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elementi fondamentali propri dell’autentico ordinamento giuridico e cioè
la plurisoggettività, l’organizzazione e la normazione.
I vari dibattiti succedutisi successivamente portarono a ritenere che
l’ordinamento sportivo anche se privo del requisito della Sovranità , in
quanto prerogativa di quello statuale, è da considerarsi autonomo ed
indipendente. Non si parla più di libertà di associazione e quindi di
libertà da, ma oggi si concepisce la libertà di governare un settore
basilare della società.
Si è visto come attorno all’ordinamento sportivo ruotino vari soggetti,
siano essi persone fisiche o persone giuridiche, pubbliche o private, fino
ad arrivare al singolo atleta che si trova alla base di quest’organizzazione
a struttura piramidale con al vertice il Comitato Olimpico Nazionale
Italiano, cioè il CONI. Tutti questi soggetti, anche se distinti per
funzioni, sono accomunati dal fine di promuovere, direttamente o
indirettamente, la pratica sportiva ad ogni livello.
Sulla qualità di Ente pubblico del Coni non è sorto alcun problema in
quanto tale natura è stata attribuita dalla stessa legge istitutiva del 1942
che, di fatto, ha garantito la risposta dello Stato alle esigenze della
collettività nazionale di vedere assicurato lo sviluppo della pratica
sportiva; ciò è dimostrato anche dal fatto che l’Ente è sicuramente da
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inquadrarsi nella categoria degli enti pubblici non economici per il fatto
di non perseguire lo scopo di lucro. La stessa Giurisprudenza tra le sue
varie sentenze, riguardanti conflitti o controversie inerenti il mondo
sportivo, ha sempre affermato inequivocabilmente la natura pubblica del
Coni.
Ad esso sono stati affidati dallo Stato poteri , attribuzioni, compiti e
funzioni che attengono alla cura e gestione di alcuni interessi dell’intera
collettività nazionale come l’organizzazione ed il potenziamento dello
sport nazionale; il controllo e l’incremento del patrimonio sportivo
nazionale; il coordinamento e la disciplina dell’attività sportiva
comunque e da chiunque esercitata; nonché l’approntamento degl i atleti
per le Olimpiadi e per tutte le altre manifestazioni sportive nazionali ed
internazionali.
Molte delle suddette funzioni sono state delegate alle Federazioni
sportive per ogni singolo sport, le quali svolgono inoltre la funzione
importantissima del riconoscimento delle società che intendono
organizzare sport attribuendo loro la qualità di società sportive.
Per quanto concerne la natura delle federazioni, il loro inquadramento
nell’orbita pubblica o privata non è stato di facile interpretazione sin
dalla legge n. 426 del 1942 che parlava delle federazioni come organi
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con funzioni pubbliche sottoposte al Coni. Infatti se da una parte si
poteva senz’altro dire che i fini perseguiti erano per lo più coincidenti
con quelli del Coni, dall’altra non si pot eva negare che le Federazioni
erano costituite da società o dagli organismi ad essa affiliati,
sottolineando così che le federazioni preesistono all’inserimento nel
Coni e quindi mantenevano senz’altro i caratteri privatistico.
La diversa visuale sull’argo mento ha portato all’emanazione del Decreto
Legislativo n. 242/99, che ha stabilito che le federazioni sono da
considerarsi associazioni con personalità giuridica di diritto privato,
chiarendo anche che il procedimento per il loro riconoscimento è
ottenuto a norma dell’art. 21 c.c.; ma ciò non implica il superamento
della natura pubblica dell’attività svolta che è comunque pubblica e fa
capo al Coni.
Quanto alle società sportive, queste devono , come è stato accennato,
chiedere ed ottenere l’affiliazione al la federazione e devono presentare la
forma giuridica di società di capitali, così come previsto dalla legge del
1981, comunque riformata dalla legge n. 485/96 che ha visto la
reintroduzione dello scopo di lucro per le suddette società.
