perché si propone come un dialogo aperto con la realtà: le
Lettere.
Nella prima parte analizzando alcune componenti
biografiche, vengono delineati i tratti della sua vicenda che
maggiormente interessano il nostro studio. Nel farlo si deve
tenere conto che la vicenda dell’Aretino declina inesorabilmente
subito dopo la morte, nel 1556, a causa dell’immediata messa
all’indice dell’intera produzione. In seguito a tale interdetto la
sua figura subisce una damnatio memoriae, che tramanda fin
quasi ai nostri giorni una memoria infame e malevola, come se
l’Aretino fosse stato soltanto uno scrittore osceno. Solo
recentemente si è cercato di inserirlo in una dimensione critica
più obiettiva e si è anche cercato di diradare la coltre fumosa che
egli stesso getta sulle proprie origini. Egli nasce ad Arezzo, nel
1492, anno fin troppo emblematico. La prima fase della sua
esistenza si svolge tra Perugia, Roma, Mantova e Reggio, fino al
decisivo approdo a Venezia, nel 1527. Nella città dove, per sua
stessa ammissione, impara ad esser libero, dà origine ad un
circolo artistico-letterario che ruota attorno a figure di spicco
come Tiziano e Sansovino. Si inserisce con singolare intuito nel
fiorente circuito editoriale, instaurando, a partire dal 1533, un
duraturo e proficuo rapporto di collaborazione con l’editore
Marcolini; insieme a lui e a quel gruppo di intellettuali minori,
noti come poligrafi, attua una strategica operazione di
commercializzazione della figura dell’intellettuale. In questo
contesto, il suo «libro di Lettere» può essere considerato una
vera e propria invenzione: esso, infatti, rappresenta un progetto
unitario concepito dall’autore come risposta alle sollecitazioni ed
agli stimoli a cui lo sottopone il vivace ambiente lagunare.
Protagonista dei sei libri di Lettere, pubblicati tra il 1537 ed il
1557, è la legittimazione di un nuovo Pietro Aretino, che
ripropone la propria immagine, adattandola alle nuove esigenze
derivanti dall’affermazione della stampa e dal conseguente
confronto con un pubblico, col quale è ora necessario interagire.
Il campo d’indagine viene poi ristretto ad un aspetto
circoscritto dell’Aretino uomo ed epistolografo: il legame con il
mondo dell’arte, con particolare attenzione all’ humus fertile del
suo salotto veneziano. Le sue “doti” critiche vanno ricondotte ad
una dimensione obiettiva, per evitare di caricarlo di
responsabilità di teorico o al contrario di negargli ogni merito.
Egli deve essere considerato come un giornalista che,
frequentando abitualmente gli artisti, assume una privilegiata
posizione di testimone degli eventi artistici che lo circondano.
Non ha avuto mai la pretesa di essere un teorico, è un
appassionato d’arte che ci ha comunicato le sue impressioni e
che, grazie alla sua istintiva capacità di cogliere l’arte senza
grossi approfondimenti, ha amato senza pregiudizi l’arte del suo
tempo. Con Tiziano, egli instaura un vero e proprio sodalizio, che
si basa su particolari «affinità elettive». Egli individua il tratto
caratterizzante della pittura del cadorino nel «colorito» morbido e
vivo. Le descrizioni ecfrastiche e le lodi dei dipinti tizianeschi
denotano una forte simbiosi tra la sua penna ed il pennello del
Vecellio. Il momento più alto di questa simbiosi arte-letteratura
si compie nella celeberrima lettera sul Canal grande, dove
l’Aretino trasforma il paesaggio veneziano in un immaginario
quadro tizianesco, realizzato con la sua felice vena descrittiva. La
linea guida dell’interpretazione aretiniana dell’arte è data dalla
«maraviglia», che nel Tiziano è suscitata dal colore, in
Michelangelo dalle figure, grandi oltre il naturale. Proprio il
Buonarroti resta per l’Aretino un mito irraggiungibile: è l’unico
artista contemporaneo che non gli concede alcun cenno di stima.
