5
odierna, non può fare altrimenti, demolendo anche le ultime barriere (processo che è
iniziato con le avanguardie d’inizio secolo), e aprendosi alle nuove tecnologie.
Anche i confini tra le diverse attività artistiche stanno cadendo, non solo a livello
dell’espressione e dei linguaggi artistici, ma anche a livello istituzionale; primo
segnale: la variazione del nome del Ministero dei Beni Culturali in Ministero dei
Beni e delle Attività Culturali (16 ottobre 1998).
In un simile panorama, il museo come contenitore e diffusore d’arte, non poteva
certo rimanerne escluso. E’ per questo che la mia ricerca vuole registrare tutte le
iniziative culturali che stanno prendendo forma oggi in Italia e, in particolare, nella
mia città, Milano, per quel che riguarda l’arte contemporanea, dai progetti di un vero
e proprio “museo” (il Museo del Presente nell’area dei gasometri a Bovisa), a quelli
di Centri polifunzionali, che riuniscono attività diverse quali rassegne
cinematografiche, esposizioni di pittura, fotografia ecc. (La Fabbrica dei Vapori e
l’area Ansaldo).
Ho escluso dalla mia trattazione le gallerie d’arte contemporanea perché gravitanti in
un altro grande settore, quello del mercato dell’arte e della sfera dei privati, che
richiederebbe un’ulteriore trattazione; ho pertanto limitato la mia ricerca a ciò che
avviene, soprattutto, a livello pubblico, con particolare interesse a ciò che accade a
Milano, ma anche individuando i segnali più intensi, nel campo dell’arte
contemporanea, a livello nazionale, come il Castello di Rivoli, il Museo Pecci di
Prato, il progetto del nuovo Centro di arte contemporanea a Roma ecc..
La mia ricerca si è inoltre estesa anche a diverse realtà straniere, ed in particolare a
quella americana, francese, tedesca, olandese e inglese, attraverso la lettura di vari
mensili d’arte (soprattutto de “Il Giornale dell’Arte”, mensile di informazione,
cultura, economia, Umberto Allemandi & Co), per poterle mettere a confronto con il
sistema legislativo, amministrativo e burocratico italiano, pur essendo cosciente
dell’impossibilità di un trapianto in toto di un altro sistema.
Cercare di definire in modo corretto ed esauriente un museo d’arte contemporanea, é
quindi un compito che scopro essere abbastanza arduo dal momento che il museo
d’arte contemporanea, in Italia, é una realtà nuova e piuttosto indefinita; ed é
6
indefinita non solo a livello giuridico, ma anche a livello di nozione culturale in quel
che é il “patrimonio”, purtroppo piuttosto scarso, del sapere comune.
E’ infatti imprecisa e poco nota la distinzione tra arte moderna e arte contemporanea
tant’è che a tutt’oggi l’arte attuale si distribuisce tra il museo d’arte moderna e il
museo d’arte contemporanea.
L’arte contemporanea dovrebbe essere quell’arte che é legata al presente e che é
passata nei circuiti della fruizione prima ancora di aver trovato un posto nella storia
dell’arte. Ma c’è da chiedersi: l’arte di oggi entra in tali circuiti o ne rimane
periferica?
Penso che la questione della fruizione dell’arte contemporanea costituisca un grosso
problema perché se lo si analizza, si scopre una profonda ed ampia lacuna che nel
corso degli anni, a partire da una data ancora da precisare, é cresciuta a dismisura.
Ora, per poterne risolvere almeno in parte il danno é necessario scovare e
rimuoverne la causa.
Azzardarmi a dare un giudizio su ciò che é accaduto é sicuramente un compito
troppo importante e al di là delle mie conoscenze poiché questo é un campo che vede
affacciarsi problemi connessi alla storia dell’arte e alla storia, ai sistemi politici e di
governo, alle questioni burocratiche e finanziarie, ai sistemi di informazione dei
mass media e ai meccanismi di percezione visiva cambiati negli anni, ai sistemi
scolastici e di didattica in generale, ai giochi di mercato e ai poteri dei critici.
