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bioeconomico, da quello istituzionalista a quello
transdisciplinare nato ad opera dei fondatori della rivista
Ecological Economics.
Il secondo capitolo, sulla base di questi studi, è volto a
sostenere che questa moderna concezione di Sviluppo
allargata anche all’ambiente, non è un obiettivo da
perseguire solo per i paesi industrializzati ma deve essere
perseguito anche da quelli in via di sviluppo. Gran parte di
questi ultimi è sottoposto a enormi pressioni economiche
(si pensi ad es. alla crisi debitoria dei paesi dell’America
Latina) e quindi tendono a sfruttare al massimo le risorse
ambientali rischiando così di dissipare irreparabilmente il
loro capitale naturale. Inoltre in tali paesi c’è una
dipendenza maggiore dalle risorse naturali, rispetto a quelli
industrializzati, a causa dello stato della tecnologia e della
impossibilità di poter utilizzare materie alternative. Ad es.
in molti paesi in via di sviluppo c’è una forte dipendenza
5
dai combustibili vegetali (carbone, legno), per cui se le
fonti di legname non vengono sostenute l’impatto
sull’economia sarà notevole, sia per l’impossibilità di
importare i prodotti sostitutivi derivanti dal petrolio
(Kerosene, gasolio), sia perché abbattendo una distesa di
alberi per rispondere alla domanda di legname da
riscaldamento, si pregiudica anche la capacità di
sostentamento dei terreni adiacenti.
Il terzo capitolo mette in evidenza che la crescente
interdipendenza economica ed ecologica tra i vari Stati
della terra non rende possibile affrontare i problemi
dell’ecosistema, causati dallo sviluppo industriale, con
politiche frammentate o settoriali, ma che è necessaria una
cooperazione internazionale. I primi passi in questo senso
si sono fatti con lo studio della Commissione Brundtland la
quale ha indagato, dal 1983 al 1987, sul problema
6
ambiente su scala planetaria e con la Conferenza di Rio de
Janeiro.
Il quarto capitolo, vuole cercare di indicare degli strumenti
fiscali per dirigersi verso uno sviluppo sostenibile. Dato
che le persone sono più propense a perseguire i propri
limitati interessi che a comportarsi in modo socialmente
desiderabile, spetta ai Governi ed alle comunità
internazionali, mediante l’utilizzo di una legislazione
rigida, di imposte, sussidi e altri strumenti, limitare gli
effetti indesiderati per la società contribuendo a difendere
gli interessi collettivi.
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1. La relazione tra ambiente ed economia
Agli inizi degli anni sessanta, nell’ambito di studi
economici, alcuni economisti cominciarono ad occuparsi in
modo sistematico degli effetti sull’ambiente delle attività
economiche, coniando anche un nome per la nuova
disciplina: “Environmental economics” (economia
dell’ambiente). Le economie più sviluppate, infatti, si
erano improvvisamente trovate a fare i conti con il fatto
che la crescita economica e l’industrializzazione non
avevano solo prodotto dei vantaggi, ma avevano anche
lasciato molti danni, alcuni dei quali si presentavano come
irreparabili. A breve distanza un piccolo gruppo di
economisti spostò l’accento sul problema chiave
dell’economia, ossia se questa voleva cominciare a tener
conto della propria interazione con l’ambiente.
8
Tra i primi ci fu William Kapp, che in Social Costs of
Business Enterprise, mise in evidenza che l’impresa
privata aveva fino ad allora internalizzato i profitti e
socializzato i costi privati (tra i quali quelli relativi
all’ambiente). L’analisi di Kapp prendeva le mosse dalla
teoria dei costi esterni elaborata da Marshall, della quale
già Pigou aveva presentato un adattamento alle questioni
ambientali, in un suo celebre saggio dove evidenziava i
danni prodotti ai boschi, e non risarciti, dalle scintille delle
locomotive, mostrando che il prodotto netto marginale
privato può essere, a seconda dei casi, eguale maggiore o
inferiore al prodotto netto marginale sociale.
Più tardi Kenneth Boulding, in un saggio sull’economia
della navicella spaziale, sottolineò la fine dell’era delle
risorse facili. Egli paragonava l’economia del passato a
quella del cow-boy (il quale credeva di avere di fronte una
frontiera da spostare continuamente, in pratica quindi
9
risorse infinite) e l’economia attuale a quella
dell’astronauta nella sua navicella spaziale (il quale deve
risparmiare su ogni risorsa e riciclare il massimo possibile,
in quanto le sue risorse sono limitate). Boulding metteva
l’accento sulla necessità di tener conto del concetto di
limite in economia, cadeva così il mito della crescita
illimitata e della altrettanto illimitata possibilità di
prelevare risorse dall’ambiente e di rigettarvi senza
trattamento i residui delle attività di produzione e
consumo
1
.
