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dall’opinione pubblica in occasione del summit dell’Organizzazione
Mondiale del Commercio tenutosi a Seattle nel novembre del 1999 sotto il
nome di “popolo di Seattle”. A Seattle seguono periodicamente molte altre
manifestazioni che diventano le occasioni per esprimere il dissenso del
movimento nei confronti del pensiero neoliberista. Contro l’attuale modello
di globalizzazione si batte dunque il movimento “No global” che si oppone
al neoliberismo, all’asservimento della politica all’economia, alla
dominazione del mondo da parte del capitale e ad ogni forma di
imperialismo. In particolare, esso combatte il processo di globalizzazione
guidato dalle grandi multinazionali, dai governi e dalla istituzioni
internazionali che sono al servizio delle prime. Questo movimento
antiliberista si sta inoltre impegnando nella costruzione di una società
civile caratterizzata da relazioni fruttuose fra gli esseri umani e fra gli
stessi e la terra in cui vivono. Tutto ciò è reso possibile dall’impegno dei
vari gruppi all’interno del movimento nella realizzazione di una
globalizzazione solidale che, rispettando i diritti umani universali, dei paesi
poveri e dell’ambiente, si fonda su un sistema economico democratico e
su delle istituzioni al servizio della giustizia sociale, dell’uguaglianza e
della sovranità dei popoli. E’ questo il contesto in cui il movimento
promuove un’economia al servizio delle persone e non del mercato, nella
quale la ricchezza sia distribuita equamente fra i paesi del nord e quelli del
sud del mondo.
Con il presente lavoro intendo analizzare trasversalmente il movimento
“No global” costruendo un percorso in cui esso venga contestualizzato nel
mondo dei consumi. Ciò significa che gli aspetti politici ed economici
verranno comunque toccati essendo il rapporto del movimento con il
consumo guidato da un preciso ordine di valori e di idee politiche.
L’originalità di tale analisi è alimentata dall’idea personale che esista un
legame tra lo sviluppo della società dei consumi e il formarsi della
sottocultura “No global” e che il movimento antiliberista sia l’estrema
conseguenza dell’attuale fase di maturità raggiunta dalla società dei
consumi. Quest’ultima vede svilupparsi la figura del consumatore
postmoderno di cui si riconoscono alcuni tratti nei giovani “No global”.
Essi, pur essendo nati nella società dei consumi, provano disagio sociale
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verso una cultura dominante che vede nelle scelte di consumo uno
strumento di realizzazione personale. Tali giovani vi si oppongono
reinterpretando e contestualizzando l’agire di consumo tipico della figura
del consumatore postmoderno all’interno di un sistema valoriale condiviso
che vede nella costruzione di un’economia di giustizia e dei diritti la
realizzazione personale.
Guidato dall’intenzione di dimostrare il legame esistente tra la società dei
consumi e la sottocultura “No global” ripercorrerò, nel primo capitolo del
presente lavoro, le tappe principali della nascita della figura del
consumatore postmoderno dal cui profilo i giovani della sottocultura “No
global” partono, guidati da un sistema valoriale condiviso, per cercare di
comporre i tratti di un agire di consumo sottoculturale coerente.
Quest’ultimo evidenzierà le conseguenze degli eccessi di una cultura del
consumo a cui i giovani si opporranno sostituendo comportamenti
edonistici con scelte di consumo critiche, etiche e responsabili.
Nel secondo capitolo, partirò dal concetto di sottocultura di Codeluppi
(1996) e Hebdige (1991) per capire chiaramente la natura dei valori
giovanili e il percorso che porta tali sistemi valoriali alla condivisione in
gruppi di giovani di un’identità e di uno stile sottoculturale distintivi. Tali
riflessioni mi consentiranno di applicare il concetto di sottocultura al
movimento “No global” di cui descriverò lo stile. La legittimità
dell’applicazione del concetto di sottocultura al movimento verrà
confermata inoltre da un’analisi comparativa con le sottoculture del
passato.
