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Le uniche notizie di cui veniamo a conoscenza vengono
diffuse dai mass media, che offrono un'immagine stereotipata e
distorta degli zingari, presentati, per lo più, sotto l'aspetto della
devianza e del folklore: un popolo strano, il cui nome evoca una
vita errante, di nomadismo, di libertà, ma anche di miseria, di
mendicità, di piccoli lavori e di pratiche come la divinazione o un
rudimentale commercio.
A questo bisogna anche aggiungere l'idea che ognuno si può
fare dello zingaro che incontra per strada: donne e bambini sporchi,
con gli abiti spesso sdruciti, che cercano di impietosire i passanti
chiedendo l'elemosina. Da qui l'opinione comune che i Rom siano
un popolo di accattoni, di ladri e parassiti, che non meritino altro
che di essere biasimati e disprezzati e a farne le spese sono sempre
e comunque i bambini, gli adolescenti, i giovani.
I pregiudizi verso i Rom, tipici della nostra società, si
riflettono sui minori, generando un forte sentimento di disillusione e
di sfiducia che, anche se apparentemente potrebbe sembrare un
problema di poco conto, in realtà è alla base di problematiche ben
più serie. Scarsa o addirittura assente scolarizzazione, elevato tasso
di disoccupazione (logica conseguenza della mancata
scolarizzazione), devianza minorile e accattonaggio sono solo la
punta di un iceberg molto più grande.
Le problematiche che affliggono i minori Rom sono ben più
complesse e vanno inserite sia nell'ambito della loro cultura sia nel
contesto della società nella quale vivono. Il problema del disagio
giovanile investe con violenza anche il nostro mondo
industrializzato e molto probabilmente ne è la logica conseguenza:
tossicodipendenza, microcriminalità, alcoolismo, perdita dei valori
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e della propria identità, conformismo, tempesta mediatica… sono
solo alcuni aspetti del disagio che i giovani si trovano a vivere
nell'attuale società "civile" e di tutte queste problematiche ne
risentono anche i minori Rom, i quali vivono un doppio disagio, sia
nei confronti della propria cultura, sia nei confronti della nostra
società. Ecco allora come il problema dell'integrazione sociale
appaia più complesso di quanto si possa immaginare: integrazione
sì, ma fino a che punto? E' giusto intaccare la cultura di un popolo
così antico per omologarli a noi? Ma, al tempo stesso, è giusto che
essi continuino a vivere come dei fantasmi ai margini della nostra
società?
Sono questi gli interrogativi a cui ho cercato di dare una
risposta in questo mio lavoro. Non è stato semplice rispondere a
questi quesiti, per farlo mi ci è voluto oltre un anno di lavoro, di
osservazione diretta, di vita vissuta insieme, di tentativi e fallimenti
che mi portavano a rivedere tutte le mie ipotesi iniziali. Sono partita
ponendomi le domande più elementari sulle origini, la cultura e le
tradizioni del popolo Rom, ma non ho tralasciato le loro
problematiche, soffermandomi in particolare sull’universo
giovanile. Dopo di che ho voluto toccare con mano quanto avevo
letto sui libri per verificare attraverso l’esperienza diretta e
l’osservazione quanto poteva corrispondere alla realtà e così ho
analizzato la comunità Rom di Messina ed in particolare il mondo
dei bambini e degli adolescenti, calando la loro realtà all’interno del
tessuto sociale in cui sono inseriti e dimostrando come i minori
della comunità Rom di Messina si siano integrati perfettamente con
il tessuto deviante della città. A questo punto mi sono soffermata
sui vari progetti di "integrazione" che le istituzioni locali e le
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associazioni di volontariato hanno elaborato e cercato di portare
avanti nel corso degli anni e ho capito che l'errore più grave che
spesso si commette è proprio quello di volere assimilare a tutti i
costi i Rom in una società più onesta, che identifichiamo
esclusivamente con la nostra. Spesso riteniamo con indiscussa
certezza di essere noi la società "civile", cui le altre devono
attingere, compresa quella Rom, ed è per questo che ho cercato di
elaborare delle proposte di intervento che non abbiano come punto
di arrivo l'assimilazione dei nomadi all'interno della nostra società,
ma piuttosto dei progetti che permettano ai Rom di riscoprire prima
di tutto le radici della propria cultura. Deve essere questo il punto di
partenza per costruire una società multiculturale, altrimenti ogni
sforzo è vano, e questo è possibile solo se ci poniamo sullo stesso
piano, riconoscendo la nostra reciproca appartenenza al genere
umano, da cui derivano gli stessi diritti ma anche gli stessi doveri.