Nelle missive che l’Aretino gli scrive è evidente la venerazione
per l’arte michelangiolesca. Tale ammirazione, tuttavia, viene
nel tempo raffreddata dall’indifferenza del Buonarroti e
dall’esigenza dell’Aretino di riproporre nuovamente la sua
immagine nel clima dell’incipiente Controriforma. È così che la
famosa lettera sul Giudizio finale, scritta nel ’45 come amaro
sfogo di fronte al comportamento del Buonarroti, diviene, in un
secondo momento, nelle mani del flagello dei principi uno
strumento opportunistico per rivalutare la propria immagine
immorale nel nuovo contesto rigorista e per dar voce alle
critiche, che coglie nell’aria contro i nudi dell’affresco. Malgrado
l’epilogo poco amichevole, resta il dato inconfutabile dell’amore
artistico che l’Aretino prova per il Buonarroti. Parallelamente ai
colori vivi di Tiziano, egli riesce ad apprezzare l’evidenza
plastica del disegno michelangiolesco. Non sa, tuttavia,
comprendere fino in fondo l’evoluzione artistica dei due artisti,
per due ragioni fondamentali. In primo luogo egli concepisce
l’arte come diletto per la vista e non come tensione drammatica,
e questo lo allontana dalla forma mentis michelangiolesca. In
secondo luogo, pur avvertendo confusamente che qualcosa sta
cambiando, egli stesso fa parte di questa crisi e, pertanto, non è
in grado di codificarla. Resta il fatto che, malgrado l’approccio
istintivo e sensuale con la loro arte, egli ha compreso Tiziano e
Michelangelo meglio dei suoi contemporanei. Inoltre si interessa
di molti altri artisti che vengono da lui incoraggiati e spesso
inseriti nel circuito dei committenti. Subito dopo il Vecellio, suo
grande amico è Jacopo Sansovino, terzo uomo della famigerata
“triade” veneziana. Per lo scultore-architetto trova, infatti,
sempre parole di lode, nelle sue Lettere, così come per
Sebastiano del Piombo, Sebastiano Serlio e per il giovanissimo
Tintoretto, di cui è il primo talent scout, sebbene non approvi
alcuni tratti innovativi della sua pittura, come la «prestezza».
Infine si può considerare il ruolo occupato dall’Aretino
nella preistoria della critica d’arte. Nell’Italia della Rinascita,
l’asse evolutivo dell’arte appare in realtà diviso in due: da un lato
c’è il gusto toscano, influenzato dalle trattazioni teoriche, con
una certa propensione a preferire il risalto plastico al colore.
Dall’altro lato c’è Venezia, caratterizzata da un certo
pragmatismo e da un sostrato orientaleggiante che favoriscono
una pittura morbida e sensuale, più attenta ai problemi
luministici. Questa diversa predisposizione non comporta subito
la nascita di una querelle tra le due pitture. Sono le trattazioni
teoriche a trasformare i due gusti in due scuole artistiche opposte.
Venezia non aveva trattazioni teoriche: il primo tentativo è quello
del Dialogo di pittura di Paolo Pino, pubblicato nel 1548.
Parallelamente nell’epistolario aretiniano aumentano le lettere
dedicate ai pittori veneti. Sia Pino che l’Aretino rappresentano
due differenti momenti della nascente critica d’arte: il primo ha
pretesa teorizzante, il secondo si comporta come un acuto
osservatore, che coglie aspetti ancora in fieri e ce li comunica.
