ALCUNE NOZIONI PRELIMINARI
suddetti articoli, perché si possa parlare di impresa in posizione dominante
e quindi di un suo abuso, la necessità di definire cosa s’intende con le
espressioni “impresa” e “posizione dominante”. Indispensabile poi, per una
comprensione organica del tema, è la definizione di concetti economici e
giuseconomici come quelli di “costo” e “barriere all’entrata”.
1.2. La nozione di impresa.
Nel Trattato di Roma e nel diritto comunitario derivato, il concetto di
impresa è stato impiegato dal legislatore con una certa frequenza,
nonostante ciò, ad oggi manca ancora una definizione rilevante ai fini del
diritto antitrust. Quasi consapevole di ciò, la giurisprudenza ha cercato di
elaborare ed in seguito migliorare e completare tale nozione, alla luce degli
specifici casi che le si paravano davanti.
Il punto di partenza è rappresentato dalla precisazione del giudice della
Corte di Giustizia della Comunità europea che, pronunciandosi sul caso
Hofner/Macroton (1979), dice: “nel contesto del diritto della concorrenza,
la nozione di impresa abbraccia qualsiasi entità che svolga un’attività
economica indipendentemente dal suo status giuridico e dal suo modo di
finanziamento”
2
. Pertanto, secondo la Corte, tale nozione è indipendente
dall’esistenza di uno scopo di lucro e di una personalità giuridica. Ciò che
conta è semplicemente lo svolgimento di un’attività economica, sia essa di
produzione e/o scambio di beni o servizi, dietro remunerazione. Il sentiero
tracciato dalla Corte, risulta peraltro seguito dalla Commissione stessa, la
quale, ad esempio nel caso Pauwels Travel/FIFA (1992), precisa che
“costituisce attività di natura economica qualsiasi attività che partecipi agli
2
CG, 23 aprile 1991, C-41/90, Hofner/Macroton, in Raccolta, 1991, I, pag. 1979.
ALCUNE NOZIONI PRELIMINARI
scambi economici, anche a prescindere dalla ricerca di profitto a
dell’eventuale distribuzione degli utili”
3
.
La stessa dottrina ha evidenziato come la giurisprudenza comunitaria
adotti un concetto di impresa estensivo e “trascurando qualsiasi riferimento
ad un criterio organico, pone l’accento sul criterio funzionale”
4
. È proprio la
funzione dell’attività svolta dal soggetto considerato, il discriminante per
qualificare un’entità economica come impresa, ai sensi degli articoli 81) e
82) del Trattato di Roma. Se questo, rispondendo ad un bisogno economico,
si colloca sul mercato, allora rientra nel raggio d’azione delle regole sulla
concorrenza.
Analogamente, secondo altri Autori “sulla base della prassi della
Commissione e della giurisprudenza della Corte si può definire l’impresa
come un’organizzazione unitaria di elementi personali, materiali ed
immateriali, attraverso la quale viene esercitata un’attività economica, a
titolo non gratuito, in modo duraturo ed indipendente. La nozione ha un
contenuto comunitario, essendo indipendente dai concetti desumibili dai
diversi diritti nazionali”
5
.
Naturalmente la nozione di impresa elaborata dall’Autorità Garante
della Concorrenza e del Mercato (in seguito AGCM), risulta in linea con
quella comunitaria, avendo anche in questo caso una portata assai ampia.
Basti qui ricordare alcuni provvedimenti nei quali l’AGCM ha considerato
degli enti pubblici come imprese in quanto entità che esercitano attività
economiche a prescindere dal loro status giuridico e dalle loro modalità di
finanziamento (AGCM 28 luglio 1995, S.i.l.b./S.i.a.e., Boll., 1995, pag.30;
3
Comm. UE, 27 ottobre 1992, Pauwels Travel/FIFA, in GUCE, n. L326, 1992, pag. 31.
4
ROTH in AA.VV., Antitrust fra diritto nazionale e diritto comunitario, Giuffrè, Milano,
1996, pag.24
5
A.FRIGNANI, M. WAELBROECK, Disciplina della concorrenza nella CE, Utet,
Torino, 1996, pag.32.
