L’apertura delle frontiere permette un aumento della mobilità d’imprese e
capitali e la maggior parte degli affari si svolge, di conseguenza, a livello
internazionale. Molte imprese, dunque, possiedono sedi secondarie o
capitali all’estero. Quando una di queste imprese subisce un crollo
economico, le conseguenze si estendono oltre i confini dello Stato che
ospita la sede principale dell’impresa. Proprio per questi motivi si
dovrebbe formare, secondo alcuni autori
2
, un diritto commerciale
internazionale avente alla base una disciplina del diritto fallimentare
internazionale. Tale diritto dovrebbe consistere in un sistema di norme
dirette a regolare organicamente le procedure collettive che nei diversi
Paesi presentano carattere d’estraneità rispetto al territorio nazionale
3
.
In realtà questi problemi sono sempre esistiti e riguardano sia Paesi
industrializzati che di nuova industrializzazione, ma con l’instaurazione
del Mercato Unico si sono fatti più pressanti, soprattutto perché è cambiato
il regime giuridico utilizzato dalle grandi imprese. Mentre prima, infatti, le
sedi estere erano strutturate come autonome, le cd società figlie, e il loro
fallimento non coinvolgeva la società madre, con l’instaurazione del
Mercato Unico le imprese sono incoraggiate a stabilire sedi estere sotto
forma di filiali e di succursali e a creare con queste rapporti anche
giuridici.
Ora i problemi che derivano dall’insolvenza transnazionale riguardano
soprattutto l’individuazione del giudice competente, la determinazione
della legge applicabile e il riconoscimento dei provvedimenti pronunciati
all’estero. In particolare si tratta di stabilire se una decisione dichiarativa di
2
Tra gli altri v. GOTTWALD, Insolvenze transfrontaliere: tendenze e soluzioni europee e mondiali, in Riv. Trim. Proc.
Civ. 1999, p. 149 e ss.
3
PROTO, Verso un diritto fallimentare europeo, bilanci e prospettive, in Il fallimento, 1986, p. 941 e ss.
fallimento pronunciata in un certo Stato debba produrre i suoi effetti
ovunque il debitore abbia beni o creditori, oppure se si debbano dichiarare
più fallimenti in tutti gli Stati in cui viene accertata l’insolvenza del
debitore. In altri termini, se si deve aderire al principio dell’universalità del
fallimento o a quello della territorialità. L’adesione all’uno o all’altro
principio comporta diversi problemi a livello internazionale
4
.
4
CARBONE, Nuova ipotesi di disciplina italiana sull’insolvenza transfrontaliera, in Il fallimento, 2000, p. 950 e ss.
CAPITOLO 1
Cenni storici
1. Le prime proposte di creazione di un diritto fallimentare
internazionale
Tentativi di risolvere il problema della creazione di un diritto
internazionale fallimentare sono stati effettuati non solo a livello
comunitario, ma anche attraverso accordi tra singoli Stati e nell’ambito di
diverse istituzioni.
Le difficoltà sono tante, dovute alle profonde differenze esistenti tra gli
ordinamenti nazionali derivanti dalle diversità storiche e culturali
5
.
La definizione di fallimento e il suo scopo hanno valenza internazionale.
Anche lo svolgimento della procedura è pressoché lo stesso: il fallimento è
dichiarato da un giudice, la fase preparatoria è indirizzata alla
determinazione dell’attivo e del passivo, un curatore o un sindaco prende
possesso dei beni del fallito, nella fase di liquidazione viene realizzato
l’attivo e vengono soddisfatti i creditori secondo un preciso ordine.
Le differenze sussistono, invece, per quanto riguarda i presupposti
soggettivi, laddove quello oggettivo è ovunque lo stesso: lo stato
d’insolvenza. Alcuni Stati, infatti, assoggettano a fallimento solo gli
imprenditori commerciali (ad es. Italia e Belgio), altri applicano procedure
5
ZAMPERETTI, NODARI, Verso l’armonizzazione comunitaria nel diritto fallimentare. Lo stato dell’arte, in Giur.