Cercare di trovare una soluzione a tutto questo non é certamente facile e non posso
fare a meno di chiedermi: ma l’arte di oggi effettivamente può e vuole ancora
comunicare qualcosa? Non c’è a volte il rischio di far passare come arte anche ciò
che in realtà é solo un oggetto ultra valutato dal mercato e privo di qualsivoglia
“qualità” (termine alquanto ambiguo, di difficile precisazione) solo perché non si
vuole cadere in affermazioni tacciate di “pregiudizio accademico”?
Senza addentrarmi oltre modo in questa direzione, anche perché io non ne so dare la
risposta (sono solo mie inquietudini e mie incertezze), mi chiedo: come riaggiustare i
fili logorati e spezzati che collegano l’arte al vivere presente, di tutti?
Anche questo é un compito di non certo facile ed immediata risoluzione.
Penso che la gente oggi più che mai abbia un gran bisogno di “evasione”, di
“comunicazione”, di “conoscenza”.
7
Anche oggi la folla si fa guidare e trasportare (come lo ha dimostrato ad esempio lo
strapubblicizzato “evento” della “Madonna con l’ermellino” di Leonardo da Vinci).
Quindi c’è da parte del popolo una volontà, un interesse che aspetta solo di essere
preso per mano. In che modo guidare la collettività all’arte é un compito assai
difficile anche perché non bisogna commettere l’errore di pensare di direzionare un
gruppo di “pecore”. E’ infatti importantissimo rieducare all’A, B, C che é stato
perduto in modo da far nuovamente “pensare” con giudizio critico che si fonda su di
una base solida.
Questa base solida oggi non esiste e la causa é da rintracciare nel sistema didattico
italiano. La storia dell’arte viene insegnata con metodo così come si fa con la
matematica o l’italiano? Sulla base della mia esperienza scolastica, e di quella di
molti miei coetanei (a parte alcune rare felici eccezioni), posso rispondere di no.
E’ quindi chiaro che se mancano le basi non si crea quel sistema necessario per cui la
conoscenza genera domande e dubbi, e quindi muove pensieri e si informa
generando altra conoscenza. Se manca questa non può ovviamente nascere la spinta
verso un qualcosa che non incuriosisce perché tenuto al di fuori, ai margini. Non si
può dire infatti che l’arte sia oggi entrata nella vita di tutti e quotidianamente!
Senza perdermi oltre in questo buco nero, mi schiero, al di là di tutte le affermazioni
fatte e di tutti i dubbi esposti, con chi é ancora ottimista e crede che qualcosa si possa
ancora fare per dare una svolta a tutto questo.
Nonostante le mie riserve sull’arte di oggi, o meglio, riserve sul “sistema dell’arte”,
penso che ci siano ancora opere ed artisti che hanno voglia di comunicare e lo fanno
con qualità (termine che, ripeto, è ambiguo perché oggi quanto mai ricco di
soggettività).
Cerco quindi di raccogliere le diverse iniziative ed attività che lavorano in questo
senso per dimostrare che c’è ancora la volontà e le potenzialità per risollevare le sorti
di un disastro che é iniziato parecchio tempo fa.
La tesi sarà dunque organizzata in due parti:
la I Parte sarà caratterizzata da un approccio sistematico a ciò che attualmente
distingue il “sistema-museo”, dalla sua definizione a livello legislativo, all’evolversi
8
dei suoi spazi e attività, e ai problemi attuali di “comunicazione” e di “informazione”
ad un pubblico più allargato.
La II Parte verterà invece sulla particolare situazione dell’arte contemporanea a
Milano, prendendo in esame il ricco patrimonio artistico comunale del nostro secolo,
gli spazi espositivi pubblici e i maggiori centri a gestione privata, i problemi socio-
culturali e a livello amministrativo, e i progetti di cui oggi si anima la città
(ricordando anche i progetti passati, purtroppo mai realizzati). La trattazione della
realtà milanese sarà preceduta da una prima rilevazione dei maggiori musei e centri
espositivi per l’arte contemporanea in Italia e nel mondo, per prendere maggior
coscienza delle nostre risorse.
9
I PARTE
- IL MUSEO D'ARTE
CONTEMPORANEA:I TRATTI DI UNA
IDENTITA' NUOVA -
10
INTRODUZIONE AL CAPITOLO I
Vorrei motivare qui di seguito il perché ho voluto fornire in questo capitolo una
descrizione dettagliata riguardo la legislazione dei beni culturali.