Ma prima di esporre le conclusioni a cui sono arrivata dopo
svariati mesi di lavoro, credo sia opportuno partire dalle
motivazioni che mi hanno spinto a scegliere un simile argomento
per la mia tesi di laurea.
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2. “curiosità ed incoscienza”
La scelta di un tale tema per la mia tesi di laurea è nata quasi
per caso. Dopo aver svolto una ricerca sui Rom durante il corso di
Sociologia Politica e dopo aver studiato la storia, la cultura e le
tradizioni di un popolo così vicino a noi ma al tempo stesso così
distante, è sorta in me la voglia di andare più a fondo e di non
limitarmi ad una semplice raccolta di nozioni e dati. Ho sentito
l'esigenza di conoscere meglio il popolo Rom e soprattutto i minori
Rom, forse perché, vivendo sempre a contatto con bambini e
adolescenti, ho voluto confrontare le loro problematiche ed
esperienze con quelle di altri minori che, in genere, vengono
relegati ai margini della nostra società. Ho cercato di avvicinarmi a
loro non con l'atteggiamento di chi vuole insegnare o di chi si
ritiene superiore, ma con l'atteggiamento di chi vuole imparare da
loro, di chi vuole capire il loro modo di pensare e di vivere, i loro
problemi e difficoltà, le loro esigenze e richieste, il loro mondo. Ho
cercato di pormi sul loro stesso piano e, nonostante molti problemi
e una iniziale diffidenza, è nato tra di noi un bel rapporto di
reciproca fiducia che mi ha permesso di capire come spesso
prendiamo sotto gamba certe problematiche che, in realtà, ci
dovrebbero toccare molto da vicino. Ho iniziato la mia analisi
consapevole di essere “ignorante” in materia e di non essere in
possesso né degli strumenti adatti per affrontare l'argomento né del
tempo adeguato per poterlo approfondire. Inoltre, essendo
l’ignoranza una variabile limitante nell’orizzonte conoscitivo
dell’uomo, non mi sono resa conto sin dall’inizio delle difficoltà,
degli imprevisti, delle emozioni e delle gratificazioni a cui stavo
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andando incontro. Mi sono lasciata trasportare e attirare soltanto da
quell’alone di mistero che avvolge il popolo Rom, un popolo che mi
ha sempre incuriosito, anche se le mie conoscenze iniziali si
limitavano agli stereotipi e all’immagine che i luoghi comuni ci
presentano: un’immagine dall’aspetto folkloristico, imbevuta di
magia, musica e danza, dove risalta solo l’esteriorità simbolica ma
rimane nascosta la profondità interiore. Il mondo Rom mi
incuriosiva ma al tempo stesso mi incuteva un senso di ostilità e di
timore verso questo “strano” popolo. Sono stati questi i sentimenti
che mi hanno spinto a scegliere questo tema: la curiosità, dettata
dalla voglia di conoscere, e l’incoscienza, poiché mi stavo per
tuffare in un mondo totalmente sconosciuto. Il tema del viaggio
costituisce l'essenza della cultura Rom ed è per questo motivo che
ne ho voluto fare il filo conduttore della mia tesi: viaggiando verso i
Rom e con i Rom mi sono arricchita, ho imparato più di quanto non
potessi immaginare e sono sicura che questo mio lavoro non rimarrà
isolato, non sarà solo una breve parentesi della mia vita, ma il punto
di partenza per un'avventura affascinante e misteriosa attraverso un
mondo per me prima sconosciuto.
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CAPITOLO 1
METODOLOGIA DELLA RICERCA
§ 1.1 Difficoltà del reperimento bibliografico
Di solito quando una persona intraprende un viaggio ha ben
chiara la meta che vuole raggiungere e, quindi, ricerca prima di
partire le eventuali strade da percorrere e i mezzi da utilizzare, porta
con sé la cartina geografica, consulta i bollettini meteorologici, si
accerta di avere tutto il necessario, anche per gli eventuali
imprevisti. Per me non fu così. L’unica cosa chiara era l’obiettivo
da raggiungere, ovvero studiare le problematiche dei minori Rom
ed elaborare delle proposte di intervento che li vedessero coinvolti
in prima persona, una meta che vedevo lontana e difficile da
raggiungere e che suscitava in me perplessità e timori.