ALCUNE NOZIONI PRELIMINARI
AGCM 17 dicembre 1998 Consorzio Risposta/Ente Poste Italiano, Boll.,
1998, pag.51).
1.3. La nozione di posizione dominante.
L’art. 82 del Trattato dell’Unione europea non contiene la definizione
di posizione dominante, ma si limita ha stabilire che “è incompatibile con il
mercato comune e vietato, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più
imprese di una posizione dominante sul mercato comune o su una parte
sostanziale di questo”
6
.
L’art. 3 della l. n. 287/90 detta una disciplina sostanzialmente identica a
quella comunitaria: “è vietato l’abuso da parte di una o più imprese di una
posizione dominante all’interno del mercato nazionale o di una sua parte
rilevante”
7
, l’unica differenza sta nel diverso ambito di applicazione delle
due discipline, comunitaria la prima, nazionale la seconda.
Ancora una volta vale quanto detto riguardo la nozione di impresa
8
: la
mancanza di una definizione costringe gli interpreti ad individuare i
parametri per identificare il concetto e stabilire se un’impresa si trovi in
posizione dominante o no. Così la prima definizione ufficiale, per quanto
concerne la giurisprudenza, la troviamo nella decisione della Commissione
relativa al caso Continental Can (1971)
9
la quale in sostanza afferma che vi
è una posizione dominante quando un’impresa può avere una tale libertà di
comportamento che le consente di non tener conto dei concorrenti, degli
acquirenti o dei fornitori.
6
Art.82 UE.
7
Art. 3 l. n. 287/90.
8
Vedi infra, par.1.2.
9
Comm. UE, 9 novembre 1971, Continental Can Company, in GUCE, n. L7, 1972,
pag.25.
ALCUNE NOZIONI PRELIMINARI
La Corte invece affronta il problema compiutamente per la prima volta
nel caso Sirena (1971)
10
e subordina l’esistenza di una posizione dominante
alla capacità di ostacolare una concorrenza effettiva nel mercato in
questione, senza alcun riferimento quindi alla capacità di adottare
comportamenti indipendenti nei confronti di terzi soggetti, riferimento che
invece compare per la prima volta nella sentenza relativa al caso Metro
(1977)
11
e nel caso United Brands (1978)
12
dove i due elementi vengono
finalmente considerati congiuntamente: “La posizione dominante […]
corrisponde ad una posizione di potenza economica grazie alla quale
l’impresa che la detiene è in grado di ostacolare la persistenza di una
concorrenza effettiva sul mercato in questione” e “ha la possibilità di tenere
comportamenti alquanto indipendenti nei confronti dei concorrenti, dei
clienti e, in ultima analisi, dei consumatori”.
Tale definizione risulta però illusoria e di scarsa utilità pratica nel
momento in cui si cerca concretamente di valutare l’esistenza o meno del
requisito in esame. Essa, infatti, si limita a riconoscere l’essenza della
posizione dominante nella potenza economica, senza dare alcuna
indicazione sulle condizioni che ne implicano l’esistenza. Dire che si è in
presenza di una posizione dominante quando l’impresa è in grado di
ostacolare una concorrenza effettiva o di tenere comportamenti
indipendenti, significa scambiare l’effetto con la causa e lasciare
sostanzialmente insoluto il problema.
Di qui l’esigenza, sia a livello comunitario che nazionale (va ricordato
che nel nostro Paese la nozione di posizione dominante è stata ripresa
fedelmente da quella comunitaria, attraverso il richiamo letterale del caso
10
CG, 18 febbraio 1971, C-40/70, Sirena/Eda, in Raccolta, 1971, pag. 69
11
CG, 25 ottobre 1977, Metro/Commissione, in Raccolta, 1977, pag. 1875.
ALCUNE NOZIONI PRELIMINARI
United Brands), di colmare questa lacuna attraverso le metodologie
elaborate dalle scienze economiche nel tentativo di misurare il potere di
mercato di un’impresa.