Comm., 1997.
d’insolvenza anche a persone fisiche e morali (ad es. Germania e Paesi
Bassi). Alcuni ricomprendono nel patrimonio del debitore fallito solo i
beni presenti, altri anche quelli futuri. E’ diverso anche il regime di altri
aspetti quali: l’azione revocatoria, la disciplina dei rapporti di lavoro, gli
effetti del fallimento sui rapporti pendenti, l’efficacia della clausola di
riservato dominio, la nullità e l’annullabilità degli atti compiuti dal fallito
prima dell’apertura della procedura, la durata del periodo sospetto, il ruolo
dell’assemblea dei creditori. Inoltre, in alcuni Stati si tende a privilegiare
la tutela degli interessi dei creditori, e quindi si privilegiano le procedure
miranti alla liquidazione del patrimonio del debitore, in altri, invece, si
privilegia il salvataggio dell’impresa.
Solo alcuni Stati adottano i principi dell’unità e dell’universalità del
fallimento (ad es. Belgio), mentre altri sposano il principio della
territorialità e della pluralità
6
.
Ora, mentre in passato, i casi di insolvenza transfrontaliera erano pochi
7
,
dalla fine del diciannovesimo secolo, con l’aumento di casi di questo tipo,
si sviluppa un vero e proprio movimento tendente ad elaborare una
disciplina internazionale sul fallimento. Lo scopo è adottare una
convenzione universale. Le ragioni che hanno indotto gli Stati a procedere
in tale direzione sono relative al tentativo di assicurare che i procedimenti
fallimentari riescano a mantenere, al di là delle barriere statali, quelle
caratteristiche di unità che li contraddistinguono nell’ambito dei singoli
6
CANDELARIO MACIAS, Il diritto concorsuale in Europa, Padova, 2001
LUPONE, Verso una disciplina bilaterale delle procedure concorsuali, in Studi in onore di Mario Giuliano, Padova ,
1989
7
Si possono ricordare i casi Barcelona Traction, Roll Royce, Intra Bank, citati in DANIELE, Il fallimento nel diritto
internazionale privato e processuale, Padova, 1987
ordinamenti interni, in vista della specifica funzione che ai procedimenti
stessi risulta assegnata e del buon esito del loro svolgimento.
Le prime discussioni sul tema si tennero nel 1877 al Congresso di
Anversa, organizzato dall’Associazione per la riforma e la codificazione
del diritto delle genti; e proseguirono poi nel 2° Congresso giuridico
italiano internazionale, tenutosi a Torino nel 1880.
In tali occasioni vennero formulati alcuni principi fondamentali che le
convenzioni avrebbero dovuto seguire: competenza determinata in base al
luogo dove il commerciante ha il suo principale stabilimento, applicazione
alla procedura della lex fori concursus con alcune eccezioni per diritti reali
e diritti di prelazione.
Tra le varie proposte di codificazione la più significativa fu realizzata
dall’Institut de droit international, che nel 1894 elaborò un progetto di
norme generali sui rapporti internazionali in materia di fallimento.
L’iniziativa però non ebbe alcun seguito.
Della materia si occupò anche l’International Law Association nei suoi
vari congressi.
Un altro progetto fu elaborato nel corso della V Conferenza di diritto
internazionale privato tenutasi all’Aia nel 1925. il progetto del 1925 si
suddivide in 10 articoli ed è concepito come base per convenzioni
bilaterali future. Principio fondamentale è quello dell’universalità e si
prevede il riconoscimento automatico delle sentenze, l’estensione
automatica degli effetti, l’exequator solo per procedere ad azioni esecutive
e l’applicazione della lex fori concursus con eccezioni per i privilegi e i
diritti reali. Il progetto però non incontrò il favore dei governi e fu
abbandonato
8
.
Diverse altre proposte furono elaborate da privati: Anselmo Feuerbach,
Jitta, Bustamante
9
.