Innanzitutto è importante evidenziare che i musei d’arte contemporanea non
rivestono un ruolo autonomo, specifico, nei confronti di altri musei artistici; essi
ruotano infatti in un unico raggruppamento, poiché è sempre mancata la volontà da
parte dello Stato italiano di rispondere alle esigenze più immediate della società. In
particolare non è stato mai compreso il valore di una tale propaganda culturale e il
riconoscimento della portata sociale, culturale e storica dei più recenti fenomeni
artistici, in realtà unico modo di creazione di un’identità che non può essere basata
solamente sulla perpetuazione dei valori consolidati del passato.
Al contrario dell’Italia, altri paesi europei ne hanno capito l’importanza, ponendola
al centro dei loro programmi politici, consci anche dei risvolti economici, oltre che
culturali, cui l’incentivazione e la promozione di nuovi percorsi artistici e di nuovi
spazi avrebbero portato. Dare rilievo a questo particolare settore dell’arte
permetterebbe, inoltre, di creare nuove opportunità lavorative (previa adeguata
formazione di figure professionali competenti) e di rispondere quindi anche al grave
problema della disoccupazione.
Avendo preso coscienza della mancanza di una fisionomia del museo d’arte
contemporanea, il mio studio sulla situazione dell’arte a Milano, ha dovuto
necessariamente allargarsi al sistema legislativo vigente riguardante i beni culturali,
per meglio ravvisare una possibilità di sviluppo futura. A questo proposito è
attraverso la lettura di articoli di giornali specializzati nel settore artistico, ed in
particolar modo del “Il giornale dell’arte” (mensile di informazione, cultura,
economia. Umberto Allemandi editore), che sono pervenuta ad un confronto diretto
ed aggiornato delle realtà museali italiane e straniere. Uno studio indispensabile per
poter capire realmente le differenze istituzionali, burocratiche e legislative tra le
varie sedi di musei d’arte contemporanea.
Ho avuto modo di costruirmi un panorama abbastanza ampio, seppur ancora generico
per mancanza di mie conoscenze in ambiti specifici quali il campo (direi a dir poco
11
“articolato”) della legislazione dei beni culturali, sulla situazione italiana nel campo
dell’arte.
A tal riguardo, penso che al di là delle polemiche che si sono mosse contro alcuni
punti della legge del Ministro Ronchey (legge n.4/1993), o delle varie “astuzie”
escogitate dal Ministro Veltroni per poter incentivare la cultura e l’arte in Italia,
penso che, comunque, grazie a questi ministri, qualche passo sia stato compiuto, in
un modo o nell’altro in questo settore, famoso per la “legnosità”, la poca chiarezza e
la lentezza burocratica con cui ogni giorno i direttori dei musei si trovano costretti a
lottare.
Fornirò quindi un’analisi dettagliata dei provvedimenti presi in Italia negli ultimi
anni, con particolare attenzione alle leggi Bassanini sul decentramento dei poteri
amministrativi dello Stato alle Regioni (legge 59/1997 e legge 127/1997), poiché
sono alla base di cambiamenti di grosso spessore nella statica realtà italiana. Tra gli
slogan più diffusi dalla nuova normativa nel mondo della pubblica amministrazione,
c’è sicuramente quello della semplificazione delle procedure e dell’avvicinamento
tra il settore amministrativo e i cittadini. Alcuni vedono il decentramento come un
insieme di rivoluzioni economico-finanziarie e di più ampio raggio culturale, che si
riveleranno basilari per un funzionale e positivo risollevamento delle sorti italiane al
livello del già avanzato stato di quelle europee; altri, al contrario ne avvertono il
rischio che vede la realtà specifica dei musei travolta perché ritenuta sorpassata.
Dall’unità del nostro paese in poi, si è assistito ad un progressivo processo di
centralizzazione dei poteri decisionali ed in ciò consisteva la modernità rispetto alla
frammentazione degli Stati preunitari; oggi, al contrario, sembrerebbe che la
modernità sia caratterizzata da una direzione opposta di decentramento.
I criteri di giudizio in un simile argomento possono essere molteplici ed includere
motivazioni ideologiche, pragmatiche e anche di convenienza. Penso che i musei
italiani, all’interno di questo sistema a pendolo tra la centralizzazione e la
decentralizzazione, debbano necessariamente studiare le soluzioni prese negli altri
paesi per valutare la fattibilità di una loro applicazione alle nostre realtà museali,
tenendo conto delle diversità socio-culturali.