A questo scopo risulta preliminare l’individuazione del mercato
rilevante. Nella valutazione della posizione dominante esso gioca un ruolo
decisivo, infatti il potere di un’impresa risulta, in sostanza, inversamente
proporzionale all’ampiezza del mercato considerato, più è estesa la
definizione di quest’ultimo, minore risulterà il potere relativo dell’impresa
in esame. Il mercato rilevante è la risultante di due variabili: a) il mercato
del prodotto, ovvero quello formato da “tutti i prodotti o servizi che sono
considerati intercambiabili o sostituibili dal consumatore in ragione delle
caratteristiche dei prodotti, dei loro prezzi e dell’uso al quale sono
destinati”
13
; b) il mercato geografico, che comprende “l’area nella quale le
imprese in causa forniscono o acquistano prodotti o servizi, nella quale le
condizioni di concorrenza sono sufficientemente omogenee e che può
essere tenuta distinta dalle zone contigue perché in queste ultime le
condizioni di concorrenza sono sensibilmente diverse”
14
.
Per definire le suddette variabili la Commissione si basa su due criteri:
a) La sostituibilità sul versante della domanda: misura il grado di
intercambiabilità dei prodotti dalla prospettiva del consumatore
mediante l’analisi della variazione della domanda di un bene al
variare del prezzo degli altri (elasticità incrociata della domanda).
b) La sostituibilità sul versante dell’offerta: valuta la capacità
dell’impresa di modificare rapidamente il proprio processo
12
CG, 14 febbraio 1978, C-27/76, United Brands/Commissione, in Raccolta, 1978, pag.
207.
13
Comunicazione della Commissione, CE 97/C 372/03.
14
Comunicazione, cit.
ALCUNE NOZIONI PRELIMINARI
produttivo per realizzare nuovi beni o servizi senza dover sostenere
costi aggiuntivi o rischi eccessivi.
Una volta individuato il mercato rilevante bisogna stabilire se l’impresa
sia in grado di esercitare un potere identificabile come posizione dominante.
Il principale indice per valutare il potere economico di un’impresa è
rappresentato dalla quota di mercato detenuta, calcolata in base al fatturato
realizzato nel mercato di riferimento. Quote di mercato superiori al 70%
sono sufficienti da sole, secondo la Corte di Giustizia delle Comunità
europee e secondo l’AGCM, a provare l’esistenza di una posizione
dominante. Percentuali comprese tra il 40 e il 70% costituiscono solo uno
degli elementi presuntivi, il tal caso dovranno essere presi in considerazione
altri indici rilevanti nell’accertamento del requisito quali:
a) il numero e la forza delle imprese concorrenti;
b) l’esistenza di eventuali barriere che rendano difficile l’ingresso di
nuovi concorrenti nel mercato;
c) la stabilità della quota di mercato;
d) i sussidi incrociati, ovvero le risorse finanziarie e tecniche alle quali
l’impresa può attingere anche fuori dal mercato rilevante per
sostenere la propria attività.
In via del tutto preliminare, occorre qui ricordare che la posizione
dominante non costituisce di per sé un illecito, l’impresa che la detiene può
legittimamente operare sul mercato, anche perché questa può essere, e
spesso è, frutto di una maggiore efficienza e quindi figlia legittima di quella
stessa concorrenza che si cerca di difendere. La fattispecie vietata è solo il
comportamento abusivo che ne può derivare.
ALCUNE NOZIONI PRELIMINARI
1.4. Le barriere all’entrata.
Definire e comprendere il concetto di barriere all’entrata risulta
fondamentale per due ordini di motivi: in primis per l’importanza che esse
ricoprono nella definizione del mercato di riferimento dell’impresa “in
odore” di abuso, ed inoltre, per capire meglio le teorie, che nel terzo
capitolo andremo ad analizzare, di quegli Autori che sostengono
l’irrazionalità del comportamento predatorio, legata anche, ma non solo,
alla presenza/assenza di barriere all’entrata.
