previsione fino ad allora piuttosto trascurata, verrà ripresa ed
estesa, e si daranno stringenti disposizioni alle autorità
competenti per garantire la sollecita applicazione di una
normativa ormai caduta in desuetudine. In effetti, il crocifisso
tornò in breve tempo nelle aule, nelle piazze, nei tribunali
coerentemente al mutato approccio manifestato nei confronti
della questione religiosa da parte delle forze politiche al potere.
Appartengono al ventennio fascista i due regi decreti, il n. 965
del 1924 e il n. 1297 del 1928, che sancirono obbligo e modalità
di affissione del crocifisso nonché numerose circolari ministeriali
volte a far rispettare la prescrizione. Quando la Seconda Guerra
Mondiale travolse il nostro paese e anche il regime fascista, tali
disposizioni non vennero comunque abrogate. La Costituzione
che delineò l’impianto della Repubblica non si occupò della
questione, limitandosi a recepire i Patti Lateranensi con cui il
regime fascista nel 1929 aveva risolto la “Questione romana”.
Malgrado anche tra i costituenti non fossero mancate delle
perplessità sulla vigenza in toto dei Patti, stante la loro
contrarietà con alcuni principi fondamentali della Costituzione, e
gli stessi costituenti avevano fatto leva su di un “comune
intendimento” relativo alla loro futura revisione, alcuni decenni
sono trascorsi senza che nulla mutasse. Solo nel 1984 venne
emanata la legge di attuazione del nuovo Concordato firmato nel
febbraio 1983 e solo in questo momento scomparve il riferimento
al cattolicesimo quale religione di Stato. Seguì la stagione delle
intese e per la prima volta venne affrontata anche nei tribunali
italiani la questione dei crocifissi e della loro collocazione. In
dottrina si evidenziò come il nuovo Concordato non poteva che
aver travolto anche le disposizioni di riferimento ai Patti
Lateranensi giacché non aveva senso abrogare questi ultimi e
lasciare in vita le prime; si attirò l’attenzione sul clima politico e
culturale nel quale tali disposizioni erano state elaborate e si pose
l’accento sui profondi cambiamenti intervenuti nella società e più
in generale a livello storico e culturale. Ma una importante
pronuncia del Consiglio di Stato, nell’aprile 1988, ribadì la
perdurante validità dei regi decreti in discussione, notando come
nulla in proposito fosse stato stabilito nella Costituzione e
soprattutto come il crocifisso potesse considerarsi un simbolo
culturale universale, stante anche il riconoscimento operato dal
Concordato nei confronti del cattolicesimo, considerato
patrimonio storico del popolo italiano. Da allora la questione è
stata più volte sollevata e ricorrenti episodi di cronaca hanno
mostrato come essa continui a dividere e a sollecitare interventi
che spesso travalicano le competenze giuridiche. Inoltre, vicende
del tutto simili sono segnalabili in Germania, Francia, Svizzera,
Austria, tanto che non è mancato chi ha fatto osservare come la
questione del crocifisso abbia posto in discussione ed in un modo
brutale la presenza del Cristianesimo nell’Europa attuale. In Italia
nel 2000 una sentenza della Corte di Cassazione annullò la
condanna di un cittadino che aveva rifiutato di assumere
l’incarico di scrutatore a causa della presenza del crocifisso negli
arredi scolastici, considerando giustificato il motivo di rifiuto
addotto, e cioè la contrarietà dell’incarico in tale contesto con
l’adesione del ricorrente al principio di laicità dello Stato; inoltre
la Cassazione, richiamando la pronuncia del Consiglio di Stato,
la considerò non più giustificata alla luce dell’avvenuta
evoluzione della giurisprudenza in materia. Nel mio lavoro ho
cercato di riportare le opinioni più diverse, tenuto conto che
ognuna di esse contribuisce ad arricchire quel dibattito di idee
che è fondamentale soprattutto in questioni ricche di implicazioni
come questa. In effetti la discussione sulla presenza del crocifisso
o di altri simboli religiosi nei luoghi pubblici chiama in causa le
regole sulle quali le persone professanti culti diversi decidono di
fondare la propria convivenza, ma anche i rapporti con i nuovi
culti e gruppi etnici e sociali, nonché da ultimo l’attitudine e le
caratteristiche che uno Stato deve possedere e mantenere di
fronte al fenomeno religioso. Avere o non avere in un luogo che
non sia quello strettamente privato un simbolo religioso,
pretendere l’assoluta neutralità dei luoghi di studio e di lavoro:
tutto ciò è stato al centro di numerose sentenze da me esaminate
e di un intenso dibattito che ha mostrato come evidentemente la
questione sollevi forti passioni, proprio perché coinvolge il
