4
L’Arcadia privilegia l’idillio galante e cortigiano e il quadretto campestre, cantato
in ritmi dolci e scorrevoli, che sottolineano l’aspetto musicale e cantabile della
tradizione lirica italiana.
3
L’intellettuale adesso viaggia con maggiore facilità, riflette sui costumi, dilata il
suo orizzonte d’interesse e fa suoi i modi di vita del secolo in cui vive. Il viaggio,
dunque, diventa componente peculiare della sua vita e delle sue vicende e ricerca
di nuovi e migliori condizioni sociali, di maggiori possibilità di realizzazione
professionale. Il nuovo atteggiamento mentale e l’apertura al cambiamento si
riflettono nel teatro, che diviene luogo di rappresentazione di sfondi sociali,
atteggiamenti e dibattiti d’idee che alimentano la sensibilità e l’immaginario
collettivo.
Il melodramma metastasiano
4
riproduce fedelmente il costume della società
aristocratica del suo secolo e i suoi eroi, attraverso il canto, esprimono
l’incostanza delle passioni degli amanti o un atto di fede in Dio. Tuttavia il
Metastasio non esita ad accostarsi all’animo del popolo per valorizzarne la
spontaneità del linguaggio. Goldoni, invece, nel suo teatro
5
sottopone la natura, al
tocco dei colori e delle tinte popolari della vita d’ogni giorno: nelle locande, nelle
strade, nei caffè o dentro la cerchia delle pareti domestiche. Bonari, rusteghi e
malevoli agiscono sulla scena muovendo al riso con le loro piccole manie e le loro
perdonabili debolezze.
3
Cfr. Per il quadro storico cui ascrivere le matrici ideali di quella scuola di nuova poetica, B.
Snell, L’Arcadia: scoperta di un paesaggio spirituale (1945) in La cultura greca e le origini del
pensiero europeo, trad. it. di V. Degli Alberti e A. Marietti Solmi, Torino, Einaudi, 1963, pp. 387-
418: “I pastori della poesia bucolica indugiano a suonare il flauto e a cantare più che non si
occupino di colare il siero o rimestare il formaggio”.
4
Vedi E. Sala de Felice, Metastasio,. Ideologia, drammaturgia, spettacolo, Milano, Angeli 1983.
5
Nella Prefazione alla prima raccolta delle commedie (1750) Goldoni scrive: “La natura è una
universale e sicura maestra a chi l’osserva...La commedia allora è quale deve essere, quando ci
pare di essere in una compagnia del vicinato, o in una familiare conversazione, allorchè siamo
realmente al teatro, e quando non vi si vede se non ciò che si vede tutto giorno nel mondo”.
5
Gradualmente i librettisti accentuano l’elemento comico della vicenda e
trasformano il melodramma in opera buffa che, da semplice intermezzo
dell’opera seria, (breve spettacolo di mimica e canto interpretato da due o tre
personaggi), acquistando maggiore autonomia, diviene la vera attrazione dello
spettacolo.
In questo ambito si congiungono il singolare libertinismo dell’avventuriero -
letterato Da Ponte e la sfolgorante creatività musicale di Mozart per dar vita a un
personaggio d’eccezione: un vero eroe negativo, Don Giovanni, rappresentato
nella disperata ricerca della felicità erotica individuale attraverso il fallimento, la
tortura, l’evasione nell’immaginario, lo sprofondamento nella nullità della morte.
Alla fine, spente le luci della ribalta ed esaurito il senso del puro godimento, la
beffa si scontra con la Morte che avanza, implacabile, per far sprofondare il
malvagio all’inferno in totale solitudine. Di qui assume più ricca configurazione il
mito letterario di un personaggio che è sempre rappresentato come profanatore
della autorità stabilita.
Joseph Campbell, grande studioso di miti eroici, afferma che l’eroe si propone di
liberare un nucleo di energia, precedentemente represso, e di restituirlo
all’universo umano. Tre tappe, dunque, caratterizzano il suo percorso:
a) l’emarginazione dalla realtà circostante;
b) susseguirsi di avventure;
c) ritorno all’unità primordiale con la conquista ottenuta dopo tanti travagli.
Non è sempre facile effettuare il ritorno e, a prova di ciò, sono tanti gli eroi che,
pur avendo sentito l’alienazione iniziale ed essersi lanciati nella avventura, non
riescono a reintegrare la loro conquista nel contesto originario: Prometeo, Icaro,
Lucifero, Don Giovanni.
Don Giovanni avverte la propria alienazione, cede al fascino dell’avventura, ma
proprio il suo egocentrismo gli impedisce di scendere a compromessi con la
morale e di effettuare il ritorno positivo, dannandolo in eterno.
