interessanti; sulla scena internazionale, però, si stanno verificando
alcuni fenomeni, riuniti nell’ampio spettro semantico del concetto di
“globalizzazione”, che giustificano la maggiore attenzione posta dagli
scienziati contemporanei nello studio delle migrazioni internazionali.
Con il termine “globalizzazione” s’identificano, in sociologia, i
caratteri dialettici del social and culture change e, proprio all’interno
di quest’ambito, si collocano e si considerano i processi migratori. Le
migrazioni sono fonte e, contemporaneamente, prodotto di mutamento
sociale, innescato dal processo di globalizzazione planetaria che,
modificando drasticamente le distanze fra i luoghi del nostro pianeta,
induce cambiamenti nella distribuzione spaziale della popolazione e
nella divisione internazionale del lavoro.
Nel nostro paese il problema delle migrazioni internazionali si è posto
all’attenzione dell’opinione pubblica, della classe dirigente e degli
studiosi a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta e la questione
è emersa, soprattutto, nell’aspetto di processo immigratorio, in
concomitanza con l’aumento quantitativo dei flussi immigratori
provenienti dai paesi del Terzo Mondo e dall’Est europeo, cioè
quando l’Italia, da paese d’emigrazione, si è trasformato
progressivamente in paese meta di processi migratori.
Lo scarso interesse dimostrato per lungo tempo da molti scienziati
italiani rispetto al fenomeno delle migrazioni internazionali e il fatto
che la sociologia delle migrazioni non sia ancora una disciplina
compiutamente strutturata, comportano la necessità di porre
l’attenzione, in via preliminare, ai contributi scientifici d’autori
“classici”. Da qui si possono poi definire gli approcci più interessanti,
che costituiscono un punto di riferimento fondamentale per tutti
coloro che intendano studiare i fenomeni migratori e le problematiche
ad essi connesse.
LE PRIME ANALISI DEI FENOMENI MIGRATORI
Le migrazioni interne
Gli esseri umani, sin dagli albori della loro presenza sul nostro
pianeta, si sono sempre mossi nello spazio, anche se, dal neolitico in
poi, la popolazione terrestre ha cominciato ad insediarsi sempre più in
modo stanziale e sedentario in determinate aree geografiche.
I primi studi sistematici dei fenomeni migratori, però, risalgono
all’inizio dell’Ottocento e si concentrano principalmente sull’analisi
delle migrazioni interne. Sarà particolarmente influente, sin
dall’inizio, il pensiero di Karl Marx, anche se i suoi studi di matrice
socio- economica non si riferiscono precisamente al tema delle
migrazioni. Infatti, Marx non analizzò i fenomeni migratori nel loro
complesso, ma prese in considerazione il carattere espulsivo e forzato
dell’emigrazione che denominò, appunto, “emigrazione forzata”.
Nelle sue analisi si riferì, prevalentemente, alle migrazioni forzate
interne, che caratterizzavano la società industriale e capitalistica del
suo tempo e portavano un’ingente massa di persone dalle zone rurali
ai grandi centri urbani industrializzati. La causa principale di tali
migrazioni fu individuata nella sfera economica dell’organizzazione
sociale capitalistica che nella sua dinamica produce
progressivamente impoverimento e disoccupazione della forza- lavoro
e relega ampie quote di quest’ultima a costituire esercito industriale
di riserva disponibile o sovrappopolazione relativa (Pollini- Scidà,
1998:31). Con queste locuzioni lo scienziato denominò quei lavoratori
espulsi dai processi di produzione, in genere a causa della progressiva
meccanizzazione degli impianti industriali, sempre pronti, però, ad
essere richiamati al lavoro, con l’effetto di contenere i salari ad un
livello minimo accettabile.
Oggigiorno questa tesi potrebbe applicarsi al più attuale fenomeno
delle migrazioni internazionali. Infatti, i migranti, ossia coloro che
Cohen definisce come “nuovi Iloti”, costituirebbero quell’esercito
industriale di riserva necessario al consolidamento della posizione
politica ed economica della classe dirigente, con l’effetto di
stabilizzare sia i mercati del lavoro dei paesi di provenienza sia quelli
delle nazioni d’arrivo.
Per lo sviluppo della sociologia delle migrazioni furono importanti
anche gli studi di stampo geografico- sociale condotti da Ernst G.
Ravenstein.