Fondamentale per il nostro studio è anche l’amicizia col Vasari,
che contribuisce ad alimentare la passione aretiniana per il
disegno michelangiolesco. Del resto sono proprio le Vite
vasariane del ’50 ad innescare la querelle tra il mondo artistico
toscano e quello veneto. Il punto di vista toscanocentrico provoca
la vivace reazione di Lodovico Dolce, amico, corrispondente e
collaboratore dell’Aretino. Nel 1557, Dolce introduce Pietro
Aretino come personaggio del suo Dialogo della pittura e lo
trasforma nel paladino della pittura veneta contro l’attacco del
Vasari. Dolce contrappone al modello monocentrico del Vasari
un modello ternario basato su Raffaello, Michelangelo e Tiziano,
rileggendo quest’ultimo in termini classicistici e raffaelleschi e
facendone il modello più alto. Per dare auctoritas alle sue teorie,
il Dolce le fa pronunciare dall’Aretino, che, all’uscita del
Dialogo, era morto da un anno. Il risultato è stato che spesso gli
studiosi hanno identificato le teorie dolciane con quelle
dell’Aretino, sovrapponendo l’esigenza teorizzante del Dolce alla
polemica dell’ultimo Aretino contro Michelangelo, che aveva in
realtà ragioni personali ed opportunistiche. Inoltre egli non ha
mai avuto una particolare passione per Raffaello, osannato invece
dal Dolce. L’Aretino, proprio per la sua forte immersione nel
presente, limita a poche lodi di circostanza l’attenzione per il
pittore urbinate, prematuramente scomparso e che sente inferiore
a Tiziano e Michelangelo. Al Dialogo dolciano Vasari risponde
con le Vite del ’68, dove, pur senza modificare il suo nucleo
interpretativo toscanocentrico, prende atto dell’esistenza della
pittura veneta ed include le biografie di artisti veneti, tra cui
Tiziano.
In conclusione il rapporto dell’Aretino con l’arte si
presenta come quello di un dilettante appassionato e dotato di
una naturale predisposizione ad interpretare le opere d’arte a
livello sensuale, senza grossi approfondimenti teorici. Questo
costituisce il suo più grande pregio, perché rappresenta una
boccata di freschezza in un mondo dominato da discussioni
dottrinali. Si può ritagliare un posto di tutto rispetto a questo
proto-giornalista che, immune da vincoli di scuola e senza le
preoccupazioni teoriche di Pino, Vasari e Dolce, si limita ad
amare e a recensire gli artisti che lo colpiscono “a pelle” e gli
provocano «maraviglia». Il suo posto nella nascente critica d’arte
lagunare è quello, quasi casuale, di uno spettatore privilegiato.
Resta il limite dell’incomprensione dell’ultima evoluzione
artistica dei due grandi artisti? Non si può affidare questa
responsabilità ad un uomo armato solo del suo fine intuito
artistico, che si trova a vivere il Manierismo dall’interno, anzi,
secondo le parole di Larivaille, «come lo scrittore del
Cinquecento più degno dell’appellativo di manierista». Egli si
limita ad osservare e a “fotografare” con la mente l’arte coeva e
se non arriva a cogliere i bordi sfumati e fortemente ibridati della
crisi manieristica è perché egli vive questa crisi dall’interno
mentre le crisi, lo sappiamo bene, possono essere codificate ed
identificate come tali soltanto a posteriori.
CAPITOLO I
Pietro Aretino nella Venezia del Cinquecento
1.1. «Dell’avvenire se ne infischiava». Chi è Pietro
Aretino?
Di certo, quella di cui ci accingiamo a parlare è una delle
figure più interessanti del Cinquecento: Pietro Aretino si è
prestato, e si presterà, a molteplici interpretazioni. La sua
personalità, così ben riflessa nelle sue svariate opere, è ricca di
sfaccettature e contraddizioni tanto che, a volerne isolare dei
singoli aspetti, si possono trarre le conclusioni più disparate,
come spesso è successo agli studiosi.
Ci si può così trovare davanti all’Aretino romantico
«esaltatore del Genio», in un mondo prigioniero di un
Classicismo deteriore, come ha visto Schlosser Magnino,
1
oppure
davanti ad un consapevole critico d’arte o al contrario davanti a
un dilettante d’arte nel senso più genuino del termine: che si
1
Cfr. J. SCHLOSSER MAGNINO, La letteratura artistica. Manuale delle fonti artistiche
della storia dell’arte moderna, III edizione italiana, Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1964,
p. 392.
diletta!