proprio rapporto con la religione ma anche con lo Stato e chiama
in causa in modo netto le proprie radici storiche e l’assetto futuro
della convivenza tra cittadini e tra popoli di cui non sempre è
agevole intravedere le caratteristiche. Nel tracciare l’evoluzione
dei principi di laicità, di libertà di religione e di coscienza, tutte
chiamate in causa dalla questione del crocifisso, ho voluto
riportare anche le opinioni espresse da esponenti di culti diversi
da quello cattolico e anche di laici ed atei, per mostrare come
spesso un simbolo è percepito in modo nettamente differente, pur
quando si tratta di un simbolo apparentemente universale come
quello del crocifisso. Riportare brevemente la storia di tale
simbolo mi ha permesso di evidenziare come le sollecitazioni e le
suggestioni da esso esercitate sono davvero tante e composite, un
tratto probabilmente comprensibile se si considera il profondo
significato religioso che il crocifisso possiede per i cristiani e la
sua valenza culturale, in Occidente e altrove, data la diffusione
del Cristianesimo e del complesso di principi e valori ad esso
ispirati. Forse proprio l’ampiezza e la complessità della
questione, davvero solo apparentemente secondaria, spiega
l’atteggiamento di gran parte dell’opinione pubblica che spesso
ritiene del tutto inadeguate le soluzioni giuridiche apprestate dal
legislatore così come le decisioni prese dai giudici chiamati a
dirimere episodi di contestazione o obiezione di coscienza ai
simboli religiosi. Non è difficile ipotizzare che la questione
tornerà ad essere sollevata nei tribunali e forse solo consolidati
mutamenti sociali e culturali porteranno a soluzioni differenti
rispetto a quelle adottate sinora, tenuto conto di come il diritto in
generale e ovviamente anche il diritto ecclesiastico sia riflesso
del contesto storico nel quale è elaborato, e soprattutto di come
anch’esso si faccia portatore delle esigenze e dei bisogni, anche
in materia religiosa, dei consociati.
CAPITOLO 1
La politica legislativa italiana in materia
ecclesiastica
1.1 Dal 1848 al 1922: dalla professione di
confessionismo dello Statuto Albertino al sorgere
della questione romana tra tentativi di conciliazione e
provvedimenti giurisdizionalisti
La disciplina giuridica del fenomeno religioso deve essere
esaminata tenendo conto delle esperienze e delle vicende del
passato; è evidente che il fattore storico assume un rilievo
particolare per un’adeguata comprensione del sistema vigente.
Un’esigenza, quella della disamina storica, che acquista
un’importanza decisiva nel momento in cui ci si accosta alla
storia complessa delle relazioni tra Stato e Chiesa nel nostro
Paese. È difficile tracciare una separazione netta tra gli
orientamenti in materia ecclesiastica che hanno contrassegnato i
diversi periodi della storia d’Italia più o meno a partire dall’Unità
sino ai giorni nostri. Appare, in effetti, arbitrario attribuire questa
o quell’istanza ad un dato momento storico, anche tenendo conto
della notevole influenza che fattori culturali e sociali hanno avuto
sulle relazioni tra Stato e Chiesa; un’influenza che a tratti ha
modellato queste relazioni aldilà delle intenzioni degli uomini
che ne sono stati protagonisti. È dunque per convenzione che nel
trattare le vicende della politica legislativa ecclesiastica tra
Ottocento e Novecento si procede all’individuazione di diversi
periodi storici che coincidono con i tre differenti regimi politici
che hanno contraddistinto la vita pubblica italiana, ovvero il
periodo liberale, il regime fascista e la fase repubblicana e
democratica. Prima di esaminare l’evoluzione storica della
politica legislativa ecclesiastica, è però necessario affrontare una
questione all’apparenza secondaria ma in realtà importante per la
comprensione dell’attuale assetto storico in materia ecclesiastica
nonché del modo di concepire il ruolo e la posizione del
sentimento religioso nella società contemporanea. È, infatti,
opportuno soffermarsi sul significato e la rilevanza giuridica del
fenomeno religioso. Per quale motivo lo Stato ha sentito
l’esigenza di regolare i propri rapporti con le istituzioni
ecclesiastiche? Per rispondere a questo interrogativo è necessario
chiedersi quali sono le caratteristiche del fenomeno religioso e
l’influenza che esso ha sulla vita individuale, collettiva e
culturale. In effetti, il fenomeno religioso non è un fenomeno
esclusivamente individuale ma ha un riflesso sulla dimensione
sociale; questa sua caratteristica non deriva solo dalla
“vocazione” socialitaria insita nella natura umana ma anche dalla
tendenza di quasi tutte le religioni verso forme di vita associata.