L’approccio di Ravenstein, infatti, può essere considerato a pieno
titolo come uno dei primi ambiziosi tentativi, nell’ambito delle scienze
sociali, di spiegazione sistematica dei fenomeni migratori. Enunciando
alcune leggi della migrazione, pubblicate nel saggio “The Laws of
Migrations” del 1885, lo studioso intendeva sistematizzare una serie
di comportamenti tendenziali, incentrati sulla variabile “distanza”,
riscontrabili nei processi migratori interni. Riassumendo, nelle
generalizzazioni proposte da Ravenstein si affermava che: 1) le
correnti migratorie di breve raggio si muovono verso i grandi centri
urbani ed industriali; 2) ogni corrente migratoria produce una
controcorrente compensatoria; 3) la popolazione dei grandi centri
urbani è meno incline alla migrazione rispetto alla popolazione delle
aree rurali; 4) le donne sono più propense degli uomini a migrare.
Nonostante queste asserzioni presentino molti limiti interpretativi,
testimoniano, in ogni caso, un tentativo esplicativo dei fenomeni
migratori interni. Le conclusioni cui giunse Ravenstein, però,
mostrano la loro inadeguata capacità euristica se si tenta di applicarle
ai fenomeni migratori internazionali attuali. Oggigiorno, infatti, i
flussi migratori non si dirigono solo verso i grandi centri urbani ed
industriali ma, anzi, nello specifico caso italiano si possono notare
notevoli incrementi della popolazione immigrata nelle piccole e medie
città (Bologna, Treviso, Vicenza, Bergamo, Brescia…), spesso
preferite alle città di maggiori dimensioni perché dotate di servizi
sociali più efficienti e caratterizzate da maggiori opportunità
d’inserimento nel mercato del lavoro. Pare, inoltre, poco applicabile
alla realtà odierna la terza tesi proposta da Ravenstein: i migranti di
oggi, infatti, provengono da ambienti sia urbani che rurali e tale
tendenza pare maggiormente evidente per i flussi migratori da paesi
“abbastanza” sviluppati economicamente, nei quali la
contrapposizione città- campagna non è così forte. Infine, la quarta
“legge” è valida solo parzialmente. Per quanto riguarda l’Italia, difatti,
si possono riscontrare alcune correnti migratorie a maggioranza
femminile (filippine, ecuadoriane, nigeriane, polacche…), così come
si può notare la presenza di flussi “prettamente” maschili (senegalesi,
marocchini, indiani, pakistani…), almeno nelle prime fasi del
processo migratorio. Credo sia piuttosto difficile fornire una
spiegazione sufficientemente convincente di questo fenomeno anche
se, leggendo alcune ricerche condotte recentemente in Italia mi è parsa
abbastanza condivisa l’idea che tale differenziazione di gender sia
imputabile alle diverse opportunità d’inserimento nei mercati del
lavoro locali. I flussi migratori a prevalenza femminile, infatti, si
concentrerebbero maggiormente nei centri urbani e nelle aree del
paese, come Genova per esempio, in cui è elevata la richiesta di
manodopera da inserire nei cosiddetti “servizi alla persona” (colf,
baby- sitter, assistenza anziani). Sembra, invece, che gli uomini si
dirigano verso le aree del paese dove sono maggiori le possibilità
d’inserirsi nella piccola e media industria o verso le zone turistiche in
cui il commercio ambulante, specialmente nei mesi estivi, può essere
un’attività sufficientemente redditizia.
I fenomeni migratori non sfuggirono all’attenzione del sociologo
francese Emile Durkheim, che ne propose una lettura di tipo
morfologico- sociale. Durkheim considerò i movimenti migratori
come oggetto d’indagine della morfologia sociale, ossia di quel settore
della sociologia che indaga il “sostrato” sul quale si basa la “vita
sociale”. Il “sostrato” rappresenta le peculiarità territoriali di una
determinata area geografica, tra cui, ad esempio, il volume, la densità
e la distribuzione spaziale della popolazione residente, la qualità dei
mezzi di trasporto e di comunicazione, l’ampiezza e la struttura degli
insediamenti umani (…) (Durkheim, 1899:520- 521).
Le migrazioni, secondo Durkheim, possono essere oggetto delle
indagini sociologiche in virtù degli effetti, più o meno diretti, generati
nella maggioranza dei fenomeni sociali collettivi. L’effetto sociale più
lampante individuato dallo studioso è costituito dall’indebolimento di
tutte le tradizioni, provocato dal mescolarsi di diversi popoli, che
elimina buona parte delle differenze di partenza.