1
Bresso M., Per un’economia ecologica, 1996, pp. 15-19
10
1.1. I vari approcci dell’economia ecologica
Uno dei vari approcci dell’economia ambientale prende
come proprio punto di partenza gli insegnamenti delle
leggi della termodinamica. Le interazioni tra economia e
ambiente vengono ben descritte dal principio del “bilancio
dei materiali”. L’attività economica può essere vista come
un processo di trasformazione di materiali e di energia ,
dato che non è possibile distruggerli in senso assoluto
(prima legge della termodinamica), materiali ed energia,
alla fine del processo, riappariranno in forma di rifiuti e
scaricati nell’ambiente. Ciò suggerisce che quanto più
l’economia cresce, tanto maggiore sarà la quantità di rifiuti
prodotti. Se pensiamo che l’ambiente ha capacità di
assorbimento limitate, appare chiaro l’esistenza di un
limite allo sviluppo economico
2
.
2
Turner K.,Pearce D.,Bateman I., Economia ambientale, 1996, pp. 28-34
11
L’economia ecologica non deve limitarsi a sommare i
concetti tratti dalle due discipline, economia ed ecologia,
ma deve utilizzare le informazioni che da esse provengono
per individuare un nuovo paradigma, ed essere il luogo di
incontro fra ricerca ecologica e ricerca economica,
abbattendo le tradizionali barriere disciplinari.
Sebbene tale dottrina non abbia ancora un corpo di concetti
e strumenti ben definito, si possono però individuare
alcuni filoni di pensiero che concorrono alla
formazione dell’economia ecologica per cercare di
caratterizzarla meglio e di capire se essa rappresenti un
percorso utile nella ricerca di un nuovo paradigma
scientifico che risponda in modo soddisfacente ai molti
dubbi che l’economia dell’ambiente ha sollevato. Vediamo
come si possono definire i vari filoni
3
:
3
Bresso M., Per un’economia ecologica, 1996, pp. 29-38
12
1.1.1. La scuola termodinamica
La cui paternità può essere fatta risalire ai lavori di
Kenneth Boulding, e soprattutto , di Nicholas
Georgescu-Roegen. Quest’ultimo, nella sua opera The
Entropy Law and the Economic Process, propone di
riformulare la rappresentazione neoclassica del processo
economico integrandolo con i principi della
termodinamica, ricavando così due insegnamenti:
Il primo principio della termodinamica ci ricorda che,
poiché la materia non può essere distrutta, il processo
economico assorbe materie prime di valore e rigetta
alla fine del processo la stessa quantità di rifiuti senza
valore; più la produzione aumenta, più aumentano i
rifiuti;
Il secondo principio della termodinamica, ossia la
legge dell’entropia, ci ricorda che la materia/energia va
da uno stato di ordine ad uno di disordine per cui, in un
13
sistema chiuso come quello terrestre, l’uso delle risorse
riduce irreversibilmente le risorse disponibili per il
futuro.
Si potrebbe così affermare, sulla scorta dei suggerimenti
di Georgescu-Roegen, che le materie prime sono
soggette ad un degrado irreversibile e che la loro durata
dipende dalle scorte disponibili e dal tasso di consumo
annuale.
La principale obiezione a questa impostazione rileva
come sia sempre possibile contare sulla capacità
dell’uomo di inventare materiali nuovi in grado di
sostituire quelli naturali che diventassero scarsi, tuttavia
tale sostituibilità non può essere in nessun modo
considerata sicura e sempre possibile.
Recentemente un contributo di grande spessore
all’analisi di Georgescu-Roegen, è venuto da Juan
Martinez-Alier, con il suo libro Economia Ecologica. Il
14
libro ricostruisce il filone di pensiero che propone
un’analisi dei fenomeni economici basata sul contenuto
energetico dei processi e dei prodotti e non sul loro
valore in moneta. Interessanti, a tal fine, sono alcune
analisi di tipo empirico che si sono sviluppate a partire
dall’idea della contabilità energetica; ad esempio, le
ricerche sull’intensità energetica del prodotto lordo dei
diversi paesi, che hanno messo in evidenza come
esistono differenze enormi che possono andare da 1 a 20,
ciò vorrebbe dire che alcuni paesi producono una unità
di Pil con una quantità di energia venti volte inferiore
rispetto ad altri.
Tali differenze vengono spiegate sia con la
razionalizzazione dell’ uso dell’ energia, sia con la
progressiva smaterializzazione del prodotto nelle società
postindustriali. Resta tuttavia il dubbio che la minore
quantità di energia per produrre una unità di Pil nei paesi
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avanzati sia una conseguenza della specializzazione di
tali paesi che importano prodotti industriali,
semilavorati, combustibili, alimentati ad alto contenuto
energetico ed esportano tecnologie, sapere, prodotti ad
alto valore aggiunto.