Come ultimo soggetto, ma non certo per importanza, c’è l’atleta che può
praticare lo sport su diversi livelli, e cioè da dilettante o da professionista
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a seconda se l’attività svolta sia principale o sussidiaria, al lavoro in
questo caso visto come sostentamento; si è difatti parlato di homo ludens
e homo faber implicando la trasformazione del primo nel secondo nel
caso di attività svolta dal professionista. L’individuazione di tale
differenza è rimessa, dalla legge sul professionismo sportivo, alle
federazioni che attraverso le società possono concedere o rifiutare il
tesseramento agli atleti.
La natura giuridica del rapporto contrattuale tra professionisti e società
sportive aveva, prima dell’emanazione della legge sul professionismo
sportivo, diviso gli esperti in materia in due grandi tronconi: da una parte
gli esponenti della subordinazione, mentre dall’altra i fautori del lavoro
autonomo. In entrambi vi erano ragioni che potevano sembrare
incontestabili, ma a ben vedere fu necessario l’intervento del Legislatore
per poter mettere luce sull’argomento.
Chi era favorevole ad inquadrare il rapporto come subordinato faceva
leva, da una parte, sul fatto che in essi erano presenti tutti gli elementi
richiamati dall’art. 2094 c.c. (che, appunto, parla di lavoro subordinato)
e, dall’altra, sul fatto che la stessa giurisprudenza si era spesso
pronunciata in tale ottica.
Diversamente i fautori del lavoro autonomo, pur partendo dagli stessi
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presupposti, e cioè dalla differenza sostanziale tra homo ludens e homo
faber, di fatto ribaltavano le argomentazioni dell’opposta dottrina. Infatti
alcuni elementi sbandierati dai sostenitori della locatio operarum no si
potevano certo dire caratteristiche esclusive del lavoro subordinato come
ad esempio l’onerosità, in quanto anche il lavoratore au tonomo aveva
diritto al corrispettivo pattuito in cambio dell’opus promesso. Si
prendeva in considerazione anche il cosiddetto rischio d’impresa che
vedeva in un certo qual modo coinvolto il giocatore nel momento in cui
doveva essere deciso il suo ingaggio.
Di sicuro affermavano, i sostenitori della locatio operis, che il rapporto
era dotato di caratteristiche particolari, tipiche dell’ordinamento sportivo
in funzione dei fini sportivi tra le quali si possono individuare vincoli di
soggezione che tendono ad assomigliare a quelli presenti nel lavoro
subordinato, ma che la natura dell’ordinamento stesso poteva far si che il
rapporto in esame venisse annoverato nell’ambito delle prestazioni di
lavoro autonomo.
Tale conflittualità di opinioni ha posto il Legislatore nella posizione di
intervenire per sciogliere tali dubbi ed incertezze che, finalmente
vennero risolte con l’emanazione della legge 23 marzo 1981, n. 91 sul
professionismo sportivo. L’ordinamento sportivo ha avuto la sua legge
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regolando tale settore anche con l’utilizzo delle norme dell’ordinamento
statuale creando in questo modo una specie di complicità ed integrazione
tale che nessuno dei due prevarichi l’altro fermo restando che la
sovranità spetta all’ordinamento statuale.
All’interno del capo I, attraverso la tecnica redazionale dei cerchi
concentrici l’uno inscritto nell’altro, il Legislatore ha infatti dapprima
tracciato il discrimine tra dilettantismo e professionismo, poi nel campo
del professionismo ha marcato la distinzione tra atleta lavoratore
subordinato e lavoratore autonomo, infine ha modellato una disciplina
speciale per quanto concerne il rapporto subordinato di lavoro sportivo.
Principio ispiratorio della legge è sicuramente quello sancito dall’art. 1
che riguarda la libertà di svolgimento dell’attività sportiva, e cioè senza
porre grossi vincoli a chiunque voglia esercitarla anche al di fuori
dell’ordinamento sportivo; libertà che comunque incontra indubbi
ostacoli se si tiene presente la situazione di monopolio delle federazioni.