2
Senza dubbio è l’autore che, più di ogni altro, è degno
dell’appellativo “manierista” e del Manierismo incarna le
contraddizioni. Ma, rimandando l’approfondimento di queste
considerazioni al capitolo secondo che affronterà il rapporto
dell’Aretino con l’arte, appare ora opportuno dare il giusto peso
anche a componenti biografiche e, se vogliamo azzardare,
psicologiche.
Non è facile ricostruirne la personalità, perché la sua
vicenda è declinata inesorabilmente con la morte, avvenuta nel
1556, e con l’immediata messa all’indice dell’intera produzione
tra il 1557 e il 1559. A quest’ interdetto segue una radicale
damnatio memoriae, in parte inaugurata già quando Aretino è
ancora vivo, da ex amici come il Doni
3
o da epigrammi
2
Cfr. P. LARIVAILLE, Pietro Aretino fra Rinascimento e Manierismo, Roma, Bulzoni
Editore, 1980, p. 376.
3
Anton Francesco Doni (Firenze, 1513- Venezia ?, 1574), scrittore fecondo ed inquieto, si
lascia alle spalle una carriera di frate mancato, che segna la sua esistenza e la sua opera,
pervasa da un anticlericalismo polemico. Arriva a Venezia prima del 1544, dopo aver girato
varie città, e nella città lagunare entra in contatto con l’Aretino, grazie al comune amico
Ludovico Domenichi. Rimane amico dell’Aretino fino al 1556 quando, in seguito ad una
raccomandazione negatagli dall’Aretino presso il duca di Urbino, si vendica scrivendo
immediatamente il violento pamphlet Terremoto e la malevola Vita dello infame Aretino.
Progetta inoltre un intero ciclo anti-aretiniano, non realizzato per la morte di Pietro e la
conseguente perdita di interesse per la sua vendetta. Le opere edite sono tuttavia state
concausa della cattiva e parziale fama dell’ Aretino.
malevoli come questo attribuito a Paolo Giovio:
4
Qui giace l’Aretin, poeta Tosco,
di tutti disse mal fuorché di Cristo,
scusandosi col dir: Non lo conosco.
5
Certo molto spesso è pesata su di lui l’aura di maldicenza,
legata alla sua fama di flagello dei principi. Molte sono le fonti di
biografi malevoli e quindi non attendibili. Basta citare la Vita di
Pietro Aretino dello pseudo Berna, edita a Perugia nel 1538,
6
o la
4
Paolo Giovio (Como, 1483-Firenze, 1552), storico ed erudito comasco, esperto di
Antiquaria e di Diplomatica. La sua carriera comincia in realtà come medico ed umanista e
decolla quando entra a servizio presso il cardinale Giulio de’ Medici, che nel 1523 diviene
papa Clemente VII. La sua lealtà a questo papa gli frutta il vescovado di Nocera dei
Pagani, vacante dopo il 1527. La forte vocazione per la storia gli fa progettare l’immane
impresa di scrivere una storia del suo tempo secondo il modello tucidideo. Ed è
principalmente a questa immensa opera che lo storico comasco lega la sua fama di
«storicone altissimo»: si tratta delle Historiarum sui temporis libri XLV, a cui il Giovio
lavora per tutta la vita. L’opera si diffonde in tutta Europa con singolare fortuna ed è
caratterizzata dal gusto per il dettaglio e dall’abbondanza di aneddoti e curiosità.
5
In L. DE MAURI, L’epigramma italiano dal Risorgimento delle lettere ai tempi moderni,
Milano, Editore Hoepli, 1918, p. 12. L’attribuzione al Giovio è confermata da un
epigramma di risposta dell’Aretino che così apostrofa il Giovio: «Qui giace il Giovio,
storicone altissimo; / di tutti disse mal, fuorché dell’asino, / scusandosi col dir: Egli è mio
prossimo». Ivi, p. 39. Si veda in proposito: E. MALATO, Gli studi su Pietro Aretino negli
ultimi cinquant’anni, in Pietro Aretino nel Cinquecentenario della nascita, to. 2°, Roma,
Salerno editrice, 1995, p. 1127.
