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Il primo capitolo, elevando a livello internazionale il modello della formula
imprenditoriale di Coda (1984), ha messo in evidenza il processo logico
effettuato da un’azienda quando decide di sviluppare le proprie attività
all’estero. Si parte dalla definizione del raggio d’azione in cui si intende
operare, corrispondente alla selezione del mercato estero, per proseguire nella
determinazione del sistema di prodotto, che individua i caratteri materiali
dell’offerta proposta (qualità, gamma, livello di tecnologia, assistenza e
servizio collegato al prodotto). La scelta della struttura da attribuire
all’offerta si identifica infine con l’individuazione degli elementi che
permettono all’impresa la definizione dell’offerta sui mercati attraverso le
leve del marketing mix.
Il secondo capitolo ha esplorato il processo di internazionalizzazione delle
piccole e medie imprese, peculiarità del modello di capitalismo italiano. La
globalizzazione dei sistemi economici e la crescente integrazione politica fra
le nazioni fanno della dimensione internazionale per la piccola e media
impresa un rischio, ma anche una preziosa opportunità per la crescita.
L’internazionalizzazione delle PMI può svilupparsi lungo i mercati di
approvvigionamento, di sbocco o dei capitali, e può riguardare produzione,
prestatori di lavoro, partner o interlocutori sociali. Le operazioni
internazionali delle imprese minori sono state spesso interpretate come
occasionali, ma la tendenza che contraddice l’assunto tradizionale vede
l’operare con controparti estere come una regola generale, a prescindere dalla
dimensione. La strategia internazionale delle imprese minori, che dispongono
normalmente di pochi mezzi da investire nella raccolta di informazioni, è
caratterizzata da uno sforzo di pianificazione ex-ante non molto approfondito,
con un ricorso prevalente al learning by doing.
Condizione essenziale perché un’impresa possa disimpegnarsi sui mercati
esteri è il possesso di vantaggi competitivi: le strategie ad essi relative sono
finalizzate alla leadership di costo, alla differenziazione o alla focalizzazione
in un segmento di mercato. Altre caratteristiche distintive delle aziende di
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piccole e medie dimensioni vanno ricercate nella flessibilità, che consente di
adattarsi velocemente alle congiunture del mercato, e nella propensione
all’utilizzo di tecnologie labour intensive.
Il processo di internazionalizzazione è frutto del progressivo apprendimento
e dello sviluppo di risorse che mettono l’impresa nella condizione di
rinnovare gli indirizzi assunti in precedenza. Il successo preventivo di una
piccola impresa nel mercato domestico è fondamentale per una valida attività
di export, poichè permette di estendere la propria competitività all’estero
cogliendo le similarità fra il nuovo ambiente e quello domestico. La
costituzione di una joint venture con un socio estero può essere una soluzione
efficace per minimizzare i costi di set-up ed i rischi connessi
all’investimento, sfruttando le esternalità derivanti dalla collaborazione con
un partner locale.
La parte conclusiva del capitolo evidenza poi l’importanza delle piccole e
medie imprese italiane, che corrispondono ad una quota rilevante del tessuto
produttivo nazionale. Il contributo delle PMI alla crescita internazionale del
nostro sistema economico è notevole; tuttavia l’impresa minore presenta una
superficie di vulnerabilità, principalmente di natura finanziaria, causata dalla
scarsa capitalizzazione. La forte spinta verso i mercati internazionali è
determinata probabilmente anche dal fatto che queste aziende sono più fragili
se restano radicate al mercato domestico. Una forte crescita internazionale
permette loro, invece, il raggiungimento di performance migliori all’interno
di nicchie altamente redditizie, attraverso la ricerca di nuovi prodotti e di
nuovi mercati in cui sfruttare i propri vantaggi competitivi.
La competitività delle PMI italiane è basata sull’esistenza di tre
caratteristiche fondamentali: il decentramento della produzione, la
specializzazione flessibile e la presenza dei distretti industriali. Tali imprese
operano principalmente in settori “tradizionali” o “tecnologici”, ad alta
diversificazione dell’offerta. “Made in Italy” all’estero è principalmente
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sinonimo di creatività, sensibilità estetica ed offerta personalizzata che
soddisfa i gusti del consumatore.