12
CAPITOLO I
I. LA LEGISLAZIONE SUI BENI CULTURALI
Per meglio comprendere i vincoli ai quali sono soggette le opere d’arte nello statuto
italiano si è reso necessario uno studio, seppur condotto a livello generale, della
legislazione dei beni culturali.
Dall’approccio alla materia, che presenta varie problematiche essendo ampia e ricca
di apporti giurisprudenziali
1
, risulta subito evidente l’arretratezza del nostro sistema
legislativo in campo culturale–artistico. (
1
Per una trattazione sistematica e chiarificatoria del
panorama legislativo italiano è di particolare interesse il testo di Wanda Cortese “Lezioni di
legislazione dei beni culturali”, Padova, CEDAM, 1997)
Il vigente strumento di tutela del bene culturale è tuttora la Legge 1 giugno 1939
n.1089, una legge che risale dunque a prima della II guerra mondiale.
Da questa data ad oggi poche modifiche degne di rilievo sono state apportate nel
sistema legislativo italiano, per quel che concerne la realtà artistica.
Il primo segnale di attenzione per il settore dei beni culturali da parte del legislatore
della Repubblica, fu dato dalla normativa contenuta nell’articolo 9 della
Costituzione.
Questo infatti inserisce tra i fini della Costituzione lo sviluppo della cultura e della
ricerca scientifica. Essa, ricollegandosi al Codice Civile del 1942 che agli articoli
822 e 824 includeva nel demanio dello Stato e degli enti pubblici territoriali, gli
immobili riconosciuti di interesse storico, archeologico, artistico e le raccolte dei
musei, delle pinacoteche, archivi e biblioteche attribuiva alla nostra Repubblica
l’attestato di “Stato di cultura” e riconosceva la tutela del patrimonio storico e
artistico e del paesaggio come mezzo per il raggiungimento di un buon livello
culturale.
Ma l’attenzione dedicata al settore dal legislatore fu veramente superficiale se
consideriamo che al di fuori dell’art. 9, non vi fu previsione legislativa se non le già
citate leggi del ’39 che comunque furono fatte osservare ben poco, data la peculiarità
del periodo storico in cui furono emanate .
Nel periodo che intercorre tra le leggi del ’39 e la Costituzione si opera una
trasformazione, perché le prime avevano a base la concezione estetica del bene, la
13
seconda fa riferimento invece al valore culturale del bene stesso, visto non più come
oggetto da conservare staticamente ma come strumento da utilizzare per l’elevazione
culturale della persona.
La tutela di tale patrimonio è finalizzata non alla pura e semplice conservazione
delle cose, ma alla promozione delle condizioni per una fruizione più ampia.
Nel 1964, finito ormai il periodo bellico, nel momento di massimo risveglio culturale
dell’Italia, il legislatore rivolse nuovamente la sua attenzione al settore delle “cose
d’arte” e cominciò a predisporre strumenti adeguati per il recupero e la
valorizzazione del patrimonio storico e artistico, istituendo una Commissione di
indagine per la tutela e la valorizzazione delle cose di interesse storico, archeologico,
artistico e del paesaggio (Legge 26 aprile 1964 n. 310) che aveva appunto lo scopo di
effettuare un esame approfondito delle reali condizioni in cui versava il patrimonio
culturale italiano.
La Commissione Franceschini
2
, chiamata così dal nome del suo Presidente,
pubblicò alla fine dei lavori nel 1966, i risultati della sua indagine, che aveva
toccato, tutti i settori culturali e cioè il settore archeologico, artistico, storico,
monumentale, urbanistico, museario, individuando per tutti i settori carenze
macroscopiche quali la mancanza di programmazione, catalogazione insufficiente e
in alcuni casi inesistente, dispersione di beni e prospettando alcune proposte,
articolate in 84 dichiarazioni.
(
2
I lavori della Commissione Franceschini furono ripresi poi dalla prima e seconda Commissione
Papaldo istituite il 9 aprile 1968 e il 31 marzo 1971)
La dichiarazione più pregevole è la prima da cui è poi stata enucleata la definizione
di beni culturali che sarà presa a base di tutto il sistema. E’ infatti proprio di questo
periodo la nozione di “beni culturali e ambientali” che sostituisce la vecchia
dizione “cose artistiche e storiche, oggetti d’arte” delle leggi 1 giugno 1939.