La dimensione religiosa implica (quasi) sempre un momento
collettivo insopprimibile, dato anche dal legame che si sviluppa
tra i seguaci delle singole confessioni religiose, tenuti insieme da
quella che è stata anche definita “una comunità d’interessi”
1
. Tale
aspetto comunitario si rivela evidente nella Chiesa cattolica
all’interno della quale è stato dato particolare rilievo al carattere
comunitario della vita religiosa e all’importanza assunta
dall’associazionismo nonché alla attività di apostolato. Si può
affermare che valutando la questione dal punto di vista dello
Stato, i gruppi confessionali costituiscono “centri organizzati”
attraverso i quali è possibile che gli interessi di natura religiosa
siano soddisfatti
2
. La rilevanza sociale del fenomeno religioso ha
dunque comportato l’intervento del legislatore nazionale a vari
livelli e in differenti modi che saranno poi successivamente
analizzati. Altro aspetto da non trascurare nel momento in cui si
sottolinea il rilievo del fenomeno religioso, è il collegamento
esistente fra i valori espressi dalla coscienza e la conseguente
condotta umana: laddove l’individuo conforma il proprio agire a
regole morali tratte dai dogmi religiosi, il comportamento che ne
segue è oggetto di attenzione da parte dello Stato, che si fa
portatore degli interessi evidenziati dalla popolazione. Detto
questo, è interessante soffermarci sulla politica legislativa
italiana in ambito ecclesiastico a partire dal 1848, anno
dell’avvio in Piemonte della politica ecclesiastica della Destra
con riflessi che si sono progressivamente estesi alle altre regioni
a partire dal 1859. È del 1848 lo Statuto Fondamentale del Regno
di Sardegna o Statuto Albertino, che all’art. 1 dichiarò la
religione cattolica la sola religione dello Stato, qualificando
contemporaneamente le altre confessioni allora esistenti come
1
Lariccia Sergio, Diritto Ecclesiastico, Padova, Cedam, p. 1-2.
2
Lariccia Sergio, op. cit. p. 5.
confessioni tollerate “conformemente alle leggi”
3
. Era una norma
che sembra sia stata voluta personalmente dal sovrano Carlo
Alberto che ripeteva norme tradizionali degli Stati Sabaudi,
concordatari e giurisdizionalisti, già espresse negli artt. 1, 2 e 3
del c.c. del 1837. Sennonché questa professione di
confessionismo
4
della corte fu ridimensionata dopo qualche
tempo dal Parlamento subalpino, che con l’approvazione della
Legge 19 giugno 1848 n. 735 (la c.d. Sineo) ribadì vari
provvedimenti sovrani di parificazione e dichiarò che la
differenza di culto non poteva dare luogo a discriminazioni nel
godimento dei diritti civili e politici e nell’ammissibilità alle
cariche civili e militari
5
. In sostanza l’articolo 1 parte prima dello
Statuto Albertino del 1848 non fu attuato nella sua rigorosa
formulazione, se non nei primi anni che seguirono la sua
emanazione e si interpretò invece estensivamente il principio
contenuto nella seconda disposizione, che considerava “tollerate”
le altre confessioni religiose. La reale applicazione delle norme
3
Cfr. art. 1 Statuto del Regno 4 marzo 1848 n. 674, che prescrive: “la
religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola religione dello Stato” in
Finocchiaro F., Diritto Ecclesiastico, Zanichelli, Bologna, 1990, p. 15.