Difatti per la qualificazione del professionismo è necessaria la ricorrenza
di alcuni eventi come appunto l’intervento degli enti federali che più di
ogni altro organo sono stati ritenuti, dallo Stato, idonei per
l’organizzazione del mondo sportivo il quale, per le sue repentine
evoluzioni, necessita di adeguati e pronti interventi.
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L’art. 3 della legge rappresenta, probabilmente, il punto cardine
dell’intera disposizione in quanto ha messo dei punti fissi sulle
argomentazioni che hanno animato gli esperti del settore prima della sua
regolamentazione. Infatti il professionista sportivo è da considerarsi a
priori un lavoratore di tipo subordinato ad eccezione dei casi che
rientrano nei parametri previsti dallo stesso articolo; parlando in un certo
qual modo di una presunzione assoluta.
Assodata la natura subordinata del rapporto, lo svolgimento del contratto
sportivo, così come previsto dall’art. 4, presenta sia delle specialità,
come richiede la sua natura, sia delle similitudini con i contratti collettivi
ordinari data la presenza degli stessi elementi essenziali. Non bisogna
dimenticare, infatti, che, la presenza da una parte delle federazioni
sportive intese come associazioni datoriali e, dall’altra, i rappresentanti
di categoria, rappresentano senz’altro l’in contro-accordo per la
stipulazione del contratto-tipo con tutto ciò che ne consegue, a partire dal
meccanismo di sostituzione delle clausole peggiorative ravvisabile
nell’art. 2077 c.c.; la nullità del contratto che non venga stipulato nella
forma scritta ad substantiam secondo il disposto dell’art. 2126 c.c.
Ulteriore atto di efficacia è anche il deposito del contratto presso la
federazione di appartenenza, e questo per consentire in maggiore
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controllo sulle reali possibilità delle società di far fede agli impegni
assunti. Quindi:
forma scritta ad substantiam, contratto-tipo, deposito del medesimo.
Un ulteriore elemento del contratto sportivo è la possibilità di inserirvi
una clausola compromissoria mediante la quale sono devolute alla
competenza arbitrale le controversie insorte tra le società e lo sportivo
sull’attuazione del medesimo, senza dimenticare che ciò, a pena di
nullità, non può pregiudicare la possibilità di adire l’autorità giudiziaria
per non incorrere ad eccezioni di illegittimità costituzionale.
Uno dei maggiori temi dibattuti nel campo sportivo è stato senza alcun
dubbio quello del “vincolo sportivo”, oggi comunque eliminato nel
settore professionistico e sembra ormai di breve durata anche nel settore
dilettantistico. Il vincolo consiste in un legame indissolubile a tempo
indeterminato dell’atleta con la società di appartenenza, in ragione del
quale il rapporto può essere sciolto solo con l consenso della società,
salvo rinuncia dell’atleta al tesseramento.
Non vi è dubbio che tale istituto sia nato da esigenze prettamente
economiche, e cioè per il fatto che i club calcistici, specialmente quelli
meno potenti dal punto di vista finanziario, si resero conto che gli sforzi
volti alla cura del proprio vivaio ed al lancio dei propri calciatori,
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sarebbero stati vanificati dalla libertà dell’atleta di passare presso altre
società più vigorose, ed è per questo che chiesero ed ottennero
l’imposizione di un vincolo di appartenenza a vita sui propri giocatori.
Vari sono stati i tentativi di mantenere in vita tale istituto soprattutto da
parte delle federazioni, ma altrettanto significative erano le ragioni
dell’associazione calciatori a smantellare il vincolo. In particolar modo si
faceva riferimento alla difesa dei diritti di libertà e personalità
individuali, costituzionalmente garantiti, ed alla preoccupazione delle
società di vedere svanire l’unico, o quasi, mezzo per monetizzare i propri
sforzi nel settore sportivo.