I primi studi sulla figura del migrante
Lo scienziato che pose le premesse per un’originale lettura delle
migrazioni fu Georg Simmel, il quale, in un saggio
1
pubblicato
all’inizio del Novecento, concentrò la sua attenzione sulla forma
sociologica dello straniero, figura particolare che riunisce in sé sia il
carattere della mobilità sia quello della stanzialità. Caratteristica
principale di questo “attore sociale” è il fatto di non condividere e non
conoscere, almeno all’inizio, la maggioranza delle qualità e dei valori
dell’ambiente sociale in cui intende inserirsi. Sarebbe, perciò,
portatore di una nuova e differente mentalità rispetto a quella del
senso comune dominante e, nel tempo, rimarrebbe comunque
caratterizzato da ciò che Simmel definì come duplicità
dell’appartenenza sociale: quella della propria cerchia originaria, da
un lato, e quella della cerchia sociale d’arrivo, dall’altro.
L’autore propose, quindi, un approccio formale allo studio del
migrante, evidenziando la duplicità e la contemporaneità degli
elementi della lontananza e della vicinanza, di appartenenza e non-
appartenenza che possono anche generare atteggiamenti conflittuali
tra la popolazione autoctona e lo straniero.
Un altro studioso che concentrò i propri sforzi sulla figura del
migrante, con particolare attenzione all’inserimento dell’immigrato
nella vita economica del paese ospitante, fu Werner Sombart.
Sombart identificò nell’immigrato, nell’esule e nello straniero il fulcro
del mutamento sociale ed economico proprio perché, non
appartenendo alla maggioranza conformista e tradizionalista, sarebbe
in grado d’innescare i cambiamenti necessari alla nascita di un nuovo
sistema. Infatti, secondo lo scienziato, nel portare a compimento ciò
che noi oggigiorno definiamo come personale progetto migratorio, lo
straniero può fare affidamento su una mentalità che lo predispone a
partecipare attivamente ai mutamenti economici e ad intraprendere
una carriera di tipo “imprenditoriale”. Secondo Sombart
quest’atteggiamento è possibile perché lo straniero, liberato dal peso
della rete dei legami primari e senza eccessivi scrupoli morali, può
convogliare nell’iniziativa economica tutte le sue energie. Le
conclusioni cui giunse Sombart, però, attualmente non sembrano
molto convincenti poiché molti studi recenti hanno dimostrato quanto
siano forti e durevoli nel tempo i legami esistenti tra migranti ed il
loro paese d’origine o la loro comunità d’appartenenza. Per citare
qualche esempio si possono ricordare gli studi, che analizzerò con
maggiore attenzione nel seguente capitolo, che hanno evidenziato la
continuità nell’invio di rimesse economiche dei migranti alle famiglie
rimaste nel paese d’origine, oppure quelli che hanno focalizzato
l’attenzione sul fondamentale ruolo svolto dalle reti etniche e sociali,
sia durante la fase di preparazione dell’esperienza migratoria sia nel
paese meta del progetto migratorio.
Le migrazioni internazionali
Gli studiosi che per primi si occuparono di questa tematica sono
William I. Thomas e Florian W. Znaniecki, autori di un’opera, The
Polish Peasant in Europe and America, ormai considerata un classico
della sociologia delle migrazioni. Ricorrendo ad una metodologia
investigativa, Thomas e Znaniecki, studiarono le condizioni di vita dei
contadini polacchi emigrati in America e in Europa, comparando il
contesto di partenza, ossia l’ambiente rurale, caratterizzato da un certo
tradizionalismo e dalla presenza di valori stabili condivisi dalla
comunità, con il contesto di arrivo, cioè l’ambiente urbano
contrassegnato, al contrario, da forte mobilità ed individualismo. I loro
studi erano tesi all’individuazione di mutamenti significativi negli
atteggiamenti, nei valori e nei modelli culturali di riferimento degli
individui che sperimentavano l’esperienza migratoria. Focalizzando
la loro attenzione su alcune variabili ritenute rilevanti, giunsero
all’identificazione di diverse tipologie di comportamento e di
atteggiamenti, tipici di coloro che vivono una doppia appartenenza
culturale. Si può riscontrare un atteggiamento molto conservatore e
tradizionalista, che provoca chiusura e rifiuto nei confronti dei modelli
culturali proposti dalla società di “arrivo”; oppure si può verificare un
totale rifiuto, con conseguente abbandono, dei modelli culturali con
cui si è stati socializzati; o, ancora, ci può essere il tentativo di
sintetizzare i modelli culturali della propria comunità d’appartenenza
con quelli della società in generale, atteggiamento che permette lo
sviluppo di una personalità autonoma ed indipendente. Gli studi
condotti da Thomas e Znaniecki, oltre ad essere originali sotto il
profilo metodologico, rappresentano uno dei primi tentativi di
interpretazione tipologica dei fenomeni migratori, che costituisce uno
dei primi passi per la sistematizzazione scientifica di ogni disciplina.