4
Nella qualificazione dei rapporti fra Stato e confessioni religiose viene
affrontato il problema della qualificazione dello Stato a livello
costituzionale, ricavabile dalla sua posizione nei confronti del fenomeno
religioso. Il confessionismo, in tutte le sue forme ha mirato a privilegiare
una date confessione religiosa e a escludere del tutto o tollerare, in modo più
o meno avaro, e comunque con limitazioni varie di carattere legislativo o
amministrativo, l’esercizio del culto e del proselitismo delle altre
confessioni. Ed è proprio l’esclusione o la limitazione delle confessioni
diverse da quella pienamente libera a far qualificare lo Stato nel quale è
riscontrabile tale situazione, come Stato confessionista. Sull’argomento cfr.
Finocchiaro F., Diritto Ecclesiastico, Zanichelli, Bologna, 1990, p. 29.
5
“La differenza di culto non forma eccezione al godimento dei diritti civili e
politici, ed all’ammissibilità alle cariche civili e militari”. Cit. contenuta in
Lariccia S., Diritto Ecclesiastico, Zanichelli, Bologna, p. 15.
dello Statuto Albertino in materia religiosa fu evidenziata dalla
sopramenzionata legge Sineo, che stabilendo il divieto di
discriminazione su base religiosa relativamente al godimento dei
diritti civili e politici, permise se non di superare l’articolo 1 (il
quale negava qualunque riconoscimento della libertà religiosa nei
confronti dei cittadini non cattolici) quantomeno di temperarlo,
permettendo alle minoranze confessionali di vivere ed operare in
Italia in una condizione di piena libertà ed autonomia. Va
ricordato che nel periodo liberale la religione veniva considerata
come un problema individuale la cui competenza spettava ai
cittadini e che la partecipazione dell’individuo aveva sempre la
prevalenza rispetto alla tutela del gruppo nel quale l’individuo
era inserito. Questa concezione era frutto diretto del modello
statale nato dalla Rivoluzione Francese (il fine di ogni
associazione politica – proclamava l’articolo 2 della
Dichiarazione dei Diritti del 14 luglio 1789 – è la conservazione
dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo)
6
e influenzò la
legislazione italiana nell’affermazione dei valori individuali,
nell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, nella
indifferenza nei confronti di ogni forma di vita associata. Nel
periodo 1848-1876 tale orientamento ispirò la Destra liberale
allora al potere, un periodo questo contrassegnato da un
orientamento nel quale la tendenza separatista si fuse in modo
6
Tale concezione storica e politica, che poneva il cittadino isolato di fronte
allo Stato e derivava dalle teorie scaturite dalla Rivoluzione Francese, influì
sulla legislazione vigente nel periodo preunitario così come nei primi anni
dopo l’unificazione: basti pensare alla stretta relazione tra i principi
ispiratori del codice civile del 1865 e quelli del codice di Napoleone del
1804. Cfr. Lariccia S., Diritto Ecclesiastico, Cedam, Padova, p. 11.
non sempre coerente con quella giurisdizionalista
7
. Espressione
della scelta separatista sono, in materia patrimoniale, la c.d. legge
Siccardi (legge 5 giugno 1850, n. 1037) che rese necessaria
l’autorizzazione per gli acquisti di tutti gli enti morali, pubblici e
privati, ecclesiastici e laicali, nazionali e stranieri
8
; per il
problema della scuola, la legge 22 giugno 1857 n. 2328 (la c.d.