6
“Oso asserir coraggiosamente essere stato uno spirito superiore,
un genio all’America favorevole, che scelse me stromento,
debole sì ma pieno di fuoco celeste, a questa nobile impresa.
Questo mi diede le prime mosse a partir tra voi, questo mi
distaccò da mestieri che ciecamente abbracciai, e mi spinse
quasi per forza nel sentier delle lettere; questo m’animò per
tanti anni; questo alfine mi dà forza in una età sì avanzata;
questo mi comanda imperiosamente a non desistere, a non
intiepidirmi, prima che perfezionata sia l’opera”.
6
6
L. Da Ponte, Storia della letteratura italiana in New York , 1827, II, 212.
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CAPITOLO I
LORENZO DA PONTE: IL POETA, IL MUSICISTA, IL TEATRO.
Lorenzo da Ponte nasce a Ceneda il 10 marzo del 1749. Nelle sue Memorie parla
spesso di Ceneda ma nasconde sempre che non era nato in una famiglia comune e
che non aveva il nome che rese celebre attraverso i suoi libretti. Abitava in un
ghetto di 10 famiglie ebree ed, essendo primogenito, ebbe il nome di Emmanuel.
Il silenzio sulla sua origine ebraica lascia molto perplessi anche perché ne erano a
conoscenza gli ambienti a lui vicini. Sempre a Ceneda, il 29 agosto 1763, lui,
ragazzino di quattordici anni con il padre quarantaduenne e due fratelli minori,
riceve il battesimo.
Esce di scena Emmanuel Conegliano e fa il suo ingresso Lorenzo Da Ponte.
“Era un ragazzo alto, bello, sveglio...La sua era una intelligenza dinamica veloce;
possedeva un grande spirito pratico, una memoria formidabile e una straordinaria
capacità di cogliere al volo, d’improvvisare le risposte adatte”.
7
Non faceva fatica
a ricordare i libri scovati nella soffitta di casa sua e dimostrava particolare
inclinazione per la bugia e l’adulazione. Quel 29 agosto aveva cambiato la sua
vita e questa riconvertita identità avrebbe influenzato anche il suo futuro.
7
A. Lanapoppi, Lorenzo Da Ponte, Venezia 1992, pp. 10-11.
8
Suo padre Geremia non era un pedante osservatore delle dispute rabbiniche o
delle contese teologiche cristiane, tuttavia, notando la sua intelligenza sveglia,
volle fargli studiare il latino e gli trovò un maestro rozzo, pedante e persino
manesco, che, ad ogni errore del ragazzo, serrata la mano destra con le nocche
delle dita ruvide, gli batteva la fronte per punirlo. Avendo scoperto ciò, il padre
scaraventò il maestro giù per le scale con calamaio, penne, quaderni, e per un po’
non si parlò di latino. A Ceneda non c’erano scuole pubbliche e i poveri che
avevano desiderio d’istruirsi potevano solo prepararsi al sacerdozio.
L’apprendistato avveniva in parrocchia sotto al guida di un prete che insegnava
latino, teologia e liturgia in cambio di aiuto nelle incombenze quotidiane. Grazie
all’intervento del vescovo Da Ponte, la Pia Casa dei Catecumeni a Venezia, che si
occupava della conversione e rieducazione degli infedeli turchi ed ebrei, fece in
modo che Lorenzo e i suoi fratelli fossero accolti nel seminario il I novembre ’63.
Nelle Memorie, invece, Da Ponte afferma di aver chiesto di accogliere lui e il
fratello Girolamo in seminario al vescovo di Ceneda e questi aveva provveduto
alle spese del loro mantenimento. Contemporaneamente all’iscrizione di
Lorenzo, giunge in seminario l’abate Caliari o Cagliari, che a Padova aveva
acquistato il gusto della letteratura italiana e cercava di diffonderla tra i giovani.
Inoltre dal 1724 c’era anche l’abate Egidio Forcellini, allievo di un bravo linguista
di Padova e incaricato di revisionare un popolarissimo Dizionario, il Calepinus
Septem Linguarum. Era entrato anche in seminario, sedicenne Michele Colombo
che, come Lorenzo aveva talento per rime e versi e si formò sul Tasso, la Lira del
Marino e il Metastasio. Da Ponte e il Colombo stavano sempre assieme, l’uno era
più vivace, l’altro più riservato e sensato e, se al primo era destinato d’andarsene
in giro per il mondo, al secondo era destinato di essere istitutore dei figli del conte
Lioni a Ceneda. I due ragazzi erano i più bravi, riuscivano a eludere la disciplina e
componevano sonetti, scrivendone i versi alternativamente. I primi versi del Da
Ponte contengono una richiesta di quindici o venti soldi a suo padre dove la
9
poesia per lui è un mezzo di seduzione.