Iniziai, così, questo viaggio, cosciente che le informazioni
dovevo procurarmele di volta in volta durante il percorso; se da un
lato ciò comportava una maggiore difficoltà, dall’altro mi
consentiva di muovermi liberamente e non entro schemi fissi e già
precostituiti, permettendomi di cogliere l’immediatezza, le
curiosità, le novità e gli aspetti rimasti nascosti.
Trovai subito in Internet molto materiale sulle problematiche
generali, ma incontrai numerose difficoltà quando focalizzai la mia
attenzione sulla conoscenza della cultura Rom. Inizialmente cercai
tale materiale nelle biblioteche di Messina e Reggio Calabria,
pensando che fossero il luogo più aggiornato e provvisto, ma ebbi
una grande delusione. Ogni biblioteca conteneva un quantitativo
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molto scarso di libri sui nomadi, in tutto ne recuperai non più di
dieci, di cui alcuni erano solo servizi fotografici, altri erano scritti in
lingua straniera, quasi tutti erano stati stampati una trentina di anni
fa. Nessun libro conteneva aggiornamenti, tutti trattavano le stesse
argomentazioni, riguardanti le origini, la musica e la danza in modo
generico. In un primo momento, presa dallo sconforto,
colpevolizzai l’inefficacia del servizio bibliotecario, poi andai oltre
e mi chiesi: “Come mai c’era così poco materiale sui Rom? Come
mai si conosceva così poco di questo popolo?”.
Ripresi il viaggio e decisi di recarmi al Comune di Messina per
parlare con qualche assistente sociale, qualche ufficio, qualche
operatore…insomma, qualcuno che si occupasse dei Rom e che,
quindi, mi potesse dare tutte le informazioni di cui avevo bisogno.
Scoprii che al Comune c’era un’assistente sociale che si occupava
proprio del campo nomadi, la Dott. Oliva, e mi recai subito da lei.
La scoperta mi confortò, pensai che finalmente potevo parlare con
qualcuno, fare delle domande, avere delle risposte immediate,
consultare documentazioni e aggiornamenti. Insomma, pensavo che
tutto sarebbe diventato chiaro e comprensibile, ma invece emersero
nuove difficoltà.
Innanzi tutto, non fu facile fissare un appuntamento né
ottenere i dati che mi servivano, nonostante la richiesta scritta fatta
a nome dell’Università: raggiunsi il mio intento solo dopo aver
parlato, spiegato e quasi supplicato i responsabili del Comune. Dal
colloquio con l’assistente sociale mi resi conto per la prima volta
che quell’alone misterioso che tanto mi attirava stava scomparendo
per lasciare emergere un mondo pieno di precarietà e
problematicità. Ero andata lì per chiedere ma in realtà non sapevo
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cosa chiedere, volevo sapere tutto ma il tutto mi sfuggiva: non me
ne rendevo conto, ma mi stavo veramente avvicinando per la prima
volta alla realtà dei Rom. La Dott. Oliva mi sembrava restia
nell’aiutarmi a comprendere, era molto vaga e si celava in uno
strano silenzio che faticavo a comprendere. Si limitò a dirmi che
tutto quello che mi poteva servire l’avrei potuto trovare solo
andando di persona al campo e osservando con i miei occhi. Mi
diede il nominativo di una famiglia del campo ma non presi in
considerazione la sua proposta, che mi sembrò, anzi, un modo
delicato per liberarsi di un impiccio.
Un altro aspetto, che non considerai all’inizio ma che si
dimostrò limitante nel mio procedere, fu il ritmo dei tempi di
lavoro. La possibilità di fissare degli incontri con altri operatori e
assistenti sociali all’USSM, al Provveditorato agli Studi, all’Opera
Nomadi di Reggio Calabria e all'Associazione Chirone richiedeva
dei tempi molto lunghi. Infatti, da quando iniziai il mio “viaggio”
fino al mio primo ingresso al campo nomadi trascorsero circa 10
mesi. Mi resi, quindi, conto che dovevo viaggiare con dei ritmi
totalmente diversi da quelli che avevo previsto all’inizio e che gli
imprevisti erano molti di più rispetto a quelli preventivati.
Intanto, decisi di recarmi a Roma a cercare del materiale al
Centro Studi Zingari, dove ebbi la fortuna di conoscere don Bruno
Nicolini e le sue collaboratrici, il cui aiuto mi fu prezioso per
trovare alcuni libri più recenti che mi permisero di ottenere una
serie di informazioni sul passato dei Rom, utili per iniziare a
comprendere la loro realtà di oggi.