Nel terzo capitolo studierò il sistema valoriale “No global” per dimostrarne
la coerenza con lo stile sottoculturale. Tale coerenza sarà verificata grazie
ad una puntuale descrizione dell’agire di consumo all’interno dello stile
“No global”, soffermandosi soprattutto sugli strumenti di opposizione alla
cultura del consumo dominante. E’ in questo contesto che si parlerà di
consumo critico, di boicottaggio, di giornata del non acquisto, di economie
alternative, di gruppi solidali d’acquisto…
L’analisi sulla sottocultura “No global” terminerà con la sintesi dei risultati
ottenuti da una ricerca qualitativa con cui ho intenzione di dare validità al
presente lavoro attraverso una verifica empirica di ciò che sosterrò.
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Guidato da tale obiettivo, compierò una decina di interviste qualitative in
cui verranno verificati sul campo i tratti principali della sottocultura “No
global”, indagando in particolare il rapporto della stessa con l’agire di
consumo. E’ proprio grazie alla natura di tale rapporto che mi pongo la
finalità di sviluppare l’analisi del profilo di una realtà sociale, quella “No
global”, in cui lo sguardo critico e maturo del consumatore postmoderno si
evolve seguendo una particolare direzione. Quest’ultima inserirà la
responsabilità delle scelte di consumo all’interno di un progetto per una
globalizzazione solidale e dei diritti umani.
Desidero ringraziare la dottoressa Susanna Zatta che ha avuto la
pazienza di seguire e leggere il mio lavoro durante le fasi della sua
stesura. Ringrazio inoltre il professore Vanni Codeluppi che ha creduto
subito nel mio progetto e che, grazie ad una sua pubblicazione, mi ha dato
l’ispirazione per comporre un lavoro sulla sottocultura “No global”.
Un particolare ringraziamento deve essere rivolto a tutti coloro che si sono
dimostrati disponibili durante l’evento veronese Critical Wine: Elisabetta,
Cristina, Silvia, Andrea, Giovanni, Luigi e il cagnolino senza nome che mi
ha intrattenuto nei momenti di pausa ristoro.
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CAPITOLO 1
Una prima contestualizzazione: storia ed evoluzione del consumo
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1.1 La nascita della cultura del consumo
Numerose sono le opinioni sui contesti che hanno portato alla nascita
della cultura dei consumi. Gli studiosi McKendrick, Brewer, Plumb (1982),
Campbell (1983), Codeluppi (2002), si trovano d’accordo nel posizionare
l’inizio della cultura durante la rivoluzione industriale, che permette di
estendere il consumo da fenomeno di élite a fenomeno collettivo. Durante
l’epoca feudale il consumo è riservato ai nobili delle corti europee, i quali
s’impegnano nel farsi notare al cospetto del sovrano. A tal fine essi si
sfidano in una competizione fondata sulla realizzazione di consumi
prestigiosi che possono contemplare l’esibizione di abiti preziosi, l’offerta
di regali e di feste sfarzose organizzate in onore della regina. Più
precisamente McCracken (1988) individua la nascita del mondo dei
consumi in Inghilterra durante il regno di Elisabetta I. La sovrana decide di
ospitare presso la corte i nobili che, in questo modo, contribuiscono a
finanziare gli sfarzi necessari a comunicare il potere regale. Proprio tale
decisione dà inizio ad una spirale della concorrenza al prestigio tra i nobili
il cui unico fine è di mostrare la loro ricchezza.
Con la rivoluzione industriale il consumo diventa un fenomeno sociale, in
quanto la moda e i beni di consumo non nascono più dalle corti per poi
diffondersi verso il basso attraverso meccanismi di imitazione ed
approvazione volgarizzata. Sono le imprese inglesi del XVIII secolo che si
fanno carico della diffusione della cultura del consumo presso i ceti medi.