La tendenza delle imprese italiane all’internazionalizzazione si è spesso
concretizzata in una vocazione più commerciale che industriale, con una
preferenza per le esportazioni piuttosto che per un impegno di natura
strategica. L’avvento di nuovi prodotti e di competitori (Paesi “newcomers”)
hanno addensato nubi sulla struttura commerciale italiana: uno schema
mercantilista di esportazione non è più sufficiente per il successo all’estero.
Il terzo capitolo si è proposto di studiare da vicino il processo di
internazionalizzazione dei distretti industriali, territori al cui interno sono
prodotti beni tradizionali, ad alta intensità di lavoro ed appartenenti a
peripheral sectors, attraverso una forma sofisticata di divisione del lavoro. I
distretti costituiscono un modello di organizzazione rilevante della struttura
manifatturiera nazionale, specialmente nell’ambito dei settori “leggeri”
tradizionali, labour intensive ed a bassa intensità di capitale (mobili,
calzature, tessile, conceria, prodotti per la casa e per la persona, meccanica
strumentale). Gran parte dello spazio conquistato dall’Italia sui mercati
mondiali deriva proprio dai distretti, pertanto la capacità competitiva di molti
settori industriali del nostro Paese, anche su scala internazionale, si basa sulle
possibilità di adattamento strategico di queste aree-sistema alle continue
variazioni che si hanno nel quadro concorrenziale. L’esperienza evidenzia
che la flessibilità e la capacità d’innovazione delle imprese sono strettamente
legate alla loro interazione ed alla dimensione territoriale.
A seconda della sfera relativa all’attività svolta all’estero, si avrà
un’internazionalizzazione di tipo produttivo, commerciale o tecnologico. Le
motivazioni sottostanti le operazioni di crescita internazionale possono essere
suddivise in due gruppi: quelle relative alla riduzione dei costi di produzione
e quelle relative alla penetrazione nei mercati esteri, collegate ad un aumento
della capacità produttiva. Per una maggiore competitività, le imprese dei
distretti cercano spesso di mantenere come “originario” in Italia il manufatto
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quanto a progettazione, immagine ed innovazione, delocalizzandone solo il
cuore produttivo. Le esperienze dimostrano che l’ancoraggio al territorio è
ancora un punto di forza per le piccole imprese esportatrici, e che le nuove
sfide stimolano le imprese distrettuali alla ricerca di nuovi equilibri fra le
dimensioni locale e globale.
L’internazionalizzazione del nuovo millennio dà più spazio agli scambi di
conoscenze, anziché limitare i rapporti esterni alla sola commercializzazione
dei prodotti. I distretti hanno affrontato la sfida facendo leva sulla capacità di
auto-organizzazione, una risorsa che ha permesso la trasformazione delle
strutture materiali ed immateriali senza la perdita della compattezza. Per
quanto riguarda l’innovazione, il distretto si muove lungo traiettorie assestate
e sembra manifestare difficoltà ad adattarsi a cammini tecnologici esterni allo
stesso, come ad esempio l’informatica. Si tratta di identificare un possibile
modello di sviluppo che consenta lo sfruttamento delle potenzialità del web
in termini di abbattimento dei costi e delle barriere spazio-temporali e di
incremento della competitività-cooperazione, con l’evoluzione verso i
cosiddetti “distretti virtuali”.
La parte empirica ha inizio con il quarto capitolo, in cui lo studio teorico
dell’internazionalizzazione viene applicato al primo dei due distretti
analizzati, quello della zona comprendente Cusio e Valsesia (province di
Novara e Vercelli), specializzato nella produzione di rubinetteria e di
valvolame, una delle realtà produttive più dinamiche del “made in Italy”
nella meccanica specializzata. L’elevata propensione all’export ha come
principali aree di destinazione l'Europa (in particolare Germania, Francia,
Gran Bretagna e Spagna), gli Stati Uniti ma anche i Paesi del Medio Oriente.
