Quello che si è voluto dimostrare è la crescente importanza e strategicità che i Paesi
asiatici rivestono per il settore Abbigliamento Italiano in un contesto competitivo sempre
più allargato a livello mondiale, sia da un punto di vista produttivo, per la competitività di
quest’ultimo su scala globale e l’imminente smantellamento del Sistema Quote, che in
termini di sbocco commerciale, per l’incessante crescita economica della regione, il
corrispondente aumento del potenziale di consumo e la progressiva riduzione dei dazi di
import .
♦ LA GLOBALIZZAZIONE DEL SETTORE E DELLE IMPRESE
Negli ultimi 20 anni, l’interscambio commerciale tra i vari Paesi del mondo è cresciuto con
un’intensità mai vista prima, dando vita alla così detta globalizzazione dell’economia
mondiale, caratterizzata da strette interdipendenze economico – finanziarie tra i blocchi
continentali emergenti (Asia, UE, NAFTA) e da un più elevato grado di competitività per le
imprese, ma anche da maggiori stimoli innovativi. Parallelamente al fenomeno della
globalizzazione, si è andato sviluppando un sistema di alleanze regionali tra nazioni vicine
ed economicamente interdipendenti che ha dato vita a veri e propri blocchi economici
continentali. Questa regionalizzazione dell’economia mondiale trova la sua massima
espressione negli accordi regionali di libero scambio in cui vengono privilegiati i rapporti
commerciali tra i Paesi membri attraverso sistemi tariffari preferenziali e di libera
circolazione di merci legati a severe regole di origine che dimostrano una forte influenza
sulle scelte di sourcing e investimento delle imprese del settore abbigliamento.
Dal punto di vista dell’impresa, per globalizzazione s’intende l’integrazione, in un sistema
produttivo coordinato e inerdipendente, di diverse attività economiche logisticamente
disperse su scala internazionale e opportunamente localizzate a seconda della singola
convenienza economica (vantaggio comparato sul fattore intensamente utiizzato, curve di
esperieza e sinergie di distretto e specializzazione).
Una strategia globale, quindi, comporta l’adozione di una prospettiva più ampia dei confini
nazionali (geograficamente) e aziendali (integrazione/esternalizzazione) nel decidere con
che modalità operativa (FDI, market, make together) e con che raggio d’azione (distretto,
nazione, mondo) eseguire le diverse attività della catena del valore relativamente ad uno
specifico prodotto.
Il settore dell’abbigliamento manifesta una tendenza verso la globalizzazione avvalorata
da un progressivo omogeneizzarsi dei gusti dei consumatori, dalle contaminazioni
stilistiche, dalla concentrazione parziale della produzione, (tuttavia operabile
efficientemente solo dopo il 2005, data che dovrebbe segnare la prevista estinzione del
Sistema Quote), e da un approccio sempre più globale delle imprese, caratterizzato da un
processo di integrazione a valle, associato ad una crescente coordinazione centrale e
standardizzazione del marketing mix per uno sviluppo quanto più omogeneo dell’immagine
del Brand su tutti i mercati , il settore mantiene ancora delle necessità di adattamento
locale dovute all'impossibilità di slegare totalmente il gusto personale e quindi la
propensione all'acquisto di un capo di abbigliamento dalla cultura e tradizione del Paese in
cui si è nati e vissuti. Il carattere differenziante e lo status symbol connessi ai Brand italiani
costituiscono, comunque, una spinta in più verso la globalizzazione del settore in quanto
incentivano il consumatore asiatico ad acquistare un prodotto di stile italiano – occidentale
per soddisfare il suo bisogno di differenziazione sociale.