legge Lanza) che all’articolo 10 prevedeva: “Negli istituti e nelle
scuole pubbliche la religione cattolica sarà fondamento
dell’istruzione e dell’educazione religiosa. Per gli acattolici ne
7
Finocchiaro F., Diritto Ecclesiastico, Zanichelli, Bologna, pp. 20-26. Il
separatismo nel quadro dei rapporti tra Stato e Chiesa è convenzionalmente
indicato come il sistema caratterizzato dalla separazione tra tali entità. Il
separatismo ha una lunga storia di idee e di realizzazioni spesso legate ai
fini che i vari ordinamenti si erano proposti. In Italia il separatismo non è
stato frutto di teorizzazioni sui rapporti tra Stato e Chiesa, ma, piuttosto, un
mezzo politico per risolvere la questione romana nel quadro dell’unità
d’Italia. L’enunciazione della tesi separatista in Italia è dovuta al Cavour
che nei suoi discorsi alla Camera del 25-27 marzo 1861 enunciò la tesi
separatista con la celebre formula “Libera Chiesa in libero Stato”. Proposto
in origine per realizzare l’indipendenza della Chiesa tutelandone gli
interessi, eventualmente anche contro quelli dello Stato, la formula
separatista venne poi impiegata per far prevalere l’autorità dello Stato. Alla
prova dei fatti il separatismo ha avuto applicazione modesta in Italia: negli
anni del contrasto con la Chiesa le leggi eversive del 1855, 1866, 1867
rientravano nel solco della tradizione giurisdizionalista. Con l’attributo
giurisdizionalista si qualifica un sistema in cui la giurisdizione statale
prevale su quella ecclesiastica. In genere i poteri propri di un sistema
giurisdizionalista sono stati suddivisi in due grandi filoni: 1) poteri volti a
proteggere la Chiesa; 2) poteri volti a proteggere lo Stato dalla Chiesa e si
sostanziavano in una serie di prerogative con le quali lo Stato conservava un
forte controllo sulle attività delle Chiese e delle diverse confessioni
religiose. L’oscillare tra il polo separatista e quello giurisdizionalista
perdurò fino ai Patti Lateranensi del 1929, tanto che il sistema dei rapporti
fra Stato e Chiesa nel periodo 1848-61, 1861-1929, non era qualificabile
come separatismo, bensì, come giurisdizionalismo liberale.
8
La legge composta di un unico articolo, così stabiliva: “Gli stabilimenti o
corpi morali, siano ecclesiastici o laicali, non potranno acquistare beni
stabili senza essere a ciò autorizzati con regio decreto, previo il parere del
Consiglio di Stato. Le donazioni tra vivi e le disposizioni testamentarie a
loro favore non avranno effetto se essi non saranno nello stesso modo
autorizzati”. In Lariccia S., Diritto Ecclesiastico, Cedam, Padova, p. 15.
sarà lasciato alla cura ai rispettivi parenti. Nelle leggi speciali e
nei regolamenti relativi all’insegnamento pubblico si
determinano le cautele da osservarsi nella direzione ed istruzione
religiosa degli alunni cattolici”
9
. Due anni più tardi, la legge 13
novembre 1859 n. 3725 (la c.d. legge Casati) stabilì l’obbligo
dell’istruzione religiosa secondo la confessione cattolica e stabilì
l’esonero per gli acattolici e per coloro cui il padre o chi ne
facesse le veci avesse per iscritto dichiarato di “provvedere
privatamente all’istruzione religiosa”
10
. Anche queste leggi, poi
estese alle altre regioni d’Italia, non sempre venivano applicate in
conformità al principio in esse affermato (si ricordi ad esempio la
circolare Correnti del 29 settembre 1870 che rese facoltativo
l’insegnamento della religione per gli allievi della scuola
elementare). La politica ecclesiastica della Destra storica pur
ispirata dalla volontà di dare attuazione alla formula “libera
Chiesa in libero Stato”, subì l’influenza di atteggiamenti
riconducibili a diverse matrici ideologiche (alcuni esponenti della
destra di stampo liberale tendevano a collegare il rafforzamento
dello Stato con l’attuazione di un programma di rinnovamento
della Chiesa; altri esponenti, provenienti dalla classe politica
degli Stati preunitari, subivano l’influenza della tradizione
9
Da notare che in tale norma la religione cattolica in conformità all’articolo
1 dello Statuto Albertino veniva considerata “fondamento dell’istruzione e
dell’educazione” ma soltanto di quella religiosa, e non, come invece
stabilirà il legislatore del 1929, di tutta l’istruzione pubblica. Cfr. contenuta
in Lariccia S., Diritto Ecclesiastico, Cedam, Padova, p. 16.