Un altro sociologo particolarmente importante per lo sviluppo
scientifico della sociologia delle migrazioni fu Robert E. Park, che
propose un approccio ecologico- sociale, tipico di quel gruppo di
sociologi urbani appartenenti alla cosiddetta “Scuola di Chicago”.
L’autore propone un’ipotesi molto interessante ed attuale nel saggio
“Human Migrations and the Marginal Man” del 1928: ripose, infatti,
l’attenzione sulle relazioni fra migrazione e mutamento sociale,
concludendo che i fenomeni migratori sono il motore del
cambiamento sociale: La civiltà medesima fiorirebbe alimentandosi
delle differenze delle razze e delle culture, piuttosto che essere il frutto
o il prodotto o il risultato di processi evolutivi endogeni (…). La
migrazione in questa prospettiva diventa una delle condizioni dello
sviluppo della civiltà… (Pollini- Scidà, 1998:43). Una delle tematiche
indagate con maggiore attenzione da Park fu quella dell’integrazione,
ossia quel processo che permette di mantenere l’equilibrio e l’ordine
in una comunità che non possiede una base culturale comune.
Individuò diversi livelli d’integrazione tra cui, ad esempio:
l’amalgama, che riguarda l’incrocio tra diverse etnie attraverso il
matrimonio; l’accomodamento, cioè quel processo d’aggiustamento
finalizzato alla prevenzione e alla riduzione dei conflitti;
l’assimilazione che è il procedimento secondo il quale la cultura di
una comunità è trasmessa ad un cittadino “adottivo”, favorendone
l’inserimento sociale e culturale; e, infine, l’acculturazione, nella
quale si pone enfasi sul linguaggio, inteso come medium di
trasmissione culturale.
Come ricordavo precedentemente, l’approccio proposto da Park trovò
continuità negli studi condotti dagli studiosi appartenenti alla “Scuola
di Chicago”, che posero particolare attenzione allo studio della
segregazione residenziale dei gruppi d’immigrati residenti nelle
metropoli nordamericane e al problema delle relazioni tra diversi
gruppi etnici.
GLI SVILUPPI DELLA SOCIOLOGIA
DELL’IMMIGRAZIONE
La “Scuola di Chicago”
Questa già citata scuola sociologica nacque nei primi anni Venti e
riunì in sé ricercatori orientati ad una proiezione spaziale dei fenomeni
sociali, che elaborarono una teoria sociologica molto influenzata dalle
istanze presentate dalla nascente ecologia biologica, anche se
all’essere umano fu sempre riconosciuta la capacità d’intervenire
sull’ambiente vitale per modificarlo.
La maggior parte delle indagini condotte dagli studiosi appartenenti a
questa scuola riguardano l’ambiente urbano, in particolare le sue
patologie e le sue contraddizioni. Chicago, sotto questo punto di vista,
costituiva all’inizio del XX secolo un valido laboratorio
d’osservazione: infatti, essendo una città caratterizzata da una
massiccia industrializzazione, era al centro di forti pressioni
immigratorie, interne ed internazionali. Con l’intento di riscontrare
una certa regolarità nei fenomeni che si verificavano in questo
peculiare contesto urbano, i ricercatori di Chicago elaborarono uno
specifico approccio: si considera la città come un organismo sociale,
organizzato territorialmente in “aree naturali”, in cui spazi e risorse
sono costantemente contesi da gruppi sociali diversi per provenienza,
cultura e funzioni.
Altrettanto tipica di questa scuola fu l’esigenza di formulare una teoria
sociologica fondata empiricamente e supportata da adeguati metodi e
strumenti di ricerca.
Le molte indagini ed osservazioni sul campo erano finalizzate
all’identificazione di fasi cronologiche, il più possibile oggettive, da
applicare ai processi d’integrazione riscontrabili nell’ambiente urbano.
