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inevitabilmente, imbattere nella difficoltà di trovare il linguaggio
adeguato per parlarne.
Possono le immagini rendere visibile ciò che, di per sé, è
umanamente inimmaginabile?
E’ legittimo, senza offendere la memoria di milioni di morti,
rappresentare la storia della Shoah attraverso una commedia,
magari a lieto fine?
Ed ancora: è lecito sorridere della tragedia che l’esperienza
concentrazionaria ha significato per l’intera umanità?
Sono queste alcune delle domande alle quali cercheremo di
dare una risposta.
Convinti, insieme a molti autori che saranno qui citati, che il
cinema è stato, ed è, fonte di testimonianza storica autentica, con
questo lavoro ci proponiamo di confermare il superamento della
antica contrapposizione tra documentario e film narrativo, anche in
un ambito così denso d’interrogativi morali come quello della Shoah.
Cercheremo, in questo modo, di cogliere, anche nei pochi film comici
che hanno scelto una via così difficile per rappresentare lo
sterminio, una chiave di lettura per questo incomprensibile evento.
Nel primo capitolo ci occuperemo del rapporto fra cinema ed
5
evento storico.
Seguendo le linee di pensiero dei maggiori studiosi su
quest’argomento, da Marc Ferro a Pierre Sorlin, da Siegfried
Kracauer ai nostri Antonio Mura e Gianni Rondolino, compiremo un
rapido viaggio nello statuto del film come attestato storico: da quello
di documento assoluto e inconfutabile dei primi anni del secolo
all’odierna considerazione del cinema come strumento di
conoscenza.
Nel secondo capitolo cercheremo di vedere più da vicino come il
cinema si sia occupato dell’evento tragico della Shoah e come esso,
di fronte alla sua indicibilità, abbia tentato varie forme di
rappresentazione con l’obiettivo di scrutare, di capire e di
trasmettere la memoria di quei fatti.
In particolare analizzeremo le grandi possibilità divulgative, ma
anche i limiti, degli approcci cinematografici che sono stati ritenuti
dai cineasti come i più adeguati per rappresentare così tanta
distruzione. Ci soffermeremo quindi sui due filoni principalmente
usati a questo scopo.
Da una parte la fiction, ricchissima di opere che, se per un
certo verso hanno avuto il merito di educare il grande pubblico,
6
dall’altro sono state spesso accusate di aver reso l’orrore troppo
umano e di aver semplificato eccessivamente la terribile realtà della
concentrazione e dello sterminio.
Dall’altra parte i reportage, girati dalle forze di liberazione
alleate sui luoghi del genocidio, ed il filone documentaristico
conseguente, teso a presentare un documento il più possibile fedele
alla realtà, ma, d’altro canto, anch’ esso inevitabilmente viziato dalle
tecniche soggettive di ripresa e di montaggio.
Daremo poi un rapido sguardo a quella parte di cinematografia
che comprende l’insieme delle testimonianze scritte e filmate,
raccolte tra coloro che sono sopravvissuti alla tragedia. Esse, se
hanno il pregio di possedere un’incredibile forza emotiva, hanno,
però, anche il difetto di essere cinematograficamente “difficili” da
seguire, specie per le nuove generazioni, ormai culturalmente così
lontane da quegli eventi.
Nel terzo capitolo, avvalendoci dell’analisi di alcuni film, tra
quelli da noi ritenuti più rappresentativi, vedremo qual è stata la
risposta del cinema nei confronti dell’Olocausto nell’immediato
dopoguerra, specialmente in Italia. Cercheremo poi di evidenziare,
scrutando all’interno della cinematografia sulla Shoah, qualche
7
tratto caratteristico del linguaggio utilizzato dalla produzione
hollywoodiana. Infine, analizzeremo i temi principalmente messi in
evidenza dal cinema europeo sulla Shoah, a partire dagli anni
Sessanta.
Nel quarto capitolo ci chiederemo infine se sia lecito, per il
cinema della Shoah, far sorridere il pubblico, anche se si tratta
sempre di un sorriso che lascia l’amaro in bocca.
La proiezione del film di Roberto Benigni “La vita è bella” ha
scatenato molte polemiche, anche aspre, all’interno di tutta la
comunità ebraica. Molti si sono detti indignati per un trattamento
considerato leggero e banale dell’Olocausto, se non addirittura
offensivo della memoria dei milioni di morti nei campi di
concentramento nazisti.
Queste polemiche ci hanno fornito lo spunto per una serie di
riflessioni su una piccola branca della cinematografia sulla Shoah,
quella che ha tentato un approccio umoristico a quest’evento, che,
se amata dal grande pubblico, è stata spesso trascurata dagli storici
e dagli addetti ai lavori. Vedremo quindi perché alcuni cineasti
abbiano scelto una via di rappresentazione così difficile e pericolosa.
8
Cercando di superare per un attimo ogni distinzione di genere e
senza avere alcuna pretesa d’essere esaustivi in proposito,
cercheremo poi, nei pochi film comici che si sono occupati
dell’argomento, qualche traccia, qualche chiarimento, da fornire alla
nostra coscienza.
Speriamo che essi possano essere una briciola in più nella
grande ed indelebile documentazione sull’Olocausto, al fine di poter
trasmettere la nostra piccola parte di memoria di un evento che non
può e non deve essere dimenticato.