La trasformazione del termine “cosa” nel concetto di “bene culturale” sottolinea
l’evoluzione profonda che si è avuta in materia; “sono beni culturali - secondo la
definizione, che ne fornisce la Commissione - tutti quei beni, come beni di interesse
archeologico, storico, artistico, ambientale, paesistico, archivistico e librario e ogni
altro bene che costituisca testimonianza materiale, avente valore di civiltà”.
14
Felice intuizione della commissione Franceschini fu anche la proposta di un
“Ministero della cultura contemporanea”, trasformazione che vide la realizzazione
solo di recente ad opera del Ministro Walter Veltroni (16 ottobre 1998 approvata
dalla Commissione bicamerale la legge che istituisce il “Ministero per i beni e le
attività culturali”). Si legge infatti nel primo dei tre volumi editi trent’anni fa, per
documentare la conclusione della Commissione Franceschini, a firma del senatore
Carlo Levi: “Fu proposta ed insistentemente riproposta da un membro della
Commissione, l’istituzione, secondo l’esempio di quasi tutti i maggiori stati moderni
di un Ministero della cultura: un Ministero non burocratico a cui potessero essere
affidati i problemi dell’arte contemporanea, sia di quella figurativa che delle altre
arti (letteratura, musica, teatro, ecc..), che dei mezzi culturali di massa (radio,
televisione, giornali, ecc..) che, infine, dell’architettura e della pianificazione
urbanistica […]; problemi tutti che sembrano collegati, e meglio affrontabili in
questa sede comune che non in quelle particolari, isolate e tecnicistiche della
pubblica istruzione, dei lavori pubblici e del turismo e spettacolo. A questo proposto
Ministero della cultura contemporanea si sarebbe potuta annettere come più idonea e
ragionevolmente collegabile, anche l’amministrazione delle belle arti, o beni
culturali antichi”. E’ questa una proposta che, come si vede, andava molto vicino a
ciò che poi fece il Ministro Veltroni, e vale rimarcare che Levi metteva al primo
punto tra gli affidamenti di un siffatto ministero, “i problemi dell’arte
contemporanea”.
Problemi per cui il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali (istituito nel 1974) e
prima di esso, la Direzione Generale delle antichità e belle arti (che faceva parte
della Pubblica Istruzione), hanno sempre manifestato un profondo disinteresse.
L’arte contemporanea, a sentire alcuni burocrati, neanche rientrerebbe negli orizzonti
della legge 1 giugno 1939 n. 1089 che, come già detto, costituisce tuttora il vigente
strumento di tutela del bene culturale e che riguarda manufatti di interesse storico e
artistico aventi più di cinquant’anni di età.
E’ facile obiettare che:
1- l’arte del ventesimo secolo rientra ormai per metà tra i beni tutelati da questa
legge;
15
2- che i compiti del Ministero per i Beni Culturali debbono, ad evidenza, andare al di
là dell’applicazione di una o più leggi, per assumere compiti di documentazione,
valorizzazione e promozione nei confronti di ogni espressione d’arte, ivi compresa
quella prodotta ai nostri tempi, che è anzi il termometro dell’effettiva vitalità
culturale di un paese.
Non sono solo le glorie del passato a testimoniare un simile tasso di fervore
culturale, ma è senza dubbio, se valida, la produzione del presente.
Paesi come gli Stati Uniti, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna, il Giappone,
per citare solo i principali, puntano a giusto titolo e con forza, sulla valorizzazione
della loro arte contemporanea documentandola in appositi musei che aggiornano con
oculati acquisti.
I.1. VERSO UNA DEBUROCRATIZZAZIONE DEL MUSEO
Il trasferimento dei poteri alle regioni
Con l’avvento delle regioni e delle leggi regionali appare evidente la tendenza
evolutiva verso una forma-museo, dominata da criteri di dinamicità e considerata
soprattutto sotto l’aspetto della promozione, produzione e diffusione culturale.
Purtroppo all’apertura mentale, sul piano teorico non fa riscontro un’equivalente
innovazione sul piano di esecuzione pratica delle intenzioni di museologi e
legislatori.