Fra i fattori di successo vi è la tradizione metallurgica; inoltre il ruolo guida
delle maggiori imprese ha contribuito all’affermazione della qualità delle
produzioni, che rispettano i più elevati standard internazionali.
L’impresa tipo del campione analizzato è una società di capitali di medio-
piccola dimensione, a conduzione familiare. Il localismo economico nel
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distretto del Cusio-Valsesia si contraddistingue sia per lo stretto legame
storico con la realtà locale, sia per il formarsi di sistemi di imprese
specializzate e parcellizzate, fra le quali la competizione ha più spazio che la
collaborazione. Un punto di debolezza risiede nella fragilità del sistema
strategico, in cui è scarsamente presente un’esplicita strategia aziendale. Le
decisioni attuate dalla maggior parte delle imprese risultano infatti
contraddistinte più da un succedersi di iniziative e mutamenti contingenti che
da una linea di medio-lungo periodo.
I due comparti presenti sono quello della rubinetteria “cromata”, che si
rivolge al mercato idro-sanitario offrendo prodotti affidabili e differenziati
nel design e nello styling, e quello del valvolame (o rubinetteria “gialla”), che
utilizza tecnologie avanzate ed è diretto ad un uso domestico ed industriale,
distinguendosi per l’elevata funzionalità, le prestazioni e le garanzie di
esercizio. Tali prodotti hanno acquisito una crescente competitività, grazie
alla costante innovazione di prodotto, alla varietà dell’offerta, ed al rispetto
degli standard qualitativi.
I dati relativi al distretto denotano un peso rilevante e crescente degli
scambi con l’estero e, in generale, del processo di internazionalizzazione.
Tutte le imprese intervistate commercializzano i prodotti oltreconfine; il
mercato internazionale è, in media, indicato come principale rispetto a quello
locale e nazionale. La forte propensione all’export non è però accompagnata
da un altrettanto spiccata vocazione multinazionale dell’apparato produttivo.
Si sottolinea però che per un’alta percentuale di imprese la competitività
internazionale è stata insidiata dall’effetto della congiuntura economica
sfavorevole, motivo della contrazione di consumi e volumi produttivi. Le
stesse aziende, quando considerano un orizzonte temporale di medio termine,
prevedono di aumentare la propria presenza all’estero attraverso un
incremento di esportazioni e di vendite all’estero, ma anche con accordi di
collaborazione con partner locali ed investimenti per filiali o punti vendita.
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Le imprese del distretto hanno risposto alle turbolenze dei mercati facendo
ricorso alla capacità di rapido adattamento dell’offerta. Le imprese cusiane e
valsesiane hanno mantenuto, anche dopo l’espansione estera, un forte
radicamento con l’ambiente locale per ciò che riguarda alcune risorse-
funzioni. Il vantaggio competitivo sta proprio nella capacità di mettere in
relazione le specificità e le conoscenze dell’ambiente locale con le
opportunità contingenti del contesto internazionale. L’internazionalizzazione
ha riguardato in particolare la funzione commerciale: rari sono infatti i casi di
imprese che possano vantare sedi produttive in Paesi esteri.
Mettendo in connessione l’incidenza delle esportazioni con le dimensioni
aziendali, espresse in termini di fatturato, si nota come non esista una vera e
propria correlazione fra le due variabili. Gli obiettivi principali della strategia
di internazionalizzazione sono lo sfruttamento in altri mercati dei vantaggi
competitivi, lo sviluppo di un’immagine internazionale che oltrepassi il
radicamento locale e la ricerca di mercati con migliori prospettive di crescita.
I dati a disposizione indicano dunque che, pur mancando una pianificazione
strategica iniziale, raggiunta la presenza internazionale le imprese del
distretto strutturano organicamente il proprio processo decisionale, sebbene
manchi una completa formalizzazione della strategia.