Come già si è accennato, quello delle barriere all’entrata rappresenta un
tema importante e, nel contempo, estremamente delicato, soprattutto sotto il
profilo del corretto significato da attribuirsi all’espressione. La criticità del
tema sta nel fatto, difficilmente contestabile, che il potere dell’impresa in
posizione di forza dipende essenzialmente dalla difficoltà per i potenziali
concorrenti di entrare nel mercato. Basti qui ricordare che la
microeconomia ci insegna che una delle principali differenze tra un mercato
monopolistico ed uno concorrenziale, sta proprio nella presenza, nel primo,
di rigide barriere all’ingresso.
In generale sono due i principali tipi di barriera che gli organi
comunitari e nazionali hanno preso in considerazione. Da un lato vi sono
quelle di natura istituzionale, dall’altro quelle relative alle condizioni
competitive.
Le prime sono legate a vincoli di natura legislativa che vietano
l’ingresso ai potenziali entranti in un settore, riservando l’esclusiva
dell’esercizio dell’attività economica ad un numero ristretto di soggetti: si
pensi ad esempio al monopolio dei tabacchi in Italia, o alla necessità di
ALCUNE NOZIONI PRELIMINARI
avere un’autorizzazione per l’esercizio di una particolare attività
economica.
Tra le seconde troviamo tutti quegli impedimenti legati al
funzionamento del mercato, di natura complessa (finanziaria, tecnologica,
commerciale, organizzativa, ecc.) e che sfuggono a qualsiasi classificazione
per tipi, come per esempio l’esistenza di una clientela fidelizzata, la
difficoltà di accedere alle materie prime, ecc.
Si discute molto, inoltre, sul fatto che la maggiore efficienza
dell’incumbent possa essere considerata una barriera all’ingresso. È
evidente che, se si considera come barriera qualsiasi ostacolo che possa
complicare l’ingresso al mercato dei potenziali entranti, allora la maggior
efficienza dell’impresa presente, a prima vista, potrebbe essere ricompresa
nella categoria. Autorevole dottrina d’oltreoceano, con riferimento
all’esperienza statunitense, sottolinea però che, se l’impresa già presente sul
mercato è dotata di impianti all’avanguardia, forte capacità imprenditoriale,
ottima reputazione, i potenziali entranti troveranno l’ingresso più
complicato, ma ciò sta nell’ordine naturale delle cose; tali difficoltà “[…]
ineriscono alla natura dei compiti da realizzare. Non è possibile contestare
barriere di tale natura”
15
. Il vero problema per il diritto antitrust deve essere
l’esistenza di barriere artificiali che impediscono alle forze concorrenti di
erodere posizioni di dominio che non sono frutto di una maggiore
efficienza. “Molta attenzione, pertanto, dovrà essere posta nel distinguere
tra forme di efficienza e barriere artificiali. Altrimenti, il diritto finirà per
attaccare l’efficienza in nome della libertà di mercato”
16
.
Tali considerazioni vanno in parte riviste con riferimento alla disciplina
comunitaria. Poiché la posizione dominante non è di per sé oggetto di
15
R. BORK, The antitrust paradox: a policy at war with itself, New York, 1978, pag.311.
ALCUNE NOZIONI PRELIMINARI
divieto, l’accertamento di questa prescinde dai mezzi attraverso i quali
viene ottenuta. Pertanto, in sede di valutazione dell’esistenza di una
posizione dominante, gli organi comunitari possono tenere in
considerazione anche la maggior efficienza dell’impresa in questione
rispetto ai propri concorrenti, senza per questo incorrere nel pericolo della
condanna dell’efficienza in nome della libertà del mercato.
A tale proposito parte della dottrina ha rilevato l’indiscutibilità di
questo orientamento poiché, quando si tratta di stabilire l’esistenza di un
posizione di dominio, ciò che interessa è la differenza tra i costi
dell’impresa presente e i costi dell’impresa entrante, indipendentemente
dalla causa. “In questo modo le imprese più efficienti […] non sono
penalizzate, ma sono semplicemente sottoposte ai divieti di abuso che
valgono per tutte le imprese in posizione dominante”
17
.