Alle capacità teoriche si affiancano infatti difficoltà economiche e di spazio,
mancanza di personale specializzato, lungaggini burocratiche dei meccanismi di
spesa che ostacolano e rallentano l’avvio della “macchina museale”.
Per quanto il museo dipenda, dagli anni settanta, in prevalenza dagli organi regionali
e comunali, i finanziamenti sono pur sempre dipendenti dal Ministero dei Beni
Culturali, cioè, da un organismo centrale che crea lentezze burocratiche tali da
bloccare la regolarità delle varie attività.
Provvedimenti legislativi particolarmente importanti sono quindi quelli con cui viene
attuato il trasferimento dello Stato alle Regioni in materia di beni culturali e
ambientali. Disposizioni in tal senso si possono far risalire al 1977, ed in particolare
al DPR 24 luglio 1977 n° 616, noto come “legge del decentramento” che ha
devoluto alle regioni la regolamentazione della materia dei beni culturali.
16
Le singole Regioni hanno, in base ad una sempre costante evoluzione della
legislazione statale, esteso il loro ambito di intervento facendo proprie materie ad
esse precluse (beni ambientali, centri storici, promozioni di attività culturali).
Già il DPR 1972 n° 3 intitolava un capo intero ai musei e biblioteche di enti locali
esattamente agli artt. 7, 8, 9, 10, 11 e devolveva alle Regioni le funzioni concernenti
l’orientamento e il funzionamento dei musei ed enti locali, la manutenzione delle
cose raccolte nei musei e nelle biblioteche di enti locali o di interesse locali, gli
interventi finanziari, diretti al miglioramento delle raccolte, il coordinamento delle
attività dei musei, le mostre di materiale storico, trasferiva le Soprintendenze ai beni
librari, alle rispettive regioni di appartenenza e delimitava le funzioni residuate allo
Stato, alle Regioni.
Il DPR 616 invece tratta la materia Beni Culturali al capo VIII del titolo II, artt. 47,
48, 49. Secondo questo DPR (art. 47), vengono trasferite alle Regioni le funzioni
relative alle materie musei e biblioteche, di enti locali (conservazione,
funzionamento, pubblico godimento, sviluppo dei musei, raccolte di interesse storico
artistico), mentre le funzioni amministrative in ordine alla tutela e valorizzazione del
patrimonio storico, artistico, librario, ecc.. avrebbero dovuto essere stabilite con
leggi da emanare entro il 31 dicembre 1979.
Gli ultimissimi anni (dal 1997) hanno visto infittirsi sempre di più i dibattiti sulla
validità o meno di un decentramento dei poteri amministrativi dallo Stato alle
Regioni. Mi riferisco in particolare al “federalismo amministrativo” per i beni
culturali, concepito dalle leggi Bassanini 1 (legge 59/1997) e Bassanini 2 (legge
127/1997) ed attuato dal decreto 112 “Cheli–Veltroni” del 6 febbraio 1998. Tale
decreto si fonda implicitamente su tre scommesse:
- che attraverso l’autonomia locale le preferenze dei cittadini nei confronti delle
politiche culturali siano meglio rappresentate e soddisfatte;
- che aumenti l’influenza dei cittadini nella cosa pubblica e che di conseguenza il
controllo sui comportamenti di spesa degli amministratori sia più efficace;
- che la gestione locale sia più efficiente e, a parità di quantità e qualità di servizi
erogati, costi di meno.
17
In definitiva ci si attende che l’autonomia locale abbassi il tasso di burocrazia, che il
pagamento delle imposte sia più strettamente collegato con i servizi pubblici e che le
responsabilità politiche, ed amministrative siano più chiaramente assegnate.
Analizzando i testi dei decreti citati (di cui allego in appendice alcuni punti rilevanti)
risulta evidente che il problema centrale riguarda la “tutela”.
Quando la delega conferita dalla legge Bassanini al governo è giunta alla
formulazione del decreto legislativo di attuazione, Bassanini ha interpretato la
“tutela” scorporandone essenziali contenuti (come la valorizzazione, la gestione, la
promozione e persino la catalogazione) “per riservare allo Stato -come hanno
osservato esponenti di Italia Nostra- una tutela ridotta in pratica a compiti
burocratici” e per trasferire a Regioni e enti locali ogni altra funzione e persino la
proprietà, con la gestione, di pressoché tutti i musei, pinacoteche, raccolte di
interesse storico, aree archeologiche dello Stato.