La numerosità dei Paesi-mercato d’esportazione è proporzionale
all’esperienza accumulata all’estero (sintetizzabile nel numero di anni di
presenza internazionale) e dalla quota di fatturato esportato. Emerge inoltre
come la scelta dei mercati stranieri sia spesso il frutto di un’analisi in termini
di costi ed investimenti necessari e di risultati economico-commerciali
raggiungibili, anche se non è raro che sia determinata da fattori di casualità.
Per le aziende contattate esistono prospettive di sviluppo per la presenza
internazionale in nuove aree (Est Europa, Medio ed Estremo Oriente, Sud
America) ma anche all’interno di mercati già consolidati (Europa, Usa).
Data la connotazione tecnico-produttiva delle imprese, la collaborazione
con intermediari commerciali diviene indispensabile per superare le
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problematiche connesse alla modalità di presenza estera. Al tempo stesso,
l’analisi empirica mostra come ad esse non sia preclusa la possibilità di
attivare una presenza diretta nei mercati ricorrendo a filiali ed a consociate. Il
canale indiretto, benchè presente, non costituisce la modalità principale alla
quale l’impresa si affida: sembra essere preferita la forma diretta. Limitato è
il ricorso a forme che presentino una maggiore integrazione col mercato
estero, come rapporti di collaborazione con partner locali o joint venture. Le
filiali all’estero, situate principalmente in Europa ed in America, interessano
principalmente le funzioni di marketing e vendite e di logistica, e sono sedi
commerciali o uffici di rappresentanza. La dimensione aziendale costituisce
una variabile rilevante nella strategia di creare proprie sedi all’estero.
Le politiche relative alla qualità ed alle caratteristiche tecniche del prodotto,
all’immagine dell’azienda ed alla varietà e completezza della gamma sono i
principali requisiti per competere con successo a livello internazionale. Va
segnalato però anche che un’alta percentuale di aziende indica nella
competitività del prezzo uno dei fattori critici di successo. Anche i non price
factors, che riqualificano i prodotti in termini di creatività, varietà e velocità
di adeguamento al fattore “moda” (e cioè qualità del prodotto, tempi di
consegna, ampiezza della gamma, servizio) hanno assunto negli ultimi tempi
un ruolo predominante. Tra le attività di comunicazione la più ricorrente è la
partecipazione a fiere specializzate, veicolo insostituibile di promozione
internazionale. Alcune imprese dichiarano inoltre di promuovere i propri
prodotti ricorrendo a messaggi pubblicitari tramite riviste specializzate,
affissioni, esposizioni presso punti vendita o utilizzando internet. In alcuni
casi i canali di comunicazione coi clienti esteri sono strutturati con l’ausilio
della Camera di Commercio e dell’ICE.
Le imprese del Cusio-Valsesia possono vantare una significativa presenza
commerciale a livello internazionale, che tuttavia mostra segni di fragilità
dovuti principalmente all’assenza di un’efficace pianificazione strategica di
medio-lungo termine. Il conseguimento di elevate performance a livello
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esportativo non deve essere considerato un punto d’arrivo: è necessario
assicurarsi nel tempo la capacità di mantenere le posizioni acquisite. Per
ottenere tale obiettivo è necessario strutturare maggiormente la presenza
internazionale, superando la visione centrata sui soli aspetti commerciali e
puntando alla costruzione di una presenza stabile che richiede investimenti
per un’adeguata struttura organizzativa e un controllo più diretto del mercato.
Il quinto capitolo presenta invece l’indagine effettuata relativamente
all’internazionalizzazione del distretto di Biella, il polo laniero più qualificato
del mondo, dove la secolare vocazione alla tessitura ha saputo evolversi
tecnicamente senza abbandonare il riferimento alla qualità, al gusto ed alla
preziosità. L’impresa tipo del campione analizzato è una società per azioni a
conduzione familiare, di medio-grandi dimensioni.