Così la legge n. 91 ha cercato di accontentare un po’ tutti, con la
soppressione del vincolo, a beneficio dei calciatori, ma con applicazione
non immediata dando un congruo periodo di tempo di 5 anni affinché le
società potessero adeguarsi alla nuova situazione.
Rimaneva comunque in vita un introito a favore delle società
rappresentato da un’indennità di preparazione e promozione che doveva
essere versata dalla società che stipulava il nuovo contratto con il
calciatore. Anche tale vincolo residuale è stato eliminato ultimamente
con le modifiche apportate dalla legge n. 586/1996, dando la possibilità
ai calciatori di svincolarsi a fine contratto a parametro zero; tutto ciò è
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l’immediata conseguenza della famosa sentenza BOSMAN che ha
cambiato le regole del gioco.
Un ulteriore conseguenza di tale sentenza è stata la libertà di circolazione
dei giocatori da uno Stato membro all’altro; ma, si badi, non è stata la
nascita di un diritto bensì il semplice riconoscimento di un diritto già
esistente visto che al di fuori dello sport ogni lavoratore è inteso come
cittadino europeo proprio per la sua libera mobilità sancita dal Trattato
della C.E.
Ulteriore tutela a favore del lavoratore sportivo viene dall’art. 7 della
legge, che imposta tutta una serie di meccanismi diretti soprattutto alla
tutela preventiva dell’attività sportiva che quindi m ira a garantire
l’integrità fisica dell’individuo prevenendo danni che gli possano
derivare dall’espletamento della propria attività per causa di malattie,
infortuni o altri eventi menomativi della sua capacità sportiva. Per questo
assume una rilevanza significativa la scheda sanitaria, sottolineata dal
fatto che il deposito di una sua copia presso la federazione funge anche
da autorizzazione allo svolgimento dell’attività sportiva da parte
dell’atleta.
Tali controlli non esauriscono i doveri gravanti sui sodalizi sportivi, i
quali si trovano vincolati dall’art. 2087 c.c. ad adottare, nell’esercizio
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dell’impresa, le misure che secondo la particolarità del lavoro,
l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la
personalità morale dei prestatori di lavoro.
Come in altri settori anche nel settore sportivo vige il principio per il
quale la riservatezza, delle persone fisiche e giuridiche, costituisce un
diritto assoluto ed inviolabile meritevole di tutela attraverso la
comminazione di sanzioni civili, penali ed amministrative. Ciò si deve
all’emanazione della legge n. 675/96 più comunemente conosciuta come
“legge sulla privacy”, che tutela sia i dati personali, intesi come
qualunque informazione relativa al soggetto in questione, sia i cosiddetti
“dati sensibili” che qualificano quei dati idonei a rilevare l’origine
razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere,
le opinioni politiche, l’adesione a partiti o ad associazioni, nonché i dati
personali idonei a rilevare lo stato di salute e la vita sessuale.
Tali dati possono essere oggetto di trattamento solo con il consenso
scritto dell’interessato e previa autorizzazione del Garante per la privacy;
anche se a volte, ma solo in casi particolari, quest’autoriz zazione può
essere concessa in via preventiva in relazione a particolari tipi di titolari
o di trattamento, come quelli necessari al datore di lavoro che deve
adempiere ad obblighi derivanti dalla legge.
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Anche nell’organizzazione sportiva è applicabile, qu indi, il dettato della
legge sulla privacy con tutte le dovute conseguenze. Si sa che già con il
semplice tesseramento, l’atleta non fa altro che mettere a disposizione i
dati alla società, alla Lega ed alla Federazione, le quali potranno trattare
tali dati seguendo l’iter della legge, ma solo per i dati sensibili e quindi
anche per quelli relativi allo stato di salute; per gli altri, quelli comuni, è
necessario il consenso solo se si intendono diffondere.