♦ GLOBAL SOURCING: LA COMPETITIVITA’ DELLA REGIONE ASIATICA
La geografia della produzione mondiale di abbigliamento si presenta caratterizzata dalla
presenza di 3 poli regionali dalla cui interazione prende vita il commercio globale:
♦ Asia
♦ Area Euro (UE, Est UE e Bacino del Mediterraneo)
♦ NAFTA di fatto allargato dal “Development Act of 2000” (USA, Messico, CBI)
Se i PVS appartenenti agli ultimi due poli attraggono soprattutto gli investimenti dei Paesi
industrializzati vicini, rispettivamente UE e USA, e sono caratterizzati da un’ alta incidenza
di FDI, facilitati dalla vicinanza culturale e geografica, oltre che dalla presenza di accordi
governativi a protezione degli investimenti diretti e di regole chiare per la risoluzione delle
controversie, l’Asia si sta affermando sempre più come polo produttivo mondiale per le
imprese multinazionali della moda attratte in oriente dal vantaggio di costo, dalla
manodopera specializzata e dall’efficiente flessibilità operativa dei network di subfornitra,
reti di imprese estese su tutta la regione, che tramite un sistema di integrazione tra i
diversi anelli a monte della filiera (accordi con i fornitori di materie prime, agenti di quote,
servizi di logistica) ed il perseguimento congiunto di economie di scala e curve di
esperienza a livello di sistema, forniscono un servizio superiore che semplifica l’attività di
sourcing rendendo efficiente un maggior grado di esternalizzazione, in modo che i Brand
occidentali abbiano la possibilità di concentrarsi sulle attività a valle della produzione,
caratterizzate da un valore aggiunto superiore (Marketing, Distribuzione e Vendite, Ricerca
e Sviluppo, controllo qualità.
In un sempre più pressante contesto competitivo globale che richiede il perseguimento
congiunto di un contenimento dei costi di produzione e di un maggior valore nei prodotti
(differenziazione), le imprese italiane della moda hanno dovuto rivedere le loro strategie
produttive in un ottica di maggiore delocalizzazione verso Paesi a basso costo della
manodopera, valutando attentamente le opportunità ed i vantaggi offerti dal Made in Italy.
IL DESTINO DEL “MADE IN ITALY”
In tre parole il Made in Italy rappresenta agli occhi del consumatore la garanzia di uno
standard qualitativo, di uno stile e di una creatività superiore che ha portato i brand italiani
ad affermarsi come trend setter a livello mondiale. Il Made in Italy porta con sé una
indiscutibile superiorità qualitativa, riscontrabile sia a livello del tessuto per le tecnologie
evolute, gli skills e il know how dei processi di lavorazione dei materiali e la capacità
innovativa nei filati e nelle stampe, che a livello di confezione del capo finito per la
precisione nelle finiture e nei tagli e la sartoriale attenzione al dettaglio da parte della
manodopera specializzata.
Tutto ciò conferisce alla sartoria italiana quel carattere di artigianalità che la rende tutt’ora
lo standard qualitativo ottimale. Il problema è che tutta questa perfezione ha dei costi che
in certi casi possono condizionare la competitività di un Brand operante su un contesto
globale.
L'internazionalizzazione, intesa come spread geografico ottimale delle attività della catena
del valore in funzione della massimizzazione del vantaggio competitivo, è oggi una
necessità per tutte le imprese, e sotto questa spinta, la dimensione locale del distretto
industriale sta ridefinendo le proprie coordinate evolutive e le proprie valenze strategiche.
La competitività nel lungo periodo è, dunque, legata ad una forma di distretto bipolare che,
fondandosi sulla cooperazione tra nucleo italiano e la periferia produttiva nei PVS,
permette il perseguimento congiunto di un contenimento dei costi di produzione e della
differenziazione del prodotto a retail, e quindi di un prodotto finale competitivamente
superiore a quello del distretto classico. Va, però, precisato che una siffatta strategia di
delocalizzazione produttiva può risultare efficiente solo se è effettivamente garantito uno
standard qualitativo non lontano da quello del Made in Italy e se il costo opportunità in
immagine dovuto alla perdita dello stesso non risulti superiore al risparmio di costo netto
(tolti i costi di quote, dazi, trasporti..).
Il fenomeno a cui si sta assistendo oggi è una progressiva razionalizzazione del Made in
Italy a tutti i livelli della filiera produttiva, dove per razionalizzazione s’intende un efficiente
uso del Made in Italy solo quando questo si dimostri davvero competitivo.