L’analisi dei dati rilevati consente di evidenziare che si tratta di un sistema
aperto, specie nella sua parte industriale, in cui i rapporti di interscambio con
l’esterno sono dominanti: il distretto trattiene quindi al suo interno una
frazione ridotta di quanto le sue imprese producono. I dati aggregati riflettono
una situazione nella quale molte tra le componenti del sistema rivelano un
basso grado di interdipendenza: i rapporti basati sulla competizione finiscono
spesso per assumere una maggiore intensità rispetto a quelli fondati sulla
cooperazione.
L’offerta delle imprese è variegata, con un’ampia gamma di prodotti
realizzati all’interno di uno stesso comparto. Un elemento che tende ad
accomunare produzioni così varie (tessiture, lanifici, filature, maglierie,
confezioni, pettinature, tintorie) è il posizionamento dei prodotti, che si
collocano esclusivamente, o in prevalenza, su una fascia di mercato medio-
alta o alta.
L’area distrettuale è molto ben inserita sui mercati esteri, con varie
esperienze di multilocalizzazione internazionale. I motivi che spingono
un’impresa tessile a produrre all’estero riguardano solo marginalmente il
tentativo di ridurre il costo del lavoro, componente secondaria dei costi di
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produzione (ciò metterebbe poi a rischio l’alta qualità dei prodotti). Di
conseguenza, l’internazionalizzazione produttiva ha come obiettivo la
vicinanza ai mercati di sbocco, la possibilità di operare con una strategia da
insider, il superamento delle barriere doganali, oppure riguarda fasi a valle
del ciclo tessile, come la confezione.
Le forme di internazionalizzazione adottate riguardano
l’approvvigionamento delle materie prime, i mercati di sbocco ed inoltre
possono assumere forme non-equity. Oltre a sviluppare rapporti commerciali
in ambito internazionale, un quinto delle imprese del campione ha dichiarato
di avere proprie sedi all’estero o di aver attivato altre forme di
internazionalizzazione che implicano accordi di partnership con consociati
esteri (scambio di know-how) o che portano a delocalizzare parte della
produzione. La joint venture è una modalità diffusa solamente nelle aziende
maggiori, a causa delle difficoltà nel trovare partner affidabili ed omogenei.
Le scelte per il futuro sembrano essere orientate alla creazione di unità
produttive all’estero, soprattutto nei Paesi a basso costo di manodopera e con
una legislazione agevole in materia ambientale. Le aree geografiche prescelte
per le forme di internazionalizzazione strutturale rispecchiano le strategie di
consolidamento e di penetrazione su mercati con potenzialità interessanti:
sono infatti presenti l’Europa Occidentale ed Orientale, gli Stati Uniti, il
Medio e l’Estremo Oriente, i Paesi del bacino del Mediterraneo. La volontà
di servire nel modo migliore i mercati che mostrano prospettive di crescita, lo
sviluppo di un’immagine internazionale che oltrepassi il radicamento locale,
la ricerca di una maggiore efficienza produttiva e dello sfruttamento in altri
mercati dei propri vantaggi competitivi sono le ragioni principali che hanno
spinto le aziende a posizionare filiali all’estero, specializzandosi nelle
funzioni di marketing e vendite e produzione, ma anche approvvigionamento,
logistica, ricerca e sviluppo.
L’attività sui mercati esteri si caratterizza per un marcato orientamento
delle imprese verso aree economiche forti e sistemi industriali avanzati (i
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maggiori Paesi comunitari, gli Stati Uniti ed il Giappone). Solo le aziende
verticalmente integrate possono raggiungere direttamente i mercati di sbocco:
dunque una quota importante del fatturato estero del distretto viene realizzata
dalle imprese di medio-grandi dimensioni, sufficientemente strutturate da
creare al proprio interno le funzioni necessarie alla penetrazione nei mercati
esteri. Ciò non significa che le piccole imprese non siano orientate
all’esportazione, anche se molte di esse operano prevalentemente come
subfornitrici specializzate.