9
CAPITOLO I
IL CINEMA E LA STORIA
1.1 L’era del documento assoluto
Il rapporto tra cinema e storia ha radici lontane.
Erano passati pochi anni dalle prime proiezioni delle pellicole
dei fratelli Lumiére nelle sale cinematografiche quando il fotografo e
cineasta polacco Boleslas Matuszewski sollevava, per primo, il
problema dell’archiviazione dei film e del loro possibile uso come
documenti storici.
Ce ne parla, in un suo studio, Gianfranco Miro Gori
1
ricordandoci che, già nel 1898, Matuszewski, attraverso una lettera
aperta ad un giornale dell'epoca, dichiarava: “La fotografia animata
ha un carattere di autenticità, di esattezza, di precisione che sola le
1
Gianfranco Miro Gori, La storia al cinema: una premessa, in G. Miro Gori (a cura di) La storia
al cinema, Bulzoni Editore, Roma, 1994.
10
appartiene. Essa è per eccellenza il testimone veridico ed
infallibile”.
2
Il dibattito comincia a diffondersi anche in Italia e, pochi anni
più tardi, il fotografo R. Namias, a proposito di alcune fotografie
sulla guerra russo-giapponese sosteneva: “E’ questo un vero
documento, al quale, quando gli archivi fotografici saranno
organizzati, i posteri potranno ricorrere non per impararvi la storia
narrata […] ma la storia fotografata che non mente perché è la luce
che l’ha scritta nella lastra”.
3
Ci troviamo in piena corrente positivistica e la fotografia ed il
cinema vengono visti, non solo come riproduttori meccanici della
realtà, ma anche come mezzi che avrebbero portato ad una nuova
era della storiografia: l’era del documento assoluto.
Un documento che si pensava capace sia di sottrarsi ad ogni
possibilità di manipolazione, sia di fare a meno di ogni necessità di
mediazione e d’interpretazione.
2
Ibidem, p.11.
3
R. Namias, Le fotografie della guerra russo-giapponese e i reporters-fotografi, in Peppino
Ortoleva, Cinema e storia, scene dal passato, Loescher editore,Torino, 1991, p.2.
11
1.2 Il declino del documento filmico
Siamo solo all’inizio di una lunga serie di dibattiti e di prese di
posizione sul rapporto tra cinema e storia e l’ingenuità delle
affermazioni di matrice positivistica, simili a quelle che abbiamo
enunciato, verrà compresa appieno solo molti anni dopo.
Una riflessione più profonda sui rapporti tra la realtà e la sua
riproduzione doveva averla, però, già prodotta un episodio quasi
coevo a queste enunciazioni. Si tratta della ricostruzione, filmata
da Meliès prima che avvenisse, ma considerata da tutti come
autentica, dell’incoronazione di Edoardo VII.
Ad ogni modo, ancora per molto tempo, l’accostamento tra il
nuovo medium e l’antica disciplina storica, sarà enfatizzato da
molti.
Primo, fra tutti, dal grande regista americano D.W. Griffith, il
quale, nel 1915, sosteneva che “Il cinema insegna in un lampo […]”.
E si domandava: “Ci sarà ancora chi legge libri fra cent’anni?”.
4
Allo stesso tempo questi pensieri trovano anche molti
avversari. A tale proposito, Gianni Rondolino, nel suo saggio " Il
4
D.W. Griffith, The rise and Fall of Free Speech in America, in Gianfranco Miro Gori, La storia
al cinema: una premessa, in op. cit., p.12.
12
Cinema",
5
ci fa notare che, già negli anni Venti, il critico e teorico
cinematografico Ricciotto Canudo scriveva: “Gli unici film storici […]
sono quelli che al cinema si chiamano attualità, e tra di essi i più
tragici sono i documentari di guerra. Gli altri sono soltanto dei film in
costume”.
6
Unica eccezione rispetto a queste linee di ricerca è, in quegli
anni, il tentativo, da parte di alcuni storici, di porre l’attenzione
soprattutto sui contenuti di alcuni film e di metterli in relazione
alla trasmissione del sapere attraverso le varie epoche.
Si tratta di uno studio che avrebbe condotto, in epoche
recenti, alla individuazione di un vasto campo d'indagine che ruota
attorno alla considerazione del film storico anche in relazione agli
intenti ideologici, politici, sociali e propagandistici di chi l'ha
prodotto.
7
Tuttavia, il percorso che doveva compiere il cinema per
accedere al titolo di strumento di conoscenza storica, doveva essere
ancora lungo e contrastato.
Dopo la prima guerra mondiale, l’interesse per i documenti
5
Gianni Rondolino, Il cinema, in G. Miro Gori (a cura di), La storia al cinema, op. cit., p.159.
6
Ibidem, pp.162-163.
7
Ibidem, p. 162.
13
cinematografici conobbe, infatti, un rapido declino. E non solo
presso gli studiosi di storia, ma anche nelle istituzioni
archivistiche.
Quelli che erano stati esaltati come i possibili documenti
assoluti per una nuova forma di conoscenza storica, apparivano
ora trascurabili o difficilmente utilizzabili.
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8
Peppino Ortoleva, Cinema e storia, scene dal passato, op. cit., p.4.