranza degli altri accademici, ma anche rispetto alla
generale opinione condivisa dalla comunità occidentale. In particolar modo, Bauer si
pone in forte contrapposizione con le idee della World Bank in materia di sviluppo.
Per prima cosa ho cercato di fornire un quadro storico (par.3.1) sufficientemente
dettagliato in cui poter collocare una figura così estrema come quella di Bauer.
L’economia dello sviluppo, infatti, nasce a partire dalla fine della seconda guerra
mondiale, anche se sono gli anni del processo di decolonizzazione, quelli che realmente
hanno segnato il punto di partenza del dibattito in fatto di aiuti finanziari ai LDCs.
Contemporaneamente la spaccatura ideologica connessa alla Guerra Fredda ha costretto
le ex-colonie a fare una scelta di campo.
La principale corrente di studio (par.3.2) dell’epoca, che ha avuto sostenitori
fino ai giorni nostri, riteneva che gli aiuti stranieri, quasi esclusivamente sotto forma di
trasferimenti di denaro, fossero indispensabili e soprattutto non eliminabili. Tale
opinione derivava dalla convinzione che non esistesse alcun altro modo per permettere
il take-off delle economie dei paesi del Terzo Mondo. Affidarsi al ruolo del mercato e al
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commercio estero, come Bauer invece sosteneva, non solo veniva considerato inutile,
ma anche rischioso. La corrente dominante ha sempre sostenuto che in una situazione di
arretratezza economica, dove mancano in primo luogo le infrastrutture, l’apertura al
mercato estero sia qualcosa di estremamente dannoso per il paese sottosviluppato. Per
dare inizio ad un processo di sviluppo è quindi meglio fornire capitali esteri, sotto forma
di aiuti, con i quali supplire a quelle mancanze che rendono i LDCs paesi
economicamente arretrati. Secondo questa scuola di pensiero è però impossibile che tale
obiettivo sia perseguibile tramite un processo interno al paese che ne deve beneficiare.
Non si può produrre ricchezza in presenza di un circolo vizioso della povertà che
affonda le proprie radici in una situazione di redditi costantemente bassi e di totale
assenza di attività imprenditoriali in cui investire.
Si è venuto così a creare una sorta di dogma dei finanziamenti esteri ai paesi in
via di sviluppo (par.3.3) a seguito del quale si è assistito ad un incremento esponenziale
dei trasferimenti di denaro dall’Occidente verso il Sud del Mondo. A partire dalla metà
degli anni novanta il fenomeno ha subito però una battuta d’arresto. Attualmente, infatti,
i flussi netti di capitali privati stranieri, sotto forma di investimenti finanziari, verso i
LDCs stanno riducendosi sensibilmente. Ciò è dovuto al fatto che gli operatori
economici occidentali hanno deciso di indirizzare i propri capitali verso i LDCs che
offrono maggiori garanzie di sviluppo e di stabilità. Al contrario il trend degli aiuti
internazionali è ancora in crescita.
Oltre all’erogazione di aiuti, un altro elemento di discussione è rappresentato
dalla dicotomia market order versus state-planning (par.3.4). Il mainstream ha a lungo
sostenuto la necessità di una pianificazione dell’attività economica dei LDCs per dare
inizio allo sviluppo. Tra i sostenitori di questo approccio troviamo ad esempio Gunnar
Myrdal. È necessario che i governi dei LDCs adottino piani di programmazione
economica che si caratterizzino per una forte partecipazione statale in tutti i campi
dell’attività produttiva. Questo controllo totale potrebbe essere messo in discussione
dall’apertura al commercio estero. La riduzione o l’eliminazione delle barriere, tariffarie
e non, provocherebbe, infatti, distorsioni agli effetti programmati dal governo,
impedendo così l’attuazione del piano di sviluppo. Bauer invece si scaglia contro
queste convinzioni, da lui ritenute non solo errate, ma anche prive di logica. La
domanda che Bauer si pone è: come è possibile che la totale chiusura di un paese al
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mercato internazionale riesca a far aumentare i redditi dei suoi cittadini? Come è
possibile, cioè, che, senza importare risorse dall’estero e senza esportare i propri
prodotti, si possa generare nuova ricchezza? Ciò che i pianificatori usano per i loro
progetti economici non sono nuove risorse ottenute ad hoc, ma sono fondi sviati da altri
investimenti pubblici o privati presistenti. Adottare un’economia orientata al mercato,
sostiene Bauer, è quindi fondamentale per lo sviluppo: incentiverebbe a passare da una
produzione di sussistenza ad una di scambio, farebbe importare nuove tecnologie e
conoscenze scientifiche, riuscirebbe a soddisfare i bisogni dei consumatori.