Tornando alla nozione di barriere all’entrata, autorevole dottrina ne ha
individuate due: una allargata che considera tutti quegli ostacoli che
limitano l’ingresso e l’espansione di nuove imprese in un mercato, ed una
più restrittiva che le identifica solo con quelle condizioni che impongono,
alle nuove entranti, costi di lungo periodo più elevati di quelli sostenuti
dalle imprese anziane. “Più in generale, con questa formulazione si vuole
escludere che possa costituire una barriera all’ingresso l’entità, in sé
considerata, degli investimenti necessari per entrare sul mercato. Il nuovo
entrante deve semplicemente procurarsi lo stesso capitale, grande o piccolo
che sia, che hanno dovuto procurarsi le imprese già presenti. […] L’ambito
delle barriere all’ingresso viene in questo modo significativamente ristretto
e l’ingresso su quasi tutti i mercati può essere presentato come agevole”
18
.
16
R. BORK, The antitrust paradox,cit., pag.311.
17
F. DENOZZA, Antitrust, Il Mulino, Bologna, 1988, pag.58.
18
F. DENOZZA, Antitrust, cit., pag.54.
ALCUNE NOZIONI PRELIMINARI
Il problema dal punto di vista dell’antitrust non è quello di stabilire
quali di queste due nozioni sia esatta, ma di comprendere caso per caso se e
quale importanza l’ordinamento attribuisce alla singola nozione. In altri
termini si tratta di comprendere se l’ordinamento voglia garantire l’ingresso
del maggior numero possibile di imprese nel mercato o se voglia garantire
ad imprese uguali, uguali possibilità.
Dalla prassi comunitaria, peraltro, emerge l’adozione di un concetto di
barriera all’entrata estremamente ampio, che comprende tutti i costi che il
potenziale entrante deve sostenere, compresi quelli che anche l’impresa già
presente ha dovuto, a suo tempo, sopportare. Nel già citato caso United
Brands (1978) la Corte ha evidenziato che: “gli ostacoli all’affermazione
della concorrenza derivano, in particolare, dagli investimenti di eccezionale
entità necessari […], dalla necessità di moltiplicare le fonti di
approvvigionamento […], dall’allestimento di impianti impegnativi, […],
dalle economie di scala di cui non può fruire ab initio il nuovo concorrente
e dai costi effettivi di insediamento costituiti, in particolare, da tutte le spese
fisse per la penetrazione del mercato, come l’organizzazione di un’adeguata
rete di vendite, di campagne pubblicitarie a vasto raggio, tutti i rischi
finanziari che si risolvono in perdite se il tentativo non riesce. Dunque, pur
se è vero […] che i concorrenti possono usare gli stessi metodi di
produzione e di distribuzione seguiti dalla ricorrente, essi incontrano
ostacoli di ordine pratico e finanziario quasi insormontabili”
19
.
19
CG, 14 febbraio 1978, United Brands/Commissione, cit.
ALCUNE NOZIONI PRELIMINARI
1.5. La nozione di costo.
Come vedremo nel successivo Capitolo terzo, il principale metodo di
individuazione dei prezzi predatori, si basa sul raffronto tra prezzi praticati
e costi. L’idea di base considera un prezzo non redditizio, irrazionale e
quindi predatorio in quanto praticato esclusivamente per la propria capacità
di escludere il concorrente dal mercato, quello fissato ad un livello inferiore
al costo. Questa tecnica di identificazione deve quindi confrontarsi con due
problemi strettamente legati:
a) il tempo di riferimento per valutare la razionalità del
comportamento;
b) i costi da prendere in considerazione per operare un corretto
raffronto tra prezzo e costo che consenta di capire se esiste, in
relazione al periodo temporale scelto, una motivazione razionale al
di là dell’esclusione del concorrente.