10
La legge Casati è anche il provvedimento che per la prima volta prescrisse
l’esposizione del crocifisso in tutte le aule scolastiche, in Zannotti Luciano,
“Il crocifisso nelle aule scolastiche”, Il Diritto Ecclesiastico, 1990, p. 325.
giurisdizionalistica) ma anche esigenze del bilancio dello Stato
11
.
Anche dopo la formazione dello Stato unitario, il legislatore
italiano in conformità al principio dell’agnosticismo
12
statuale in
materia religiosa e sulla base del presupposto che il fenomeno
religioso dovesse esclusivamente riguardare la coscienza
individuale dei singoli fedeli, proclamò l’uguaglianza dei
cittadini e delle confessioni religiose davanti alla legge senza
alcuna distinzione derivante dalla religione professata nonché la
libertà di coscienza e di culto. La prevalenza data al momento
individuale della libertà religiosa rispetto a quello collettivo era
evidente, e ciò comportava il disconoscimento di uno dei più
rilevanti profili del principio di libertà, quello collettivo-
istituzionale, con la non trascurabile conseguenza che la
“squalificazione” dell’aspetto collettivo della libertà in materia
religiosa si traduceva in una serie di restrizioni dell’attività delle
confessioni religiose. In modo ancora più evidente il
confessionismo statuario
13
venne contraddetto dall’andamento
11
In tale prospettiva la liquidazione dell’asse ecclesiastico, consistente tra
l’altro nella soppressione degli ordini e delle corporazioni religiose, la
tassazione di redditi delle persone giuridiche, costituì la soluzione ritenuta
più idonea per sopperire al gravoso deficit del bilancio statuale. Cfr.
Lariccia S., Diritto Ecclesiastico, Cedam, Padova, p. 17.
12
L’agnosticismo consiste in un atteggiamento filosofico che non nega
l’esistenza di Dio o di altre realtà soprasensibili, ma afferma l’impossibilità
di conoscerle. Per estensione col termine agnosticismo si allude ad una
deliberata astensione dal prendere posizione di fronte a problemi religiosi,
politici ecc. in Enciclopedia Garzanti, p. 29.
13
Nel confessionismo lo Stato manifesta la sua adesione ad una determinata
confessione religiosa, e conseguentemente informa, o dovrebbe informare,
in modo completo (confessionismo integrale) o in modo parziale
(confessionismo parziale) la propria legislazione e la propria
amministrazione ai principi della confessione stessa. In Checchini A., Scritti
giuridici e storico-giuridici, Stato e Chiesa dallo Statuto Albertino alla
Costituzione repubblicana, cap. V, p. 186.
delle trattative con la S. Sede per la revisione dei concordati
preunitari necessaria per svecchiare l’ordinamento statale e
affrontare i problemi politici posti da quelle organizzazioni
ecclesiastiche che con il loro atteggiamento ostacolavano la
politica delle forze dominanti e i loro scopi (l’unità d’Italia e il
rinnovamento dello Stato). Ma gli anni immediatamente
successivi alla promulgazione dello Statuto Albertino non erano i
migliori per trattare con la S. Sede la riforma dei vecchi
concordati piemontesi, perché Pio IX, “profugo a Gaeta”
14
a
causa delle vicende della Repubblica Romana non era disposto
ad alcuna concessione. Fallite le trattative, il Parlamento approvò
due delle leggi proposte dal Guardasigilli Siccardi, quelle del 9
aprile 1850 n. 1013 e del 5 giugno 1850 n. 1037, riguardanti,
rispettivamente, l’abolizione di ciò che rimaneva del privilegio
del foro ecclesiastico e l’autorizzazione agli acquisti degli enti
anche ecclesiastici.
Già in precedenza la legge 25 agosto 1848 n. 777 aveva
soppresso la Compagnia di Gesù vietando “ogni sua adunanza in
qualunque numero di persone”. Si trattava di un provvedimento
tipicamente giurisdizionalista e per nulla liberale dato che negava
la personalità giuridica della congregazione dei gesuiti ed
escludeva anche il diritto di associazione e riunione, diritti che
sarebbero stati riconosciuti solo più tardi, dopo la conquista di
Roma con l’articolo 14 della legge 13 maggio 1871 n. 214 (la
c.d. legge delle guarentigie).
14
Così Finocchiaro F., Diritto Ecclesiastico, Bologna, Zanichelli, 1990, p.
39.