Molte ricerche, ad esempio, concludevano che i frequenti contatti tra
differenti minoranze etniche avrebbero portato alla rottura
dell’isolamento delle varie comunità, che, gradualmente, si sarebbero
conformate allo stile di vita della maggioranza “White Anglo- Saxon
Protestant”, pur mantenendo alcune lievi differenze.
Fra le ricerche più interessanti dobbiamo ricordare quella condotta
dallo svedese Gunnar Myrdal
2
nel 1944, intitolata “An American
Dilemma- The Negro Problem and Modern Democracy”. In questa
survey, concentrata prevalentemente su tematiche normative e su
prospettive di riforma sociale, lo studioso verificò un’interessante
ipotesi di partenza: le affermazioni di principio relative alla
democrazia e all’uguaglianza sociale, contenute nella Costituzione
americana e in altri documenti ufficiali, contrastano con
l’atteggiamento discriminatorio che i bianchi adottano nei confronti
dei neri. Nei rapporti tra i diversi gruppi sarebbe riscontrabile ciò che
Myrdal definì come “circolo vizioso”, ossia una situazione di blocco
in cui il pregiudizio dei bianchi e il minore tenore di vita della
popolazione nera si determinano e si condizionano a vicenda.
Oggigiorno si può ipotizzare l’esistenza delle contraddizioni,
riscontrate da Myrdal più di mezzo secolo fa negli Stati Uniti, nelle
metropoli europee. Infatti in Europa si possono verificare alcune
forme di diseguaglianza sociale tra diversi gruppi etnici, nettamente
contrastanti con quanto si afferma, in materia di solidarietà e
responsabilità sociale e civile, nei documenti ufficiali che fondano la
neonata Unione Europea.
In tempi più recenti l’antropologo Frederik Barth, seguendo
l’approccio ecologico di Park, ha dimostrato che, sebbene il processo
di modernizzazione possa facilitare e stimolare l’interazione tra
diversi gruppi sociali, ciò non si traduce automaticamente in maggiore
integrazione. Quindi, secondo Barth, i confini possono persistere
nonostante quella che può essere metaforicamente chiamata l’osmosi
di persone attraverso essi (Barth, 1969:21). Di fatto coesistono gruppi
che aspirano ad una completa assimilazione nella società di “arrivo”
con altri che, invece, rifiutano qualsiasi forma di “contaminazione”, al
fine di mantenere integra la propria identità etnica e culturale. Spesso i
gruppi d’immigrati più intransigenti rispetto a qualsivoglia processo
d’integrazione sono paradossalmente coloro che s’inseriscono
adeguatamente nel panorama economico e sociale del paese.
Ovviamente questo diverso atteggiamento può essere influenzato da
alcuni fattori, come per esempio la lingua, la religione, il sentimento
d’orgoglio nazionale e la storia del paese d’origine.
Riassumendo, gli studi cui ho fatto brevemente riferimento
s’interessano alle problematiche correlate al fenomeno delle
migrazioni internazionali e alle dinamiche dei processi d’integrazione
sociale e culturale, verificabili, prevalentemente, nelle aree urbane
industrializzate, sottoposte ad ingenti pressioni migratorie nel corso
del XX secolo.
Labour Migrations
La mobilità umana è motivata da molteplici fattori che possono
stimolare l’abbandono del proprio paese d’origine o attrarre
l’individuo altrove. I primi fattori motivazionali sono generalmente
denominati push factors, o fattori espulsivi; i secondi sono
riconosciuti come pull factors, o fattori attrattivi. Molte ricerche si
sono concentrate sull’analisi di questi elementi, con l’intento di
giungere all’individuazione di un sostrato motivazionale comune,
capace di descrivere quali caratteri influiscano maggiormente sulla
decision making dei migranti. Secondo Cohen, ad esempio, la
decisione di migrare è correlata a (…) factors as rural emiseration,
employment and housing prospects, transport costs, international law,
immigration policies (…), the need for documents like passports, visas
and work certificates. In short, the individual’s resolve to migrate
cannot be separeted from the institutional context in which this
decision was reached
3
(Cohen, 1987:36). Portes e Walton riprendono
il tema delle motivazioni che sottostanno alla base del progetto
migratorio in modo molto critico: (…) individuals migrate for a
number of different causes- desire to escape oppresion and famine,
financial ambition, family reunification, or education of children.