L’export raggiunge vari continenti: gli sbocchi principali sono rappresentati
dai Paesi dell’Unione Europea, non solo per il numero di imprese che vi
operano, ma anche per la quota di fatturato export che viene indirizzata verso
di essi. Al di fuori dell’Unione Europea, le esportazioni sono dirette
principalmente verso Paesi acquirenti di prodotti di pregio come gli Stati
Uniti; è da rilevare inoltre il crescente interesse per i Paesi emergenti
dell’Estremo Oriente (Giappone, Corea del Sud, Hong Kong e Cina), molto
attratti dal “made in Italy”. I criteri che le aziende giudicano come
determinanti nel processo di selezione dei mercati esteri sono legati ai
risultati economici raggiungibili ed ai costi necessari per la realizzazione
degli investimenti nei Paesi stranieri.
Internazionalizzazione dal lato degli approvvigionamenti significa per i
produttori biellesi creare una struttura operante all’estero che permetta di
acquistare le lane direttamente dagli allevatori, per garantire fin dal primo
stadio l’altissima qualità della produzione. Andando ad esaminare le
prospettive di sviluppo delle esportazioni, si rileva che queste sono distribuite
in modo diffuso: i mercati europei, già fra i principali importatori di prodotti
tessili, sono anche quelli verso i quali le aziende hanno allo studio buone
opportunità di sviluppo. Valide possibilità di crescita esistono anche in altri
continenti, come l’America, l’Africa ed il Far East asiatico. Proprio
l’interesse per quest’ultimo rappresenta un aspetto ricorrente che emerge
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dall’analisi delle aziende del campione, in modo particolare quelle di
dimensioni maggiori e con un’immagine di marca consolidata.
I fattori di competitività delle imprese biellesi risiedono nella ricerca e
sviluppo, che svolge una funzione molto importante per un prodotto di
qualità alta, nel contenuto moda e nel design. Il paradigma qualità-servizio-
prezzo è seguito da tutte le aziende biellesi che producono tessuti di alta
gamma. Il prezzo non è il principale elemento di competitività, in quanto le
imprese preferiscono puntare su immagine e qualità (uso di tessuti pregiati,
accuratezza delle rifiniture ed alto contenuto moda, pur sempre in un design
classico), con articoli indirizzati ad un parco clienti ristretto, composto da
consumatori attenti tanto al valore qualitativo quanto allo status del bene che
acquistano. E’ forte la tendenza a muoversi in spazi di mercato dove le
aziende possono agire in una dimensione competitiva in cui entrano in gioco
fattori non price, e cioè qualità, servizio, flessibilità, immagine e tecnologia.
Per attivare la domanda estera, e seguire la propria clientela che si
internazionalizza, le imprese operano sia con forze di vendita interne che con
rappresentanti. L’internazionalizzazione commerciale è un obiettivo già
raggiunto con successo, e rappresenta il risultato di un processo iniziato con
l’esportazione dei prodotti attraverso intermediari, e che si è poi sviluppato
con forme distributive sempre più sotto il controllo diretto delle imprese. La
partecipazione a prestigiose fiere internazionali (Idea Biella, Première
Vision) permette di presentare il proprio prodotto a clienti di tutto il mondo.
Le aziende di grandi dimensioni sono integrate verticalmente, e gestiscono
internamente tutte le fasi della lavorazione. Ciò è anche dovuto all’ampio
processo di ristrutturazione organizzativa e di concentrazione condotto negli
ultimi decenni. Il poter disporre di un prodotto competitivo e di una struttura
adeguata ha permesso di affrontare il problema della presenza sui mercati con
un atteggiamento più aggressivo e mirato, consentendo di gettare le basi per
interessanti processi di internazionalizzazione.
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L’effetto dell’11 settembre, e la congiuntura sfavorevole che ne è seguita,
hanno causato la riduzione dei consumi, il cedimento dei listini e una
diminuzione degli ordini e delle commesse. Tale periodo di stagnazione ha
aggravato l’inversione di tendenza del ciclo economico che già si stava
verificando prima degli attentati di New York. Il peggio sembra essere
passato, ci sono segnali di ottimismo per una ripresa che vanno però mitigati
data la fase d’incertezza attuale.