Il Ministro Veltroni, presa visione di questo schema di decreto legislativo, detto
Cammelli dal nome del presidente della Commissione che aveva lavorato per
Bassanini, non lo ha accettato e ha dato incarico al prof. Cheli di redigere un nuovo
decreto legislativo che interpretasse ragionevolmente la tutela e cioè “ogni attività
diretta a riconoscere, conservare e proteggere i beni culturali ed ambientali”. Perciò
il testo Cheli innanzitutto riserva allo Stato “le funzioni e i compiti di tutela” la cui
disciplina generale è contenuta nella legge 1 giugno 1939 n° 1089, la cosiddetta
“legge tutela”.
Il trasferimento agli enti locali della gestione dei beni culturali statali ha però
suscitato più dubbi che entusiasmi e per lo più senza distinzione di campo.
Hanno infatti espresso timori gli attuali gestori, che non hanno accolto con molto
favore la distinzione, concettuale oltre che di competenza, tra tutela, gestione,
promozione e valorizzazione dei beni culturali.
Interessante a tal proposito il parere della dottoressa Alessandra Mottola Molfino
3
museologa e direttrice del settore musei del Comune di Milano: “come si fa a
dividere tutela da gestione e poi da valorizzazione, quando sono tutte totalmente
integrate nel nostro lavoro quotidiano? […] Come faranno i direttori dei musei la cui
gestione sarà stata trasferita dallo Stato alle Regioni, alle altre Provincie o ai
Comuni, ad intervenire nella conservazione di beni che sono sottratti alla loro
18
competenza per quanto riguarda la famigerata “tutela”? […] e quali manutenzioni e
restauri delle opere potrà compiere se i laboratori sono solo presso le Soprintendenze
che sono anche le uniche fucine di professionalità specifiche per lo scavo, la
rilevazione, il restauro? Che vale ripetere che non si può staccare la gestione dalla
tutela? E qui si stacca addirittura il restauro dalla tutela! […] In questo decreto è
chiara la volontà di contentare tutti e nessuno […] Ma gli amministratori di Regioni
e comuni italiani che sembrano accontentarsi di avere attribuite valorizzazione e
gestione non hanno capito che se le cose andranno come previsto in questo decreto
resteranno in pratica come prima: lasciare allo Stato la tutela significa lasciargli
anche tutto il resto. Tutto come prima, anzi peggio di prima”. (
3
Da “Il Giornale
dell’Arte”, mensile di informazione, cultura, economia, Umberto Allemandi & C., n° 165 aprile 1998)
I.2. COME DESTATALIZZANO GLI ALTRI PAESI EUROPEI
La privatizzazione degli olandesi
Se si guardano gli esempi stranieri su questo argomento si vedrà che ad esempio
l’Olanda ha compiuto questo cambiamento in tre anni con continue consultazioni dei
tecnici e dei lavoratori delle strutture museali a tutti i livelli (mentre nella “Consulta”
art. 149 Comma 1 -che si occuperà dei beni e attività culturali- i “tecnici”, cioè quelli
che davvero sanno come funziona un museo non sono previsti!).
Sul tema del decentramento negli altri paesi europei sono stati fatti grandi passi per
liberare le istituzioni museali dal soffocante abbraccio della pubblica
amministrazione e dare loro larghe autonomie già da diversi anni. Si è difatti
provveduto a fondare Trust (amministratori fiduciari) in Gran Bretagna,
Etablissement Publique in Francia (paese nel quale agli inizi degli anni ottanta
vennero promulgate le “leggi di decentramento”), fondazioni in Olanda, e in
Germania i maggiori musei si sono di fatto staccati dai Ministeri delle Finanze dei
Länder (regioni), da cui dipendevano strettamente
4
. (
4
A differenza degli altri paesi europei,
la giurisdizione culturale tedesca non è di competenza di un ministero centrale, bensì dei diversi
Länder; i 16 Länder, insieme a sponsor privati, come la Daimler Benz e la Siemens, ogni anno
mettono a disposizione ben 15 miliardi di lire circa, allo scopo di acquistare beni culturali di interesse
per la nazione)