Sempre all’Aia, dal 10 al 14 giugno 1963, si tenne poi il II Congresso
internazionale dei magistrati dove vennero fatte due proposte. La prima
riguardava l’elaborazione di una convenzione internazionale che
assicurasse l’unicità della procedura e permettesse il riconoscimento
automatico delle sentenze di fallimento dichiarate all’estero
10
. La seconda
proposta consisteva nell’istituzione di un tribunale fallimentare
internazionale avente giurisdizione su tutto il territorio comunitario. Il
tribunale avrebbe dovuto essere competente a pronunciarsi sul
riconoscimento di un provvedimento dichiarativo di fallimento e
sull’estensione automatica degli effetti
11
.
8
Su tale vicenda v. DANIELE, Il fallimento nel diritto…, Padova, 1987
9
Cfr. GIULIANO, Il fallimento nel diritto processuale civile internazionale, in Enciclopedia del diritto, XVI, Milano,
1967
10
CIMINO, Proposte per una disciplina del fallimento nei Paesi del Mercato comune europeo, in Dir. Fall., 1963, p.
300
11
CIMINO, Un tribunale fallimentare comune come soluzione transitoria del problema dell’armonizzazione delle
legislazioni in materia di diritto fallimentare, in Dir. Fall., 1967, p. 324
2. Le iniziative dei singoli Stati
Nell’impossibilità di elaborare convenzioni multilaterali, gli Stati si
orientarono verso la stipulazione di convenzioni bilaterali.
Per quanto riguarda l’ambito comunitario, le più riuscite sono quella tra i
Paesi Scandinavi (Nordic Bankruptcy Convention) e il Trattato Benelux.
La prima è stata stipulata nel 1933 tra Danimarca, Finlandia, Islanda,
Norvegia e Svezia, la seconda nel 1961 tra Belgio, Paesi Bassi e
Lussemburgo ma non è mai stata applicata a causa della mancata ratifica
da parte del Lussemburgo. Le due convenzioni presentano molti punti in
comune: si tratta di convenzioni di diritto internazionale privato e
processuale e non di diritto uniforme, c’è un riconoscimento automatico
dell’efficacia extraterritoriale della sentenza dichiarativa di fallimento, si
applicano i principi dell’unità e universalità della procedura, con
conseguente divieto di aprire procedure concorsuali nei confronti dello
stesso debitore e spossessamento dei suoi beni ovunque essi siano situati,
viene applicata la lex fori concursus salvo disposizioni particolari della
stessa convenzione, il curatore può esercitare i propri poteri negli altri Stati
senza bisogno di preventivo riconoscimento della sentenza
12
.
Anche l’Italia ha stipulato delle convenzioni in materia. Alcune si
riferiscono esclusivamente alla materia fallimentare, altre si occupano
della competenza giurisdizionale in materia civile e commerciale e dettano
solo alcune norme specifiche relative alle procedure concorsuali. Tra
12
COMMISSIONE DI STUDIO PER LA REVISIONE SISTEMATICA DEL DIRITTO COMMERCIALE,
ALLEGATO 4 consultabile al sito www.giustizia.it
queste convenzioni possiamo citare l’accordo in materia di fallimento
stipulato nel 1924 tra Italia e Stato Serbo – Croato – Sloveno; la
Convenzione tra Italia e Francia del 30 giugno 1930; la Convenzione di
amicizia e di buon vicinato stipulata tra Italia e Repubblica di San Marino
nel 1939; la Convenzione tra Italia e Gran Bretagna sul riconoscimento e
l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale stipulata il 7
febbraio 1964; la Convenzione tra Italia e Austria del 12 luglio 1977
13
.
Anche in questi casi si ha l’applicazione dei principi dell’universalità e
dell’unità del fallimento, nonché il riconoscimento automatico delle
sentenze e l’estensione degli effetti della procedura nell’altro Stato
contraente.
Altri Stati invece si sono orientati verso una soluzione unilaterale,
introducendo nel loro ordinamento delle norme di diritto internazionale
privato.