Un ultimo aspetto analizzato in questa sede è l’att eggiamento della
responsabilità civile all’interno dell’ordinamento sportivo. Alla
responsabilità civile, quindi ai sensi dell’art. 2043 c.c., sono stati sottratti
molti episodi per la presenza della cosiddetta responsabilità sportiva che
altrimenti sarebbero da classificare come illeciti civili. La stessa
giurisprudenza ha ammesso l’esistenza di un certo “rischio sportivo”, in
base al quale chi partecipa ad un’attività agonistica accetta su di sé il
rischio dei danni eventualmente risentiti nell’occasione, purché rientrino
nell’alea normale della disciplina praticata, come quello che può
avvenire in un “normale” scontro di gioco, con il rischio comunque per
l’atleta di incappare in responsabilità per colpa se non ha mantenuto
nella sua azione il senso vigile e prudente per il rispetto della incolumità
dell’avversario e dei terzi.
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La stessa Cassazione ha menzionato il concetto di violenza-base per
indicare che in relazione ad ogni sport c’è quel limite di violenza che
permette all’atleta di essere esente da c olpa nel caso in cui provochi certi
danni all’avversario: si pensi al caso del pugilato dove i contendenti
salgono sul ring non certo per guardarsi negli occhi.
Però una volta superato tale limite, chiaramente si passa ad una
responsabilità di tipo civile cioè extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043
c.c. con tutte le conseguenze che ne derivano. Tale responsabilità può
essere invocata anche in concorso con la responsabilità contrattuale ai
sensi dell’art. 2087 c.c., in quanto la società sportiva è tenuta ad adottare,
nell’esercizio dell’impresa, le misure tecniche e di cautela e quindi anche
medico-sanitarie che, secondo la particolarità dell’attività sportiva svolta,
l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la
personalità morale dei prestatori di lavoro.
Dal canto suo il medico sportivo risponde verso l’atleta solo a titolo
extracontrattuale che eventualmente si può aggiungere a quella
contrattuale della società; questo perché è un libero professionista ed ha
un rapporto contrattuale esclusivamente con la società.
Molto si è discusso anche sulla quantificazione del danno da risarcire; e
questo dipende da vari fattori: se si tratta di dilettante o professionista,
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dalla perdita di chances, dalla eventuale vite residua lavorativa, dai
compensi percepiti, dalle sponsorizzazioni ( si pensi ai danni subiti da
atleti come M. Jordan), dal danno morale.
A completare la nostra panoramica sui diversi tipi di responsabilità
dobbiamo fare un accenno ad un’altra serie di problemi che si possono
verificare all’interno del mondo sportivo. In particolare si fa riferimento
alla situazione in cui la società sportiva d’appartenenza dell’atleta, autore
di un fatto illecito ai sensi dell’art. 2043 c.c., possa essere chiamata a
rispondere per i danni cagionati, durante l’espletamento della gara, ad un
avversario.
Si tratta di una sorta di responsabilità indiretta prevista nel nostro
ordinamento che, ai sensi dell’art. 2049 c.c., prevede la responsabilità dei
padroni e dei committenti per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro
domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze cui sono stati
adibiti. Tale orientamento ben può inquadrarsi, a maggior ragione,
nell’ambiente sportivo dove spesso succede che sia superato quel limite
della violenza-base di cui si accennava in precedenza, e quindi ci sia
bisogno di allargare la base di garanzia a favore di coloro che subiscono
“danni gratuiti”.
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Quello che finora è stato messo in evidenza è che il mondo sportivo, per
quanto possa sembrare superficiale e ludico, presenta, invece, tutte le
caratteristiche ed i requisiti di una complessa realtà che nel corso degli
anni, per i vari interessi entrati in gioco, ha dimostrato di avere una
propria struttura forte ed organizzata, fatta di persone valide e
competenti tali da rispettare le chiare regole di un ordinamento giuridico.
Il modesto lavoro svolto sull’argomento non è altro che la riprova che
tanto si è detto ma tanto ancora si poteva dire. Il mio è solo un piccolo
contributo apportato assieme al rispetto della materia.