Esse, per la prima volta, impegnano strumenti come il marketing e la
pubblicità grazie ai quali vengono proposti nuovi bisogni, nuovi oggetti del
desiderio. In particolare, l’impresa usa strumenti di promozione come
annunci su riviste, manifesti stradali, venditori porta a porta. Gli studiosi
McKendrick, Brewer e Plumb (1982) confermano il ruolo di promotore
della cultura del consumo svolto dalle imprese presentando il caso Josiah
Wedgwood. Wedgwood è un’azienda inglese di ceramiche che nel XVIII
secolo sfrutta le strategie di marketing per promuovere i suoi prodotti, in
un primo momento, presso le classi più elevate e poi presso la classe
media. Quest’ultima vede le prime come un modello di stile e di
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raffinatezza da imitare mediante appropriazione degli stessi oggetti di
consumo. Wedgwood, cosciente di tale meccanismo imitativo, sceglie di
mostrare le proprie ceramiche nelle case di alcuni nobili in modo da
trasferire un’aurea di prestigio ai propri prodotti. Le imprese, in generale,
propongono dei modelli di consumo che si oppongono a quelli tradizionali
e locali adottando i nuovi strumenti del marketing e della pubblicità.
La nascita della cultura del consumo nel XVIII secolo rende la donna
protagonista, la quale lavorando presso le imprese inglesi incomincia a
disporre di un reddito per l’acquisto di quei beni che essa stessa ha in
precedenza fabbricato a casa: abiti, biancheria, tendaggi ed accessori
(McKendrick, Brewer, Plumb, 1982). Il desiderio di beni materiali viene
alimentato dallo sviluppo nella società inglese di un sistema di valori
all’interno dei quali il consumo viene visto come portatore di benessere e
del bene collettivo.
La nascita della cultura del consumo si diffonde inoltre in seguito alla
metamorfosi che il negozio subisce durante la rivoluzione industriale
(Codeluppi, 2000). Fino al XVIII secolo il negozio mantiene al suo interno il
laboratorio dove vengono costruite artigianalmente le merci. Quest’ultime
non sono visibili all’acquirente, in quanto stipate in enormi armadi.
L’acquirente entra in bottega non sapendo cosa comprare e lascia che sia
il negoziante a proporre dei pezzi magnificandoli in ogni loro aspetto. Il
cliente si sente dunque in obbligo di comprare in cambio del tempo a lui
dedicatogli dal negoziante. Tutto questo cambia con l’inizio del XVIII
secolo grazie alla nascita delle prime vetrine. Esse hanno un aspetto non
proprio simile a quelle attuali visto che sono realizzate unendo tanti
frammenti di vetro. Si incomincia dunque ad esporre le prime merci. Lo
stesso negozio al suo interno cambia fisionomia liberandosi degli armadi
con grandi cassetti che vengono sostituiti da mobili idonei ad esporre i
prodotti. Il laboratorio viene spostato dal negozio e va ad occupare le zone
della periferia della città. In seguito, s’incomincia a produrre grandi lastre
di cristallo che sostituiscono le “prime” vetrine. Le nuove vetrine dei negozi
rendono più brillanti i colori delle merci esposte. L’uso inoltre
dell’illuminazione artificiale e i giochi di luce di specchietti opportunamente
posizionati accentuano la trasparenza delle vetrine. I negozianti cercano di
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attirare l’attenzione dei passanti mettendo in scena i prodotti come se
fossero gli attori che recitano davanti al proprio pubblico su di un
palcoscenico, la vetrina. I beni perdono quindi il loro significato originario
legato al rapporto diretto e personale del cliente con il negoziante e
vengono contestualizzati all’interno delle rappresentazioni messe in scena
nelle vetrine. Il cliente non fa più affidamento sul venditore, ma è lasciato
solo davanti al prodotto. E’ proprio il cliente, divenuto ormai consumatore,
che sceglie i prodotti più belli, più seducenti in base alle sue competenze
d’acquisto.