E’ il caso della Germania e della Svizzera, che hanno elaborato una
disciplina ispirandosi al Bankruptcy Reform Act, adottato dagli Stati Uniti
nel 1978.
La Germania, nella legge introduttiva alla disciplina fallimentare, prevede
espressamente una serie di regole di diritto internazionale dell’insolvenza.
La legge, entrata in vigore il 1° gennaio 1999, prevede il riconoscimento
automatico del provvedimento d’apertura di una procedura d’insolvenza
quando proviene da un’autorità straniera competente e i suoi effetti non
sono incompatibili con i principi fondamentali dell’ordinamento tedesco.
Nel rispetto di queste condizioni, il procedimento straniero coinvolge
13
I testi delle convenzioni sono riportati in POCAR, TREVES, CLERICI, DE CESARI, TROMBETTA – PANIGADI,
Codice delle convenzioni di diritto internazionale privato e processuale, 3° ed., Milano, 1999
anche i beni del fallito che si trovano nello Stato. Viene però lasciata la
possibilità, per il giudice tedesco, di aprire un procedimento separato e
limitato a tali beni.
La Svizzera ha disposto una regolamentazione ad hoc delle procedure
concorsuali con implicazioni transfrontaliere: gli articoli 166-175 del
capitolo 11 (“Fallimento e Concordato”) della legge federale sul diritto
internazionale privato del 18 dicembre 1987. il decreto straniero di
fallimento deve essere riconosciuto dal giudice svizzero su istanza del
curatore straniero o dei creditori. Vanno verificati presupposti quali la
compatibilità con l’ordine pubblico e i principi processuali interni, la
competenza del giudice straniero del luogo in cui si trova il domicilio del
debitore, l’esecutività del decreto nello Stato d’apertura e la reciprocità.
Come conseguenza del procedimento, si apre una procedura ancillare
limitata ai beni presenti nello stato, regolata dalla lex fori e finalizzata al
soddisfacimento dei creditori privilegiati locali.
Anche l’ordinamento inglese consente l’apertura di fallimenti secondari.
Sussistono però alcune divergenze: le corti inglesi possono
discrezionalmente decidere che il curatore del fallimento secondario paghi
solo i creditori privilegiati oppure che si limiti alla raccolta dei beni
presenti nel territorio nazionale lasciando ogni competenza al curatore del
fallimento principale
14
.
Per quanto riguarda il nostro ordinamento, nel 1995, con la riforma del
sistema di diritto internazionale privato si è persa l’occasione per stabilire
quali siano gli effetti che le procedure d’insolvenza aperte all’estero
14
COMMISSIONE DI STUDIO PER LA REVISIONE SISTEMATICA DEL DIRITTO COMMERCIALE,
ALLEGATO 4 consultabile al sito www.giustizia.it
possano avere nell’ordinamento interno e per tentare di effettuare un
coordinamento rispetto a procedimenti aperti eventualmente nello Stato e
relativi ad imprenditori che hanno beni o creditori all’estero.
Nessuna disposizione specifica è dettata in ordine alla possibilità di
riconoscere decisioni fallimentari straniere, né in ordine ai requisiti cui
condizionare la produzione dei loro effetti, né relativamente alle modalità
di collaborazione tra corti o autorità straniere. Tuttavia, per quanto
riguarda il riconoscimento delle sentenze, esso è divenuto più semplice in
quanto non è più necessario il procedimento di delibazione. L’art. 64,
infatti, adotta il principio del riconoscimento automatico delle sentenze che
presentano i requisiti indicati dalla norma stessa. Tale norma potrebbe
applicarsi anche in materia fallimentare.