6
La Vita non può essere del vero Berni (1497/98 - 1535) in quanto questo scrittore muore
nel 1535, quindi prima della comparsa di quest’opera. La tradizione lo vede autore di
questa malevola biografia perché il Berni era noto per la sua inimicizia con l’Aretino ed
aveva spesso scritto invettive anti-aretiniane. Tra le opere del Berni vanno ricordate le
Rime, pubblicate postume dal 1537, dalle quali parte un vero e proprio genere letterario,
quello della poesia “bernesca” o giocosa. In esse il Berni effettua una parodia del
quotidiano usando un tono dimesso, volutamente non aulico, con numerosi doppi sensi
osceni.
Vita dello infame Aretino e il Terremoto del già menzionato
Doni, che risalgono al 1556.
Per avere un quadro meno malevolo, si deve aspettare il
secolo dei lumi e la Vita dell’Aretino di Gian Maria
Mazzucchelli, datata 1763, una monografia ben documentata ed
erudita che, tuttavia, non si libera del tutto dei pregiudizi morali e
che indulge spesso in particolari di costume e di gusto
bozzettistico.
7
Infatti ancora nel XIX secolo il De Sanctis, che pure ha il
merito di dare molto spazio all’Aretino nella sua Storia della
letteratura italiana, così lo descrive:
Dell’ avvenire se ne infischiava; voleva il presente. E l’ebbe, più che
nessun mortale. Medaglie, corone, titoli, pensioni, gratificazioni, stoffe
d’oro, statue e dipinti, vasi e gemme preziose, tutto ebbe che la cupidità di
un uomo potesse ottenere. Giulio III lo nominò cavaliere di San Pietro. E
per poco non fu fatto cardinale. Avea di sole pensioni ottocentoventi scudi.
Di gratificazioni ebbe in diciotto anni venticinquemila scudi. Spese durante
la sua vita più di un milione di franchi. Gli vennero regali fino dal corsaro
Barbarossa e dal sultano Solimano. La sua casa principesca è affollata di
artisti, donne, preti, musici, monaci, valletti, paggi, e molti gli portano i
loro presenti, chi un vaso d’oro, chi un quadro, chi una borsa piena di
7
Sui biografi dell’Aretino si veda: A. ROMANO, I biografi dell’Aretino dallo pseudo
Berni al Mazzucchelli, in Pietro Aretino nel Cinquecentenario della nascita, to. 2°, op. cit.,
pp. 1053-1071. Per una storia della tradizione critica si veda: G. INNAMORATI, Per la
storia della critica, in Pietro Aretino. Studi e note critiche, Messina-Firenze, G. D’Anna,
1957, pp. 7-89.
ducati, e chi abiti e stoffe. Sull’ingresso vedi un busto di marmo bianco
coronato di alloro: è Pietro Aretino. Aretino a dritta, Aretino a manca;
guardate nelle medaglie d’ogni grandezza e d’ogni metallo sospese alla
tappezzeria di velluto rosso: sempre l’immagine di Pietro Aretino. Morì nel
1557 [1556], e di tanto nome non rimase nulla. Le sue opere poco poi
furono dimenticate, la sua memoria è infame; un uomo ben educato non
pronunzierebbe il suo nome innanzi a una donna.
Chi fu dunque questo Pietro, corteggiato dalle donne, temuto dagli
emuli, esaltato dagli scrittori, così popolare, baciato dal papa, e che cavalca
a fianco di Carlo V? Fu la coscienza e l’immagine del suo secolo. E il suo
secolo lo fece grande.
8
De Sanctis ancora ritiene che la sua memoria sia «infame»
e il suo nome sconveniente. Tuttavia è da notare come intuisca
alcuni tratti caratterizzanti dell’Aretino e che in parte le sue
osservazioni sono tuttora valide. In primo luogo l’attenzione
esclusiva al presente, che ne fa un proto-giornalista e che gli fa
legare le sue vicende a quelle della stampa: è in questo piccolo
particolare che sta il segreto della parabola della sua stella. In
secondo luogo è vera anche l’intuizione del De Sanctis che
l’Aretino è «coscienza e immagine del suo secolo» e che «il suo
secolo[e solo il suo secolo] lo fece grande».