Con gli inizi dell’Ottocento, la rivoluzione industriale stimola la produzione
in grandi quantità di merci che hanno dunque bisogno di luoghi in cui
possano venire vendute (Codeluppi, 2002). Si moltiplicano i negozi grazie
anche ai piani di riurbanizzazione realizzati a Parigi. Nella capitale
francese si moltiplicano i consumi sulla spinta dell’ingordigia di beni
manifestata dalle masse. I negozi diventano ormai insufficienti, in quanto
non riescono a soddisfare le richieste distributive delle imprese. Si
realizzano in centro a Parigi degli spazi di vendita accessibili a tutti, ma
allo stesso tempo lussuosi e intimi come degli spazi privati. Nascono le
prime gallerie commerciali o passages (Codeluppi, 2000). Tali luoghi del
consumo presentano una struttura singolare: essi sono delle vie dotate di
soffitti a vetrate in cui negozi lussuosi convivono con sale da the, librerie
ed appartamenti. E’ qui che i parigini amano passeggiare, incontrare i
nuovi amori, discutere e naturalmente consumare. Nasce in quegli anni la
figura del flaneur che passa la giornata a vagare per la città senza meta
per il puro desiderio di esplorare e vagabondare immerso nell’orgia di
merci luccicanti. I passages diventano dunque dei luoghi per mostrare, e
mostrarsi, fare esperienze emozionanti.
Con il progresso industriale e la produzione massificata i luoghi del
consumo si modificano nuovamente. Nascono spazi d’acquisto più ampi e
sviluppati in altezza anche a causa dei costi degli affitti. E’ il periodo dei
grandi magazzini, enormi palazzi raggiungibili dalla periferia grazie alle
nuove arterie ferroviarie e tranviarie. I grandi magazzini godono di enormi
spazi di vendita dove tutto è spettacolarizzato. Il consumatore vi trova tutto
ciò che può desiderare e viene stimolato da décor espositivi a tema. La
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messa in scena tipica delle vetrine dei negozi viene sostituita da spazi
interni caratterizzati da rappresentazioni esotiche (la Cina, la Tailandia,
Venezia…). Il consumatore diventa una specie di “Alice nel paese delle
meraviglie”:
L’ingordigia di beni, il moltiplicarsi e trasformarsi dei luoghi di consumo e
l’incessante riversarsi sul mercato di prodotti sono naturalmente stimolati
da dei sistemi di valori a cui fanno capo l’etica protestante per l’agire delle
imprese e l’etica romantica per l’agire dei consumatori (Campbell, 1983).
Collin Campbell lega l’etica protestante di Weber (1905) ad una
concezione romantica del consumo. Sono i ceti medi della società inglese
di tradizione protestante a guidare le imprese e lo fanno reinvestendo
continuamente i profitti. Il successo della propria attività viene visto come
la condotta ottimale secondo il progetto divino. L’accumulo di ricchezza
viene quindi sostituito dal continuo reinvestimento che conduce alla
produzione di quantità crescenti di beni prodotti. Parallelamente all’etica
protestante, nasce l’esigenza di gratificare il proprio sé attraverso qualsiasi
esperienza piacevole. E’ all’interno di tale contesto che la cultura
industriale fa nascere il desiderio incessante di consumare, il quale spinge
gli individui a volere consumare sempre di più. Campbell spiega che
questo desiderio non è legato all’acquisto di particolari beni, ma è fine a se
stesso: “Noi non desideriamo in genere un oggetto particolare, sebbene
questo a volte possa accader; in linea di massima desideriamo desiderare
e desideriamo cose nuove e diverse in una girandola continua
d’insoddisfazione.” (1983, p. 282). L’autore inserisce l’incessante desiderio
di consumare nel concetto di etica romantica. Esso guida gli individui ad
aprirsi a tutte le esperienze possibili di consumo ricercando in ognuna la
gratificazione de proprio sé. La donna assume un ruolo fondamentale
nella diffusione della concezione romantica del consumo (Campbell,
1983): incomincia a vedere la lettura di romanzi non più come fonte da cui
trarre insegnamenti morali, ma come esperienza emozionante e
gratificante. Con l’Ottocento la donna della classe media diventa una
lettrice di romanzi che le permettono dunque di vivere le storie raccontate
attraverso gli occhi degli autori. In seguito, l’etica romantica guida gli
individui nel desiderare beni non solo culturali ma appartenenti a tutti i
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comparti del consumo. L’etica romantica lega il consumo all’esperienza
del sogno ad occhi aperti, il cui piacere svanisce una volta realizzato.