La decisione di delocalizzare o meno la produzione avviene in base ad un’analisi di trade
off tra costi / ricavi opportunità che tiene conto dei seguente fattori: risparmi di costo in
produzione, costo opportunità in immagine, sensibilità al prezzo del target di mercato, la
complessità di confezionamento dell’articolo in questione, i volumi produttivi, la qualità e la
produttività raggiungibili esternamente (nei paesi in cui si delocalizza la produzione),
l’efficienza del sourcing materiali (proximity e qualità), i costi e tempistiche di consegna
etc. Oltre a questo va tenuto conto del fatto che una scelta di delocalizzazione produttiva
necessita lo spostamento del fulcro delle strategie di marketing dal Made in Italy al brand e
di investimenti in una struttura di coordinamento e di quality control necessari per fornire al
consumatore le garanzie qualitative che sono da sempre associate al prodotto tessile –
abbigliamento italiano.
Su queste basi, la futura competitività del fashion business italiano sarà legata ad una
strategia di differenziazione in immagine facente leva anche sulla provenienza del capo,
ma soprattutto sullo stile e sulla creatività del marchio e accompagnata da un uso
razionale del Made in Italy, inevitabilmente sempre più confinato verso il segmento alta
moda (lusso e designer), dove la qualità superiore ben si allinea con i fattori critici di
successo e le aspettative del consumatore.
Per il resto del settore, cioè dal segmento diffusion in giù, la spinta
all’internazionalizzazione, intesa come delocalizzazione della produzione in paesi a basso
costo della manodopera e dotati di ampie potenzialità produttive, è in continua crescita di
pari passo con le abilità produttive e le tecnologie dei contractor asiatici e la tendenza alla
rilocalizzazione degli impianti in Europa dell’Est.
1
“In sintesi l’Italia, come il resto d’Europa e in generale il Nord del mondo dovranno
sempre più specializzarsi nella produzione a circuito veramente corto di prodotti ad alto
contenuto moda ed in quelli a tecnologia complessa. Il resto sarà, presto o tardi,
delocalizzato in paesi a basso costo della manodopera. “
1
Estratto da relazione Cav. Boselli, Presidente della Camera Nazionale della Moda.
Fig.1.1: Possibile scenario di internazionalizzazione per le attività sourcing – produzione delle imprese
della moda italiane, in risposta alla crescente pressione competitiva globale.
DIFFUSION
CASUAL WEAR
Legame Brand – Made in Italy
D
e
l
o
c
a
l
i
z
z
a
z
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o
n
e
p
r
o
d
u
t
t
i
v
a
ALTO MEDIO BASSO
100%
80%
60%
40%
20%
0%
DESIGNERS
LUSSO
SPORTSWEAR
- Le modalità operative di delocalizzazione produttiva e le nuove forme di
internazionalizzazione
Considerando i segmenti Diffusion, Casual e Sportwear, (la fascia alta moda esternalizza
solo operazioni singole molto costose, come ricami, all’interno di processi TPP) la scelta
della modalità operativa (IDE, subfornitura, licenza), dipende non tanto dal segmento di
appartenenza quanto dalle scelte strategiche del singolo Brand riguardo a quattro variabili
del sourcing: controllo della produzione, flessibilità operativa (essere liberi di cercare il
“best price” sul mercato), impegno finanziario (costi di struttura ed organizzazione), grado
di esternalizzazione. La tendenza in atto è quella verso una maggiore esternalizzazione e
flessibilità operativa pur mantenendo il controllo sul processo produttivo.
I Brand tendono infatti a sostituire progressivamente i contratti di licenza con imprese
terziste regolate da contratti stagionali OEM.
In un siffatto sistema esternalizzato, il controllo sull’avanzamento dell’attività produttiva è
efficacemente mantenuto grazie all’impiego di tecnici QC (quality control) direttamente sui
siti produttivi.
♦ IL MERCATO ASIATICO
Alcuni Paesi asiatici hanno oramai raggiunto un livello di sviluppo tale (misurato in PIL pro
capite) da costituire interessanti mercati di sbocco per i Brand italiani della moda.
Il primo è sicuramente Hong Kong. Con il suo vasto pool di consumatori benestanti,
culturalmente più vicino all'occidente, è servito da qualsiasi tipo di servizio/infrastruttura e
fa da fashion setter per il mercati vicini, fra cui la Cina, dove si sta assistendo ad un
processo di apertura al commercio e agli investimenti esteri senza precedenti,
parallelamente all'entrata nella sfera del WTO. Tutti i brand intervistati considerano
quest’ultima come il grande mercato del futuro, sebbene circoscritto alle aree costiere e
del nord est, dove si concentrano i ricchi ed i servizi alle imprese e le infrastrutture, sia per
l’informazione, il trasporto ed il retail (grandi magazzini e centri commerciali) possono
considerarsi già moderni. Il panorama distributivo asiatico, evolutosi negli anni post crisi, si
caratterizza per la massiccia presenza di centri commerciali e department store molto
segmentati e organizzati, oltre che dalla prevalenza delle location monomarca sulle
multibrand boutiques.