Questa critica allo state-planning non deve però essere interpretata come una
valutazione negativa del ruolo del governo nella vita economica di un paese.
Secondo Bauer le istituzioni sono importanti. Vi sono infatti alcune funzioni che non
possono essere attribuite ai privati. Tra queste ricordiamo: la creazione di un ambiente
istituzionale che incentivi l’iniziativa economica, la tutela dei diritti individuali (tra cui
quello di proprietà), l’erogazione di servizi essenziali come l’istruzione e la salute...
Inoltre lo Stato ha il compito di combattere il grande nemico dello sviluppo: la
corruzione. Nel caso in cui i governanti siano poco onesti neppure l’adozione del libero
mercato può evitare gli effetti negativi delle loro azioni.
Lo Stato ha quindi, per Bauer, un ruolo non trascurabile. È infatti innegabile che
l’adozione di una politica economica virtuosa sia uno degli elementi fondamentali per
poter dare inizio alla crescita economica. Tale politica, per Bauer, deve però essere
orientata al libero mercato (par.3.5). Ciò significa aprirsi alla concorrenza internazionale
attraverso l’incentivazione delle esportazioni e la riduzione delle barriere, tariffarie e
non. Questa strategia, detta di outward-looking export-led growth, si contrappone quella
dell’inward-looking import substitution, ossia ad una forma di protezionismo volta alla
difesa della produzione domestica. Questa seconda modalità è, almeno allo stadio
iniziale, un forte stimolo per lo sviluppo di un paese. Se però non si procede ad una
successiva apertura verso l’esterno, gli svantaggi iniziano a superare i benefici. A questi
problemi spesso i governi interessati rispondono con un ulteriore ricorso a misure
protezionistiche, quando invece il ricorso al commercio internazionale potrebbe essere
molto più vantaggioso.
A questo riguardo, ossia sui pro e i contro dell’apertura al commercio
internazionale, ho voluto approfondire il discorso facendo riferimento ad uno dei più
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accesi dibattiti che si sono verificati tra i sostenitori delle due tesi. Si tratta del caso
dell’industria degli anacardi in Mozambico (par.3.8). Personalmente ritengo tale
esempio una interessante verifica di come sia stata possibile l’applicazione ex post di
quanto suggerito da Bauer. Il 19 Aprile 2000 un articolo di Paul Krugman difendeva la
Banca Mondiale dalle numerose critiche che le erano state mosse contro dopo che essa
aveva caldamente suggerito la liberalizzazione delle esportazioni degli anacardi,
realizzatasi nel 1995. Secondo il movimento no global, di cui si è fatto portavoce
Naiman, l’eliminazione delle barriere tariffarie, al contrario, ha impedito lo sviluppo
dell’industria di trasformazione all’interno del paese. Per questo motivo gli oppositori
del libero scambio hanno giudicato l’intervento della Banca Mondiale come
un’ingerenza delle autorità internazionali nell’economia di un LDC e l’hanno bollato
come fortemente anti-democratico. Rodrik et al.(2002b), sulla base di uno studio
approfondito sulle conseguenze dell’apertura del settore degli anacardi al commercio
internazionale, conclude che i benefici di questo maggior orientamento al mercato
possono essere stimati come lo 0,14% del Pil del Mozambico. Questo incremento, pari a
5,30$ all’anno per contadino, è interamente controbilanciato dai maggiori costi di
disoccupazione urbana. Sembra quindi che la politica economica consigliata dagli
organismi istituzionali sia stata un fallimento. Ciò è dovuto al fatto che la Banca
Mondiale non ha tenuto conto di alcuni problemi fondamentali come le imperfezioni del
mercato (marketing multilivello / monopsonio indiano) e la scarsa credibilità della
riforma suggerita.