L’acquisto effettivo del bene desiderato pone dunque fine al sogno,
deludendo l’individuo che, in risposta, produce altri nuovi desideri. Il tutto
va a creare una situazione di desiderio incessante di consumare
nell’individuo.
1.1.2 Lo sviluppo della cultura del consumo: la società dei consumi
americana
Tra la fine dell’Ottocento e i primi vent’anni del Novecento gli Stati Uniti
ottengono la supremazia in campo industriale superando l’Inghilterra dove
ha avuto luogo la rivoluzione industriale (Sapelli, 1999). Dalle idee di un
ingegnere di nome Ford, nasce la produzione di massa applicata prima al
settore dell’automobile ed in seguito a tutta l’industria. Il modello
industriale fordista si fonda sull’idea dell’efficienza ottenuta dalla
parcellizzazione del processo industriale che scompone il prodotto in tante
componenti compatibili le une alle altre ed assemblate da una catena di
montaggio. Il risultato è la produzione di un prodotto unico e la messa sul
mercato di un’offerta omogenea. La ricerca dell’efficienza conduce
all’abbassamento dei costi di produzione attraverso le economie di scala
che rendono i prezzi dei prodotti accessibili a tutti. Un esempio può essere
l’automobile prodotta da Ford, il modello T, che prevede una sola
colorazione e nessun accessorio o personalizzazione. Tutto questo
permette di rendere l’automobile accessibile anche alle classi operaie.
Fino agli anni Venti l’industria americana deve far fronte ad un’eccedenza
della domanda rispetto all’offerta e risponde con un orientamento di
marketing al prodotto; la situazione economica positiva cambia con la crisi
del ’29 legata alla sovrapproduzione. Le imprese americane cambiano
direzione, e dall’orientamento al prodotto (omogeneo) passano
all’orientamento alle vendite. Esse si pongono dunque come imperativo
vendere tutto ciò che si produce. Lo fanno sfruttando tutti gli strumenti
commerciali e di marketing nelle loro mani. Le imprese sono convinte che
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per stimolare la ripresa dei consumi sono necessari nuovi modelli di vita i
cui valori sono radicati nella storia della società americana (Fabris, 1971).
Tali modelli oltretutto rispettano la struttura sociale americana
caratterizzata da una forma piramidale, stratificata e permeabile. La civiltà
americana da sempre ha dimostrato un’aspirazione al successo e alla
voglia di dimostrare la sua superiorità. Lo ha fatto a livello industriale,
proponendo il modello della produzione di massa successivamente usato
in Europa, e a livello dei consumi con l’esportazione dell’American way of
life. Le imprese americane vedono nell’American dream la spinta alla
ripresa dei consumi, possibile grazie al reddito elevato di tutta la
popolazione. Il sogno consiste nell’impegno di ogni americano a scalare la
piramide sociale attraverso il sacrificio e la carriera professionale. Ogni
strato vede quello superiore come un modello da imitare e raggiungere
attraverso l’appropriazione dei suoi comportamenti e delle sue scelte di
consumo. I valori tipici dell’American dream sono il successo e l’ambizione
professionale, la famiglia, il rapporto con il vicinato, la casa unifamiliare, le
amicizie fra le famiglie dei colleghi, le gite nel week end. Le imprese
americane si fanno promotrici di tali valori attraverso la pubblicità.
L’advertising ricrea con precisione l’American way of life in modo da
declinare tutti i suoi valori in una combinazione d’oggetti d’uso (Fabris,
1971). Le imprese americane propongono dunque una serie di beni il cui
possesso è segno di appartenenza alla “comunità” (Alberoni, 1964). La
combinazione di tali beni è resa accessibile a quasi tutte le classi grazie
alla massificazione dei mercati. Questi beni sono dunque posseduti da
molti strati sociali, i quali aspirano a raggiungere la sommità della
piramide. E’ proprio tale aspirazione che porta alla nascita del fenomeno
dello status symbol. Lo status symbol è quel prodotto che l’americano
cerca di possedere a tutti i costi. Il suo possesso si traduce in sacrifici il cui
risultato finale è l’illusione di appartenere allo strato sociale superiore.