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§ 1.2 Difficoltà di entrare nel mondo dei Rom
Adesso credevo davvero di essere pronta per il mio viaggio,
col mio zaino pieno di tutte le informazioni di cui avevo bisogno:
sapevo chi erano i Rom, da dove provenivano, sapevo come lo
Stato italiano si era fatto carico delle loro problematiche, conoscevo
le varie interpretazioni sull’universo dei minori Rom, ma ancora,
nonostante tutto, qualcosa non andava.
Improvvisamente ebbi un’illuminazione: perché non
rivolgermi alla Caritas Diocesana? Presso la Caritas Diocesana di
Messina è stato istituito già da una decina di anni un gruppo di
volontari per i nomadi, seguito dalle Suore Francescane dei Poveri,
che, insieme ad altre persone di buona volontà delle varie comunità
parrocchiali della città, frequentano e visitano tuttora con regolarità
il campo nomadi di San Raineri. Il gruppo di volontari ha sempre
tentato di relazionarsi e fare amicizia con i Rom, cercando di
conoscere e condividere usanze, modi di vivere e di essere di una
popolazione diversa dalla nostra. Frequentano settimanalmente le
diverse famiglie che si avvicendano nel tempo, instaurando rapporti
di confidenza, ascoltando i numerosi bisogni che man mano si
presentano: sanitari, di sostentamento, giuridici, discordie interne
ecc… Era l’ultima spiaggia alla quale potevo approdare, così fissai
un appuntamento con uno dei responsabili del gruppo di volontari,
Graziano Orrù. Da quell’incontro misi a fuoco quanto avevo già
visto e vissuto in precedenza e fu così che presi in considerazione la
proposta fattami in precedenza dalla Dott. Oliva di andare di
persona al campo nomadi e di ricavare da me le informazioni che
cercavo. Graziano, con trasparenza e schiettezza, mi espose le
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problematiche del campo, facendomi capire che le difficoltà erano
tante e dipendevano dalla precarietà di diversi fattori. Entrare in un
gruppo sociale, infatti, comporta in genere uno squilibrio interno ed
entrare in un campo nomadi significa alterare totalmente l’assetto di
chi ci vive, già così precario di natura, soprattutto se chi deve
entrare non è un nuovo nucleo di Rom ma un gagiò. La presenza di
un estraneo per loro ha significati quasi sempre negativi: viene
identificato come colui che porta cattive notizie, che viene a creare
sofferenza e scompiglio, che vuole appropriarsi della loro cultura,
che vuole carpire qualche loro segreto per fare notizia o soldi.
Sicuramente la violenza e la chiusura di questo popolo è il frutto di
una violenza fisica e morale subita per secoli interi. Solo allora mi
resi conto del perché esisteva pochissimo materiale sui Rom.
In questa situazione così complessa decisi, tra titubanza e
timori, di provare lo stesso a dare avvio all’esperienza all’interno
del campo nomadi insieme ai volontari della Caritas. Fissammo
allora la data del primo incontro (4 marzo 2003) e stabilimmo che
sarei andata con loro ogni martedì. Emerse, però, a questo punto un
altro problema: con che ruolo mi sarei presentata ai Rom? Essendo
molto gelosi e custodi del loro patrimonio culturale, non potevo
certo presentarmi come studentessa in ricerca di materiale per la
propria tesi, ma non potevo neanche fingere di essere un’assistente
sociale o una nuova operatrice perché avrei dovuto svolgere dei
compiti ben precisi. Pensai allora di presentarmi come una
volontaria che aveva bisogno di fare esperienza e di conoscere un
po’ i Rom. E fu così che finalmente ebbe inizio questa nuova
avventura!
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§ 1.3 La mia prima esperienza al campo: paure e
impressioni…”qualcosa non va”
Se devo proprio essere sincera, la mia prima esperienza al
campo nomadi fu traumatica. In attesa del fatidico giorno ripensai a
tutto ciò che avevo vissuto fino ad allora e mi assalirono molti
dubbi e interrogativi inquietanti. Chi ero io per entrare nel loro
mondo, appropriarmi di qualcosa ed uscirne, forse senza neanche
dire grazie? In nome di quale motivazione, con quale diritto mi
permettevo di entrare in una società che stava attraversando un
periodo di crisi per ritrovare se stessa?