L’importanza del tema impone, in relazione al secondo problema, un
certa familiarità con i vari concetti di costo che la scienza economica ci
offre. Tali concetti sono oggetto di studio della microeconomia e della
teoria dell’organizzazione industriale. Qui si cercherà di fornire in forma
essenziale, senza l’utilizzo di grafici e formule algebriche, gli elementi di
microeconomia propedeutici alla comprensione dei successivi capitoli.
ALCUNE NOZIONI PRELIMINARI
1.5.1. Costo fisso, variabile, totale, marginale.
Il termine “costo” è privo dell’appropriata capacità descrittiva. La
microeconomia individua innanzi tutto quattro categorie: il costo fisso, il
costo variabile, il costo totale ed il costo marginale.
I costi fissi sono quelli associati, appunto, ai fattori fissi: non dipendono
dal livello dell’output e, in particolare, devono essere sostenuti che
l’impresa produca o no. L’affitto degli impianti, ad esempio, è un costo
fisso poiché non dipende dal livello di produzione.
I costi variabili invece mutano in proporzione al livello produttivo: se
l’impresa non produce, non sostiene costi variabili. Un esempio classico è
dato dall’energia elettrica necessaria ad alimentare il processo, più la
produzione aumenta, più questi costi salgono.
Sommando costi fissi e costi variabili si ottengono i costi totali. Se poi
si divide ciascuna di queste tre categorie per la quantità prodotta in un dato
momento si ottengono rispettivamente: il costo fisso medio, il costo
variabile medio ed il costo totale medio
20
.
Il costo marginale rappresenta invece l’incremento dei costi da
affrontare per produrre un’unità aggiuntiva di prodotto; si tratta pertanto di
un elemento che si determina per differenza, data dal mutamento dei costi
variabili ad un livello di produzione più alto, dato che, per definizione, i
20
Per una trattazione dettagliata sul tema si vedano: R. DORFMAN, Prezzi e mercati,
Bologna, 1968, pag. 51 ss.; H.R. VARIAN, Microeconomia, Cafoscarina, Venezia, 1998.
Nella letteratura i tema di prezzi predatori, per tutti: P. AREEDA – D. TURNER,
Predatory Pricing and Related Practicies Under Section 2 of the Sherman Act, in Harv.
L. Rev., vol. 88, 1975.
ALCUNE NOZIONI PRELIMINARI
costi fissi non cambiano. Per la prima unità di prodotto, questo categoria di
costo corrisponde chiaramente al costo variabile medio. In seguito tra i due
si registra una differenza causata dalla variazione di efficienza produttiva
che l’impresa ha al variare della scala (c.d. economie di scala), che
comporta una diminuzione dei costi di produzione fino al raggiungimento
di un certo livello di capacità, ed un aumento da questo punto in poi, in
conseguenza del maggiore sforzo cui sono sottoposti gli impianti. Vi è
quindi un punto in cui il costo variabile medio torna a coincidere con il
costo marginale
21
, nel momento in cui la produzione di un pezzo aggiuntivo
non modifica la media dei costi variabili. Quando tale media comincia a
salire, il costo marginale è superiore al costo medio variabile, siamo in
presenza di diseconomie di scala.
Le medesime osservazioni valgono per il rapporto tra costo marginale e
costo totale medio che per definizione è più alto del costo variabile medio e
che muta al variare del livello di produzione per effetto del mutare di
questo.
Tutti questi tipi possono poi essere distinti in costi di breve e di lungo
periodo. Il secondo è quello in cui la capacità produttiva è destinata a
mutare, mentre il primo è quello in cui essa rimane invariata. Si assume
comunemente che, in un’ottica di lungo periodo, tutti i costi siano variabili,
pertanto si distingue solo tra costo totale e costo marginale.
21
È il punto d’equilibrio di un mercato perfettamente concorrenziale. Il prezzo del
prodotto corrisponde al costo marginale delle imprese, in quanto fino al momento in cui il
prezzo è superiore al costo di produzione di un’ulteriore unità di prodotto, l’impresa ha
interesse a produrre; oltrepassato tale punto quell’interesse svanisce, perché la relativa
parte della produzione verrebbe venduta in perdita, costando più fabbricarla di quanto non
si ricavi a venderla.