8
F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di G. Contini, Milano, Edizioni Tea,
1989, pp. 564-565.
Sulla biografia del Mazzucchelli, ma non solo, si basano
anche i biografi scientifici come Cottino Jones
9
e Larivaille
10
che
si sforzano di vederne la figura alla luce dei pochi dati obiettivi.
Nonostante i loro sforzi, «per molti orecchianti della letteratura
[…] Pietro Aretino è ancora soltanto il pornografo, l’infame
scrittore osceno e dissoluto, l’abietto maldicente», come osserva
Malato.
11
Pochi, dunque, sono i dati certi: innanzitutto è sicuro che
fosse un homo novus e questa sua condizione spiega bene il suo
arrivismo sociale, il suo sentirsi sempre col fiato sul collo,
sempre inadeguato. È questo, probabilmente, il motivo che lo
spinge a rinnegare il padre e a prendere, come cognome, il
toponimo della sua città, Arezzo, nonché a gettare una coltre
fumosa sulle proprie origini
12
che, tuttavia, nemmeno i nemici
più spietati sapranno diradare. Afferma Larivaille:
Il motore primordiale della carriera d’uomo e di scrittore di Aretino è
la risultante di un temperamento naturalmente eccessivo, di una vivace
9
Cfr. M. COTTINO JONES, Introduzione a Pietro Aretino, Bari, Laterza Editrice, 1993.
10
Cfr. P. LARIVAILLE, Pietro Aretino, Roma, Salerno editrice, 1997.
11
E. MALATO, Gli studi su Pietro Aretino negli ultimi cinquant’anni, cit., p. 1127.
12
Pochi sono i cenni nelle lettere, che trattano per lo più del periodo veneziano, quindi dal
1527 in poi.
intelligenza pratica e di un sentimento di frustrazione profondamente
ancorato in lui e costantemente esacerbato da rovesci di fortuna sempre
sentiti non come frutti del caso o di errori personali, ma come effetti della
gelosia o della malignità altrui.
13
Il suo comportamento, spesso definito di rivolta e di
rottura, è diverso da quello del cortigiano medio e, se di rivolta si
tratta, è una rivolta di tipo egocentrico. La sua poetica, come la
sua morale, sarà doppia, di compromesso, scissa in pubblica e
privata. Volendo sintetizzare in poche righe la sua personalità,
sembra valida la definizione di Cottino Jones:
Genio, irrequietezza, estrosità, e grande diplomazia culturale sono le
qualità che meglio contraddistinguono la personalità e l’opera di Pietro
Aretino.
14
Nasce nel 1492, anno fin troppo emblematico, in una
situazione politica piena di rivalità interne, che avrebbe presto
portato l’Italia ad essere terra di conquiste. In questo clima
l’Aretino nasce e si forma, assorbendo in sé le contraddizioni del
suo mondo.
13
P. LARIVAILLE, Pietro Aretino fra Rinascimento e Manierismo, cit., pp. 402-403.
14
M. COTTINO JONES, Introduzione a Pietro Aretino, cit., p. 3.
La prima fase della sua vita e della sua carriera, prima
dell’approdo a Venezia, si svolge tra Perugia, Roma, Mantova e
Reggio. Poche sono le tappe che interessano il nostro studio
prima del 1527. Nel 1510 egli si trova a Perugia, a contatto con
giovani di spicco, così diversi da lui e alla ricerca di contatti utili.
A Perugia svolge un breve apprendistato come pittore,
significativo per il futuro rapporto con l’arte. Scrive Cottino
Jones:
Si sa di certo, infatti, che egli incominciò la sua attività artistica non
come artista della penna, bensì del pennello. La felice attenzione ai dettagli
nei loro aspetti più pittorici sarà una costante della sua arte, fin dalle sue
prime composizioni in versi che si fanno appunto risalire alla sua esperienza
perugina.