L’Asia negli anni futuri costituirà un mercato strategico, ma è complessa e molto veloce e
va gestita direttamente in loco tramite un ufficio che monitori l’andamento del mercato, i
trend, la percezione del marchio da parte del consumatore, organizzi eventi e promozioni.
Il target principale si è evoluto: non è più il turista giapponese ma il nuovo consumatore
locale, e ciò contribuisce a dare maggiore stabilità al business.
Il consumatore asiatico è attento al prezzo e al servizio nel punto vendita, ama tutto ciò
che è griffato e che comunica uno stile e uno status sociale, ma non ha ancora sviluppato
un gusto personale e cerca di assorbire al massimo il life style proposto dal Brand. Da qui
la sua ricerca del “total look” e la conseguente doppia necessità da parte del Brand, da un
lato produttivo, di coprire totalmente il range di offerta completando la collezione con i
dovuti accessori e dal lato marketing, di sviluppare un’immagine distintiva: la parola
d’ordine, quindi, è differenziarsi ma senza eccedere il premium price offerto dal mercato,
mantenendo cioè la “cost proximity” rispetto ai concorrenti diretti, ed è qui che entra in
gioco la delocalizzazione produttiva.
CONCLUSIONI
Per mantenersi competitivi in un contesto globale caratterizzato da una sempre +
pressante necessità, di conseguire un contenimento dei costi di produzione,
congiuntamente alla differenziazione del prodotto a retail, i Brand italiani
dell’abbigliamento sono chiamati a compiere tre scelte strategiche, che ovviamente non
possono avere una valenza assoluta, ma devono essere ponderate a seconda dei FCS
del segmento in cui l’impresa opera, ovvero, Alta Moda, Bridge o Sportswear.
Prima di tutto va riconosciuta la scindibilità del M in I nelle sue due componenti di
differenziazione: quella tangibile dell’eccellente qualità materiale, riscontrabile sia a livello
dei tessuti che della fattura del prodotto finito, e quella intangibile dello stile e della
creatività proprie del brand italiano. A questo punto, la prima mossa è quella di Investire in
una strategia di differenziazione in immagine quanto più focalizzata sul Brand perché
quest’ultimo possa assurgere di per se a garanzia di qualità, stile e creatività italiani agli
occhi del consumatore, quindi, delocalizzare razionalmente la produzione nei PVS.
Questo perché il M in I, inteso come produzione italiana, ha dei costi elevati e dei vincoli di
capacità produttiva che ne minano la competitività nei segmenti industriali quali, Diffusion,
Casual, Sportswear, dove il panorama internazionale presenta delle realtà produttive,
come quelle dei PVS dell’area Asiatica, che permettono ai Brand della moda di sfruttare,
nel rispetto della qualità, i vantaggi offerti da una manodopera abbondante, specializzata
in un vasto range di prodotti e con costi fino a 35 volte inferiori a quelli italiani, oltre ai
vantaggi derivanti da un forte substrato di imprese correlate e di supporto che permette un
efficiente sourcing, sia di tessuti (naturali e sintetici) che di accessori, e dalla presenza di
flessibili e ben organizzati Network di subfornitura che, fornendo un servizio integrato,
consentono ai Brand una maggiore esternalizzazione produttiva, in linea con l’attuale
tendenza a focalizzarsi sulle attività ad alto valore aggiunto della catena del valore. Questo
introduce la terza scelta strategico competitiva: continuare ad integrarsi a valle nella
distribuzione sul mercato Asiatico, per salvaguardare l’omogeneità dell’immagine e per
cogliere appieno tutte le opportunità di un mercato in continua espansione, che
permetterebbe di bilanciare la geografia mondiale delle vendite ed evitare, così,
sovraesposizioni sui mercati occidentali.