8
Un sonetto d’addio con sperticate odi
viene composto per il trasferimento del rettore del seminario.
9
Pian piano il
comporre versi diviene per Lorenzo un bisogno dello spirito. Per il momento si
accontenta di scrivere, discutere con Colombo e di fondare una piccola accademia
di giovani accaniti. Lorenzo diviene sempre più bravo e tenta altri temi poetici.
Compone una canzone “A Ceneda”, di due stanze, che è connessa all’esperienza
autobiografica, e in cui compare il paragone tra le nobili anime e i cavalli in corsa,
stimolati dalla presenza di altri e migliori concorrenti. Lorenzo ha ormai 17 anni,
ai due anni di grammatica latina seguono un anno di filosofia e due di teologia.
Tutto però è complicato, nel 1768, dalla morte del vescovo Da Ponte, giacché il
suo successore è meno disponibile di lui a sostenere le spese per il seminario. Si
riesce solo a convincere il vescovo della vicina Portogruaro dove nel 1769
all’inizio del nuovo anno di corso ottiene il trasferimento. Il nuovo seminario è
meno florido del precedente. Gran fama però vi ha Giovanni Politi, insegnante di
latino, greco e retorica; specializzato in diritto canonico, piuttosto che essere
amante delle belle lettere della poesia. Forte dunque in Lorenzo il rimpianto per
Colombo e gli altri amici di Ceneda, ma a coltivare la poesia c’è Gianbattista
Pelleatti, i cui componimenti sono raccolti in cinque volumi. La poesia di Lorenzo
di quegli anni provinciale ed erudita, sparisce la vena musicale delle composizioni
precedenti e alcuni versi, nello sforzo di essere lapidari, divengono perfino
incomprensibili.
Nel 1771, per un breve periodo, soggiorna con i fratelli a Venezia, in
convalescenza dopo attacchi di malaria. Si dedica ancora a traduzioni di latino e a
discussioni che evidenziano la pedanteria lessicale e sintattica.
8
L. Da Ponte, Memorie, Garzanti, Milano, 1991, p. 6: “Mandatemi vi prego, o padre mio,
/quindici soldi o venti se potete / e la cetera pigliar in mano vogl’io / per le lodi cantar delle
monete.
9
L. Da Ponte, op. cit., p. 7. “Sù vamme or dunque, e il nuovo popol reggi, /e ascendi il nuovo
seggio, onde co’ tuoi /Fregi diventa più lodato e adorno”.
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Dall’11 febbraio al 12 marzo è a Venezia anche il giovane Mozart che, grazie al
suo viaggio in Italia, entra in contatto con i maestri più famosi e i migliori
compositori (Piccinni, Paiesiello, Jommelli). Mozart aveva già composto il
“Mitridate re di Ponto” e a Milano ottiene di comporre una “festa teatrale”,
l’“Ascanio in Alba”
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su libretto del Parini.
Ma a Venezia c’erano anche Giovanni Bertati, a cui Don Giovanni Da Ponte sarà
molto legato, e Caterino Mazzolà a cui si devono gli inizi della sua carriera come
librettista. L’uno rappresenta a Venezia, tra i suoi primi scritti, “La locanda”,
opera buffa su adattamento di una traduzione del teatro di Voltaire (in cui
compaiono nomi illustri quali Gasparo Gozzi e Melchiorre Cesarotti).
Ristabilitosi completamente dalla malaria, Da Ponte ritorna per altri due anni nel
seminario di Portogruaro, ma nel 1773, cedendo al fascino della capitale,
abbandona la tranquillità chiostrale per seguire la libertà e l’universo femminile,
da cui per tanti anni di rigorosa disciplina era stato tenuto lontano.
Anche altri amici del seminario di Ceneda seguono la sua scelta, tranne il
Colombo che teme l’amore che rende già Lorenzo “magro, macilento e mesto”.
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A Venezia Lorenzo incontra Angela di nobile famiglia decaduta e con un fratello
che è giocatore d’azzardo; si lascia travolgere da vincite e perdite; poi s’innamora
di lui una principessa napoletana che gli propone di fuggire in un altro stato e,
dopo ancora, un mendicante ricchissimo gli offre tutti i suoi tesori e un buon
matrimonio con la bellissima figlia sedicenne.
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L’Ascanio andò in scena a Milano il 17 ottobre 1771 sotto la direzione di Wolfgangerl. Le
reazioni sono riportate in Abert Hermann, Mozart, Milano, Il Saggiatore, 1984, 3 voll., pp. 212-
213.
11
Lanapoppi, op. cit., p. 46.