15
Dopo questo giovanile approccio con la pittura non
smetterà mai di interessarsi all’arte e agli artisti: questo legame
influirà sia sugli scritti, sia sulle teorie poetiche ed estetiche e gli
farà precorrere (si vedrà poi se in maniera più o meno
consapevole) la strada della critica d’arte.
15
Ivi, p. 4.
Primo frutto di questo percorso è, appunto, l’Opera Nova
del Fecundissimo Giovene Pictore Arretino, zoè Strambotti
Sonetti Capitoli Epistole Barzellette e una disperata,
16
pubblicata
nel 1512, a Venezia, dallo Zoppino ma scritta nell’ambiente
perugino. L’Aretino dimostra singolare intuito facendo
pubblicare l’opera a Venezia, che in questo periodo è in guerra
editoriale con Perugia e che risulterà presto vincente. L’opera è
stata a lungo considerata spuria, ad accertarne la paternità è
Giuliano Innamorati che sottolinea la presenza di elementi
tipici dello stile di Pietro come l’atteggiamento teatrale ed il
gusto per il bozzetto.
17
Si tratta di circa ottanta componimenti
che, tuttavia, risultano nel complesso pedanti e poco originali,
pieni di richiami petrarcheschi e danteschi ma con elementi tipici
dello stile dell’Aretino. Afferma in proposito Cottino Jones:
L’Opera Nova si apre con una salutatio ai lettori […] che già da atto
della consapevolezza con la quale il Nostro manipola il linguaggio
tradizionale secondo le proprie intenzioni comunicative […]. Si apre già qui
quella dimensione tutta aretiniana del raccontare in tono ironico, cioè
riducendo a livello comico tutto ciò che tradizionalmente veniva proposto in
16
Cfr. P. ARETINO, Poesie varie, a cura di G. Aquilecchia e A. Romano, Roma, Salerno
Editrice, 1992, vol. I , pp. 39-84.
17
Per ulteriori approfondimenti sull’attribuzione dell’Opera Nova si veda G.
INNAMORATI, Tradizione e invenzione in Pietro Aretino in Pietro Aretino. Studi e note
critiche, cit., pp. 93-124.
tono serio ed elevato. Si tratta di quella divertita ironia trasgressiva che
segnerà tutte le sue opere più famose e, in particolare, i Ragionamenti e che
inserisce il nostro fra gli scrittori rinascimentali più insofferenti alle
tradizioni letterarie del suo tempo. Nell’introduzione all’Opera nova
quest’attitudine irriverente verso la propria produzione, che qui è per lo più
lirica e ispirata a modelli petrarcheschi che domineranno la tradizione
poetica del suo tempo, scopre già quella vena dissacrante e trasgressiva che
si rivelerà in pieno nel periodo romano e soprattutto con le Pasquinate[…].
Il mondo poetico aretiniano si anima di immagini talvolta vivacissime ed
insolite che scoprono una piacevole vena descrittiva di stampo pittorico-
realista e al tempo stesso attentissima agli effetti fonici.
18
L’Opera nova risulta interessante per due ragioni: in primo
luogo è una testimonianza della sua formazione culturale. In
secondo luogo egli si definisce nel titolo «Fecundissimo» e
«Pictore»: è dunque un pittore? Facendo un passo in avanti al
Dialogo della Pittura di Lodovico Dolce,
19
si può notare che
Pietro viene definito esperto pur senza mai aver toccato
pennello.
20
Ma si deve evitare di identificare l’Aretino del Dolce
con il vero scrittore: il Dolce infatti lo inserisce, in qualità di
personaggio, post mortem ed evita accenni al passato di pittore
per esaltarne competenza ed intuizione critica.
18
M. COTTINO JONES, Introduzione a Pietro Aretino, cit., pp. 6-7.
19
Cfr L. DOLCE, Dialogo della pittura intitolato l’Aretino, Venezia, Giolito de’ Ferrari,
1557, ora in Trattati d’arte del Cinquecento fra Manierismo e Controriforma, a cura di P.
Barocchi, vol. I, Bari, Laterza, 1960, pp. 141-206.
20
Ivi, p. 154.