Tornando alle teorie di Bauer, il suo pensiero può essere dunque sintetizzato
nella catena causale secondo la quale il libero scambio aiuta la crescita economica e la
crescita riduce la povertà. Si viene cioè a creare quel circolo virtuoso, innescato dal
commercio, che funge da motore dello sviluppo. Non è quindi vero che gli aiuti stranieri
(par.3.5 e par.3.9) siano responsabili, da soli, delle migliori performaces economiche di
una nazione. Per prima cosa vi devono essere dei pre-requisiti indispensabili come
l’apertura al commercio e una politica economica virtuosa; secondariamente si può
eventualmente far ricorso a finanziamenti dall’estero. Questa titubanza di Bauer ad
accettare l’uso delle sovvenzioni nasce dalla convinzione che i trasferimenti di
ricchezza gratis, o quasi, creino anomalie: ad esempio spesso vengono finanziati
governi che sono fortemente ostili all’Occidente (es. nel 1982, la Gran Bretagna,
nonostante fosse in corso la guerra delle Isole Falklands, non potè ritirarsi dal piano di
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aiuti dell’ONU a favore dell’Argentina), ma che possono garantire ai donatori di
espandere i propri impianti in quei luoghi o di ottenere vantaggi di prezzo, ad esempio
del petrolio.
Inoltre gli aiuti sono da eliminare in quanto basati su un presupposto errato: il
senso di colpa degli occidentali i quali credono di aver un obbligo morale nei confronti
dei LDCs. Anche se è giusta l’idea che chi è più fortunato debba aiutare coloro che lo
sono meno, nel caso degli aiuti stranieri questo concetto non trova applicazione. Il
trasferimento di ricchezza avviene sì da paesi ricchi a paesi poveri, ma coloro che
contribuiscono direttamente sono i cittadini che pagano le tasse e che, nella
maggioranza dei casi, non possono dirsi ricchi. Il paradosso si conclude osservando che
chi riceve tali donazioni sono le élite al governo nei paesi poveri. Quello che dovrebbe
essere un trasferimento dall’alto al basso si trasforma in un finanziamento dal basso
verso l’alto.
Nonostante Bauer critichi fortemente gli aiuti internazionali, non può esimersi
dal porsi un’ulteriore domanda: visto che comunque non si possono eliminare, almeno
qual è il male minore tra i finanziamenti su base bilaterale e quelli erogati secondo
accordi multilaterali? Entrambe le tipologie hanno dei pro e dei contro. Il fatto che gli
aiuti siano su base bilaterale permette una maggior collaborazione tra il paese che dona
e quello che riceve. Questo pregio si trasforma in un difetto nel momento in cui il paese
finanziatore decide di condizionare gli aiuti in base ai propri interessi. Gli aiuti
multilaterali risolvono il problema del tied aid. Gli organismi internazionali hanno però
molta meno influenza sui governi dei paesi riceventi. Scondo Bauer, se bisogna
scegliere, visto che l’eventualità di abolirli completamente è impossibile che si verifichi,
meglio comunque gli aiuti multilaterali. Bisogna però attuarne una riforma che, in
particolar modo, deve riguardare il criterio di allocazione di tali aiuti. Si devono favorire
quei governi che si impegnano ad intraprendere piani di sviluppo sostenibili ed efficaci:
questo, per Bauer, è sinonimo di adozione di una politica economica orientata al
mercato. A ciò si deve affiancare il rispetto di valori quali la democrazia, la proprietà
privata e le libertà fondamentali degli individui.
Gli aiuti hanno anche un altro effetto negativo: essi creano dipendenza e
stimolano il proliferare della corruzione all’interno delle istituzioni dei paesi riceventi.
Su questa correlazione tra la qualità dei governi e l’ammontare di finanziamenti ricevuti
sono stati fatti alcuni studi (par.3.6).