La stessa legge fallimentare, R. d. 16 marzo 1942, n. 267, non dice nulla
riguardo ai fallimenti internazionali. L’art. 9, che si occupa della
competenza del giudice italiano a dichiarare il fallimento, si limita a fare
salve, al suo 3° comma, le convenzioni internazionali in vigore nel nostro
Stato. Il suo 2° comma afferma, però, che il giudice italiano può dichiarare
il fallimento di un imprenditore straniero già dichiarato fallito. In questo
modo sorge un contrasto con la legge 218. la dottrina ha così proposto
un’interpretazione adeguatrice di questa norma, consentendo l’avvio in
Italia di una procedura secondaria rivolta esclusivamente alla liquidazione
dei beni presenti nel territorio. Sicuramente, con l’introduzione del
regolamento 1346/2000, il legislatore dovrà provvedere ad adattare la
disciplina in materia
15
.
15
LUPONE, La convenzione comunitaria sulle procedure d’insolvenza e la riforma del sistema italiano di diritto
internazionale privato, in Contratto e impresa/Europa, 1999
3. Le iniziative comunitarie
Con la nascita della Comunità europea nasce l’esigenza di avvicinare gli
ordinamenti degli Stati membri per agevolare la mobilità internazionale
delle imprese e dei capitali. Questo comporta l’aumento del rischio che le
procedure d’insolvenza colpiscano più Stati.
Per far fronte alle insolvenze transnazionali la Commissione, nel 1959,
invitò gli Stati membri ad avviare dei negoziati per elaborare una
convenzione in materia. Il gruppo d’esperti si suddivise in due sottogruppi,
uno incaricato di redigere un progetto per una convenzione relativa al
riconoscimento e all’esecuzione delle sentenze in materia civile e
commerciale, l’altro incaricato di elaborare un progetto di convenzione che
riguardasse solo il fallimento e le altre procedure concorsuali. La divisione
si rese necessaria data la complessità dei problemi connessi al fallimento;
inoltre non si voleva ritardare l’emanazione della convenzione generale.
Le possibilità del gruppo di lavoro erano due: ricorrere all’articolo 100 del
Trattato di Roma per raggiungere l’armonizzazione dei diritti nazionali,
oppure ricorrere all’articolo 220 del Trattato istitutivo della Comunità
europea relativo all’elaborazione di convenzioni di riconoscimento. Fu
scelta la seconda strada perché la prima risultava troppo ambiziosa a causa
delle differenze tra le legislazioni nazionali e delle diverse discipline
giuridiche coinvolte nel fallimento: diritto delle società, diritti reali, norme
di procedura e procedimenti esecutivi
16
.
16
ZANARONE, Un progetto europeo di legge uniforme sul fallimento, in L’integrazione economica europea all’inizio
degli anni 70, Milano, 1973
Il comitato d’esperti si orientò verso una convenzione che non creasse un
tipo europeo di fallimento ma che sancisse il principio dell’universalità e
dell’unità della procedura. Secondo la Commissione, “in futuro sul
patrimonio del debitore potrà essere aperto un procedimento anche se i
beni sono posti sul territorio di più Stati firmatari della convenzione, gli
effetti del procedimento fallimentare dovranno esplicarsi automaticamente
in tutti gli Stati firmatari, cosicché tutti i creditori, indipendentemente dalla
nazionalità o dalla residenza, saranno posti su un piano di parità.”
17
Il primo progetto fu presentato nel 1970, è modificato nel 1975 e
presentato al Consiglio della Comunità Europea nel 1980. è ispirato ai
principi dell’universalità e dell’unità della procedura, salvo alcune deroghe
particolari. Viene dato rilievo alla singola procedura nazionale, che è
destinata a rimanere l’unica nell’ambito comunitario. La legge applicabile
è la lex fori concursus, legge dello Stato in cui viene aperto il fallimento.
Si vuole evitare la pluralità di procedimenti nei confronti dello stesso
debitore, cosicché viene preclusa la possibilità di una seconda pronuncia
nei suoi confronti e si dà efficacia automatica alla sentenza d’apertura del
procedimento.
Il progetto apparve troppo ambizioso e la delegazione tedesca fece riserve
e obiezioni ad alcune norme. Di conseguenza, il progetto venne
abbandonato e i lavori sospesi.