Provai nella mia mente a capovolgere la situazione e ad
immaginare qualcuno che stesse ad osservarmi e scrutarmi per
alcune ore: ero sicura che non sarei mai riuscita ad accettarlo,
nonostante vi potessero essere delle motivazioni scientifiche molto
importanti, mi sarei sentita deturpata della mia libertà. Allora cosa
dovevo fare? Cosa avrei detto in quei momenti? Come mi dovevo
comportare? Come mi avrebbero accolto? Che opinione si
sarebbero fatti di me, sarei stata sempre un’intrusa per loro o si
sarebbe instaurato qualche legame?
La notte prima la passai insonne e le paure non se ne andarono
nemmeno quando il giorno dopo feci per la prima volta il mio
ingresso al campo insieme ai volontari della Caritas.
I Rom erano quasi tutti fuori dalle baracche, ognuno
impegnato nelle proprie attività quotidiane, ma tutti avevano gli
occhi puntati su di me. Iniziai in silenzio il giro del campo assieme
a Graziano e a suor Gabriella ma non riuscii a focalizzare
l’attenzione su un unico aspetto, cioè quello che più mi interessava,
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perché fui attratta da tutto ciò che mi circondava. Era difficile
concentrare l’attenzione solo sui minori perché questi facevano
parte di un contesto ben più ampio, che al tempo stesso mi attirava,
turbava e coinvolgeva.
Mi accorsi di essere un’intrusa, c’era qualcosa che non andava:
sembrava che si fossero capovolti i ruoli, non ero io l’osservatrice
ma l’osservata. Questa sensazione si ripeté per molte altre visite che
feci al campo e mi dovetti presto rendere conto che l’unico
strumento concreto che avevo a disposizione per la mia ricerca,
l’osservazione diretta, non riusciva ad emergere.
Capii da subito che mi stavo illudendo di osservare, non era
quella la prospettiva giusta dalla quale partire. Decisi, dunque, di
riprendere in mano i manuali di Metodologia della Ricerca. In un
primo momento pensai che il metodo più utile potesse essere quello
basato sulle storie di vita e sulle interviste, ma poi mi dovetti
ricredere: la realtà Rom è talmente particolare che non può essere
studiata attraverso i comuni metodi di ricerca. Intervistare un Rom
non è una cosa difficile, è addirittura impossibile e questo per due
motivi: innanzi tutto, come già accennato, i Rom sono molto gelosi
della loro cultura, per cui non diranno mai la verità nel corso di
un'intervista, sono portati a dire solo ciò che l'intervistatore vuole
sentirsi dire; in secondo luogo, il Rom vive nel presente, è fatalista,
non si cura del futuro e, quindi, non riesce a capire l'importanza di
una ricerca.
Non vedendo alcuna utilità in un'intervista o in un questionario
strutturato, è ovvio che non si sforzi più di tanto nel dare le risposte,
evitando o addirittura imbrogliando in quelle più fastidiose o che
comunque richiedono un maggiore impegno.
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Capii allora che l'unico metodo di cui mi potevo servire era
quello dell'osservazione diretta.
Ma prima di esporre le conclusioni a cui sono arrivata
attraverso le mie osservazioni credo sa opportuno fare un breve
excursus sul metodo di ricerca da me utilizzato.
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§ 1.4 Il metodo della ricerca: l’osservazione diretta
Cosa significa osservare? Il termine osservazione è abbastanza
vago, in quanto può riferirsi sia ad una forma di conoscenza
quotidiana o occasionale sia ad una metodologia con presupposti
specifici, utilizzata in varie scienze. L’osservazione occasionale può
essere definita come l’attività che quotidianamente si compie
quando si analizzano le informazioni provenienti dai nostri organi
di senso. I dati che si ricavano da questo tipo di osservazione non
vengono né raccolti né elaborati se non per la continuazione del
nostro comportamento immediato. L’osservazione diventa una
tecnica scientifica quando:
1. Serve alla realizzazione degli obiettivi di una ricerca;
2. È programmata sistematicamente, nel senso che non si verifica
per caso;
3. È registrata in maniera sistematica e messa in relazione con
proposizioni generali;
4. È soggetta a prove e controlli di validità, fedeltà e precisione,
come ogni altra tecnica scientifica;
5. È un insieme di interrogativi, ipotesi e fasi di svolgimento.
Detto questo, non bisogna, però, pensare che l’osservazione sia
una tecnica di rilevazione dei fatti umani osservabili, anzi: essa non
pretende di fotografare la realtà circostante, ma ha come oggetto di
ricerca ciò che non è immediatamente osservabile. L’osservazione,
infatti, non è finalizzata a ordinare quanto osservato in caselle
categoriali precostituite né a razionalizzare il mondo per renderlo
più tranquillo e manipolabile.