Nothing is easier to compile lists of such “push” and “pull” factors
and present them as a theory of migration. (…) in no way, however,
does it explain the structural factors leading to a patterned movement,
of known size and direction, over an extensive period of
time”
4
(Portes- Walton, 1981:25).
Le analisi condotte in quest’ambito fanno capo a molte discipline che
naturalmente giungono spesso a conclusioni tra loro contrastanti.
L’approccio economico neoclassico, ad esempio, tendeva ad
analizzare i fenomeni migratori utilizzando le categorie concettuali ed
euristiche applicate allo studio dei flussi di capitali e di merci,
imputandoli ad una sola causa principale: il differenziale salariale
esistente tra i diversi mercati del lavoro. In altre parole si riteneva che
gli squilibri nella distribuzione geografica dei fattori produttivi
determinassero la direzione e l’entità delle correnti migratorie. Da
quest’assunto di base si traeva una visione molto riduttiva dei
fenomeni migratori prefigurante l’esistenza di flussi continui dalle
aree con salari più bassi a quelle con condizioni salariali più
favorevoli, sino a giungere ad una condizione d’equilibrio.
All’inizio degli anni Ottanta quest’orientamento è stato drasticamente
ridimensionato, anche dagli economisti, e ciò ha condotto a
considerare il differenziale salariale come una, e non l’unica, delle
condizioni essenziali degli spostamenti internazionali. Questa
spiegazione, inoltre, pare maggiormente adeguata a spiegare le
migrazioni dal sud verso il nord del mondo; non dobbiamo
dimenticare, però, la consistenza delle correnti migratorie sud - sud,
ossia all’interno dell’Africa sub - sahariana, verso il Medio Oriente o
il Sudest asiatico, che difficilmente può essere giustificata ricorrendo
unicamente alla teoria del differenziale salariale.
Questo cambiamento di tendenza non è solo imputabile agli sviluppi
della ricerca ma è anche correlato alla particolare condizione
economica mondiale in atto nel decennio precedente.
Fino agli anni Sessanta le economie occidentali più consolidate ma
anche quelle di paesi “emergenti”, come ad esempio l’Italia, godevano
di condizioni congiunturali favorevoli che facevano auspicare una
costante crescita dell’economia mondiale. Un simile sviluppo rendeva
necessario il reclutamento di manodopera dai paesi del Terzo Mondo
da impiegare nei floridi mercati locali. I lavoratori reclutati dovevano,
preferibilmente, essere giovani maschi, nel pieno della loro vita attiva,
non accompagnati né dalle mogli né dalle famiglie. In quest’ottica il
ricorso alla manodopera immigrata si presenta perfettamente
funzionale allo sviluppo economico dei paesi occidentali, anche
perché i lavoratori immigrati percepiscono salari inferiori, sono più
disponibili, rispetto ai lavoratori autoctoni, a svolgere mansioni ai
limiti delle norme di sicurezza e nocive per la salute e, spesso,
sostituiscono la forza lavoro locale “latitante” in alcuni settori.
Per quanto riguarda la realtà italiana degli anni ’50 e ’60 è necessario
fare alcune precisazioni. In Italia, infatti, a differenza di quanto
avveniva in molti altri paesi europei (Francia, Gran Bretagna,
Germania, Belgio…), negli anni del boom economico erano molto
consistenti le migrazioni interne, ossia dal sud verso i centri urbani
industrializzati del nord, mentre le migrazioni da altri paesi erano un
fenomeno molto limitato e numericamente marginale. Lo sviluppo
industriale e la crescita economica di quegli anni, quindi, non possono
essere messi in relazione con l’impiego funzionale di manodopera
straniera, anche se, sicuramente, i lavoratori meridionali erano più
propensi in quel periodo ad accettare i cosiddetti “bad jobs”, offerti
dai mercati del lavoro settentrionali, per allontanarsi da una situazione
economica caratterizzata da un elevato tasso di disoccupazione e dalla
prevalenza del “sommerso”.
La profonda crisi economica, che colpì i mercati internazionali nel
corso degli anni Settanta, modificò profondamente la situazione e
l’impiego di forza lavoro straniera cominciò a non essere più
considerato vantaggioso per le economie occidentali. Infatti
aumentava, mediante il ricorso al “ricongiungimento familiare”, il
peso quantitativo della popolazione immigrata e ciò rendeva
necessario l’investimento di capitali da destinare ai servizi sociali.