Solo negli anni novanta i lavori vennero riavviati. Riducendo gli obiettivi e
applicando il principio dell’universalità limitata, come aveva fatto, nel
frattempo, il Consiglio d’Europa, si arrivò nel 1995 alla firma, a Bruxelles,
17
LEMONTEY, Relazione del progetto di convenzione relativa al fallimento, ai concordati e alle procedure
concorsuali affini, in Boll. Europeo Suppl. 2/82.
Cfr. Sull’armonizzazione delle legislazioni europee, in Leggi 1966, appendice n. 6, p. 131
di una convenzione sul fallimento, i concordati e i procedimenti affini.
Anche questa convenzione tuttavia incontrò dei problemi e non entrò mai
in vigore.
4. I lavori del Consiglio d’Europa
Il Consiglio d’Europa ha preferito occuparsi solo di determinati aspetti
internazionali del fallimento allo scopo di migliorare la difesa degli
interessi dei creditori, piuttosto che regolare nella sua totalità la procedura
come aveva cercato di fare inizialmente il gruppo di lavoro della Comunità
Europea. Il solo limite imposto era quello di elaborare una convenzione
compatibile con le norme comunitarie e lasciare a queste la priorità nelle
relazioni con gli Stati membri.
I lavori iniziarono nel 1980, a Strasburgo, su iniziativa del Comitato dei
Ministri che costituì un gruppo d’esperti, che vennero incaricati di
elaborare un progetto di convenzione meno ambizioso rispetto a quello
comunitario e relativo solo ad alcuni aspetti del fallimento. La
convenzione venne approvata il 12 dicembre 1989 e aperta alle firme il 6
giugno 1990 ad Istanbul
18
.
La sua maggior innovazione consiste nell’aver portato al superamento del
principio dell’universalità assoluta affermando quello dell’universalità
relativa.
Rispetto al progetto comunitario cambia anche la definizione di fallimento.
La Corte di Giustizia delle Comunità Europee definisce fallimento quella
18
VALLENS, La convention du Conseil de l’Europe sur certains aspects internationaux de la faillite, in Revue critique
de droit international privé, 1993
procedura fondata sullo stato di cessazione dei pagamenti, sull’insolvenza
o sul venire meno del credito del debitore, implicante un intervento
dell’autorità giudiziaria e avente come scopo la liquidazione forzata e
collettiva dei beni o, quanto meno, il controllo di questi da parte di
quest’autorità.
19
Il Consiglio d’Europa opta, invece, per una definizione funzionale e
considera il fallimento come procedura collettiva fondata sull’insolvenza
che comporta lo spossessamento del debitore e la designazione di un
curatore e suscettibile di arrivare alla liquidazione dei beni.
20
Questa
definizione, tra l’altro, non viene imposta alle legislazioni nazionali, ma
rimane limitata all’oggetto della convenzione. La convenzione, inoltre,
adotta termini neutri quale “debitore” al posto d’impresa, evitando in
questo modo di distinguere tra commercianti e non. Spetta agli Stati
definire le persone che possono essere soggette a fallimento.
Si è poi evitato di imporre una definizione comune d’insolvenza
considerando che ogni Stato sottopone questa situazione a condizioni
diverse. Per quanto riguarda lo spossessamento, esso viene definito come
trasferimento dei poteri di gestione
21
, ma il compito di determinare il suo
contenuto giuridico e la sua estensione vengono lasciati agli Stati.
Si tiene, dunque maggiormente conto delle differenze tra i singoli
ordinamenti nazionali e forse proprio queste rinunce hanno permesso alla
convenzione di incontrare maggiormente il favore di un numero ampio di
Stati. Per quanto riguarda l’Italia, essa ha sottoscritto la convenzione il 5
giugno del 1991.
19
C. J. C. E., 22 febbraio 1979, Revue critique de droit international privé, 1979, p.657, nota di Lemontay
20
Art. 1, comma 1° della convenzione
21
Art. 1, comma 3, Lett. B) della convenzione