L’ascesa sociale non pone fine alla seduzione dello status symbol, anzi la
alimenta sempre di più. Lo status symbol seduce sia l’uomo sia la donna
attraverso prodotti come l’automobile sportiva, la villa al mare…
All’interno di tale contesto si inserisce la teoria della “goccia a goccia” o
“trickel down theory”, formulata negli anni Cinquanta dallo studioso Fallers
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(Fabris, 1971), che da una spiegazione dell’introduzione delle mode.
Essa, in particolare, afferma che le mode nascono come innovazioni ai
vertici della società e mano a mano scendono per effetto del “trickel effect”
perdendo il loro significato simbolico iniziale. All’arrivo dell’innovazione agli
strati sociali più bassi, essa viene sostituita da un’altra moda che percorre
lo stesso tragitto della precedente.
Il tessuto politico e mediale insieme alle grandi aziende contribuiscono a
promuovere l’American way of life diffondendo modelli di vita e di
successo tra gli americani. Un notevole contributo è da imputarsi al
cinema e alla televisione che promuovono una società del benessere in
cui l’aspirazione di ognuno è consumare e soddisfare sempre più nuovi
bisogni emergenti.
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1.2 Mutamenti socioculturali e di consumo in Italia
1.2.1 La penetrazione dell’ideologia del consumo
Lo studioso Falabrino in “Pubblicità serva e padrona” (1999) da
un’interpretazione storica dello sviluppo in Italia della società dei consumi,
inserendola nel secondo dopoguerra in occasione della liberazione
dell’esercito americano. Egli afferma che sono proprio i soldati americani a
far incontrare la società italiana con la cultura dei consumi, simbolo del
periodo di benessere sociale e politico degli Stati Uniti. Tale incontro non
risulta facile e privo di rallentamenti ed opposizioni. Notevoli sono le
differenze fra la popolazione americana rappresentata dai suoi militari e
quella italiana: la prima è industriale, mentre la seconda è legata alla
tradizione contadino-cattolica. Inizialmente viene visto con invidia e ostilità
tutto ciò che gli americani rappresentano. Essi non sembrano aver mai
visto la povertà e la miseria e il loro stesso equipaggiamento è segno del
benessere della società in cui vivono.
Gli italiani si avvicinano al consumo scambiando generi di prima necessità
come cibo, coperte e bevande con gli americani. I soldati diffondono i
nuovi modelli di vita che contrastano con i valori tipicamente cattolico-
contadini come il risparmio, l’onestà, il dovere, la rinuncia, il disprezzo per
il lusso…
La cultura del consumo viene vista come qualcosa di veramente negativo
ed effimero, in quanto promuove il consumo piuttosto che il risparmio, il
piacere al posto della rinuncia (Falabrino, 1999). Questo clima di
condanna ha durata breve visto che, già dagli anni Cinquanta, con il boom
economico incominciano ad inserirsi i modelli di consumo della società
americana. L’Italia vive tra il 1950 e il 1963 un periodo di grande crescita
economica, la quale trasforma il paese arretrato del secondo dopoguerra
in una delle prime dieci potenze industriali del mondo (Sapelli, 1997). In
questo periodo le grandi e medie imprese rivoluzionano la loro struttura e
il loro funzionamento, razionalizzando la gestione delle risorse e
l’organizzazione dei processi produttivi e del lavoro. I principi quali la
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serialità, la standardizzazione dei processi, la divisione tayloristica del
lavoro portano al successo settori industriali come quello delle automobili,
della chimica, della carta e della meccanica di precisione. La crescita
italiana si traduce in un aumento del tenore di vita reso possibile dagli alti
profitti delle industrie che garantiscono un’ottima copertura occupazionale
e elevati salari. Le imprese italiane, godendo di elevati profitti grazie alla
loro efficienza, sono stimolate ad investire in tecnologia sulla spinta di un
mercato potenziale disposto ad acquistare grazie ad un buon livello di
reddito (Sapelli, 1997). La situazione di benessere generale è il riflesso di
una trasformazione della società italiana avvenuta durante gli anni del
miracolo italiano. Negli anni precedenti, l’Italia si caratterizza per una
struttura sociale rigida e suddivisa in classi impermeabili. S’individuano
due classi di cui una è di dimensioni ridotte e l’altra, più ampia, coincide
con gran parte della popolazione. Ognuna è portatrice di un proprio
sistema di valori che rende quasi impossibile il passaggio all’altra classe.
In realtà, tra le due classi si interpone uno “strato cuscinetto” che non può
né appartenere alla classe superiore, quella della borghesia, né alla
classe inferiore, quella del proletariato. Il boom economico mette in ombra
l’importanza delle classi sociali lasciando lo spazio ad una: “(…)
gigantesca struttura sociale di ceti medi. Quello che era apparso come
una sorta di strato cuscinetto tra borghesia e proletariato appariva in realtà
divenire – in concomitanza ad un processo di terziarizzazione della
società, destinato a fagocitare o ridurre grandemente la numerosità degli
appartenenti alle classi sociali contrapposte nell’ambito della piramide
sociale – la fascia più consistente e tendenzialmente egemone nel
sociale” (Fabris, 1995, p. 87). Il nuovo assetto sociale italiano rimane
inizialmente legato ai vecchi valori tipici della cultura contadino/cattolica
della rinuncia sostituiti rapidamente dalla cultura del consumo sulla spinta
delle imprese. Esse diventano le promotrici di nuovi modelli di riferimento i
cui valori vengono promossi attraverso la pubblicità. Falabrino (1999)
individua nella società italiana una iniziale resistenza nell’abbandonare i
vecchi valori per abbracciare immediatamente quelli di tipo capitalistico.
Essa ha bisogno quindi di essere rassicurata sul fatto che i beni promossi
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non vanno ad urtare categorie come la genuinità, la cura nel fare le cose,
il sacrificio per ottenere ciò che si desidera (Alberoni, 1964).
Le imprese concepiscono attraverso gli strumenti del marketing e
dell’advertising un modo per rassicurare tali ansie. Lo trovano associando
i valori contadini e familiaristici a prodotti industriali che celano la loro reale
veste (Falabrino, 1999). Le pubblicità si dotano di meccanismi di
seduzione rassicurante in modo da smentire le convinzioni sulla dannosità
dei prodotti industriali. Esse inseriscono in rappresentazioni di vita rurale
prodotti industriali come frutto di tradizioni centenarie e di attività
artigianali.
Le resistenze alla cultura del consumo cadono; si sviluppano tra il ceto
medio comportamenti di consumo che non risultano essere solo il frutto
dell’euforia di una situazione di benessere, la quale sembra aver
cancellato i sacrifici dei primi anni del dopoguerra, ma vengono spinti dal
desiderio comune di ostentazione e di prestigio.
L’economista Duesenberry (in Codeluppi, 1996) vede nell’impulso
dell’individuo a migliorare continuamente le proprie condizioni di vita lo
stimolo a comportamenti di consumo di tipo ostentativo. Bisogna tenere
conto che tale teoria va inserita in una società stratificata e dinamica come
quella americana, ma può comunque trovare applicazione nella situazione
italiana. Sia la società americana sia quella italiana sono spinte ad
acquistare continuamente nuovi beni per soddisfare il desiderio di
miglioramento continuo delle proprie condizioni di vita. Il continuo ingresso
sul mercato di nuovi beni stimola i comportamenti di consumo alimentando
l’impulso a conoscere e fare propri modelli superiori. Nasce così
quell’effetto che Duesenberry chiama “effetto di dimostrazione” che tende
a limitare gli atti di consumo abituali. Lo stesso autore sostiene che la
frequenza dei contatti con i beni di qualità superiore tende ad aumentare
in situazioni in cui le spese di consumo delle persone aumentano. Il
risultato porta a consumi incessanti a scapito del risparmio.