Modena con la Ristori appartengono allo stesso periodo anche se sono informati da diverse scelte
culturali e politiche.
L’indagine parte dalla Compagnia Reale Sarda a causa del curioso equivoco in virtù del quale
questa régia istituzione è stata considerata innovatrice del teatro italiano laddove, come si è cercato
di dimostrare nel corso di questo lavoro, essa è stata invece l’ultima propaggine, massimamente
perfezionata, di una struttura portante del teatro del XVIII secolo.
Il movimento innovatore veniva da Gustavo Modena che accoglieva l’eredità delle esperienze e del
dibattito dei riformatori del teatro italiano che agirono nel periodo così detto giacobino, cioè tra il
1796 e il 1805. Infatti la celebre riforma proposta dal Modena non nasce come innovazione di
tecnica d’interpretazione, ma come conseguenza di una particolare idea di teatro che affondava le
sue radici nell’Illuminismo e nel movimento giacobino.
Era dunque necessario riproporre all’attenzione il momento giacobino del nostro teatro cercando di
separarlo nettamente da quello che sarà il teatro risorgimentale essenzialmente monarchico e
liberale, laddove l’altro ebbe una matrice repubblicana e radicale che fu soffocata dal maggior
potere napoleonico e dalla proclamazione del Regno Italico.
La complessità e compattezza della riforma del Modena, che implicava una nuova drammaturgia e
una nuova tecnica di interpretazione, fu frantumata dai contemporanei e dagli allievi stessi
dell’attore i quali, ne colsero ed accettarono soltanto la parte riguardante la tecnica di recitazione,
dando così vita alla figura del grande attore quale si protrarrà per tutto il secolo. Di questa
frantumazione della riforma modeniana la Ristori rappresenta l’espressione più compiuta e
significativa.
La Direzione Generale dei Teatri di Torino scriveva a Gaetano Bazzi conduttore della Compagnia
Drammatica al Servizio di Sua Maestà, più conosciuta con il nome di Compagnia Reale Sarda:
14 giugno 1830
Preg.mo Sig.re
S.M. dovendo restituirsi nella sua capitale sul pomeriggio della prossima ventura settimana, la Nobile Direzione per le
cose drammatiche invita perciò V.S. Stim.ma a sottoporle una nota di rappresentazioni, scelte fra le migliori e atte ad
ottenere il Sovrano aggradimento durante il soggiorno che le L.L.M.M. saranno per fare in Torino.
La Direzione, poi, non saprebbe abbastanza raccomandare al di lei zelo il maggior decoro delle scene, che negli
ornamenti analoghi alle medesime: così detti attrezzi.
Con maggior calore, poi, invita il Sig.re Conduttore Bazzi Gaetano alla più stretta e rigorosa osservanza degli abiti da
parte degli attori e delle attrici, non permettendo loro, sotto qualunque pretesto, di comparire sulla scena rivestiti d’abiti
non corrispondenti e adatti ai rispettivi personaggi e caratteri, esigendo in ciò la Direzione che venghi per parte degli
attori scrupolosamente osservato il prescritto dal vigente regolamento a questo riguardo.
Nel rendere pertanto V.S. Stim.ma risposale dell’osservanza di quanto sovra, l’accerta che, qualora fosse Ella per tale
cosa, per incontrare ostacoli per parte degli attori, ciò che non si vuole supporre, la nobile Direzione interporrà in questo
caso l’autorità sua onde far rientrare nei suoi doveri quegli attori ed attrici che fossero per allontanarsene.
Nel rimanente la Direzione coglie la presente opportunità per riconfermare a V.S. i sentimenti della sua piena
soddisfazione e gradimento per zelo… ecc. ecc.
1
La Compagnia Reale Sarda era stata istituita con un decreto regio nel 1820
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e aveva cominciato la
sua attività nel 1821. Nei primi nove anni di vita le lettere inviate dalla Direzione dei Teatri al
conduttore della Compagnia erano state numerose, moltissime del genere di questa pubblicata qui
per la prima volta. Il conduttore della Compagnia: Bazzi o i suoi successori Domenico e Francesco
Righetti, non avevano in realtà alcun potere decisionale nella scelta degli attori, tanto meno in
quella degli autori. Era infatti una compagnia al servizio del Re, che ricorda i nobili collegi torinesi,
posti sotto la tutela della casa Savoia.
A distanza di più di un secolo e mezzo, la Compagnia Reale può esercitare un fascino sullo
studioso: i nomi prestigiosi degli attori che vi parteciparono, il numero di produzioni messe in
scena, il fatto stesso che fosse finanziata e controllata dal governo, tutte queste cose tendono a
mostrarci una sorta di paradiso, sia pure troppo tranquillo, tuttavia di un paradiso teatrale. Ma, a
parte il fatto che dove è paradiso generalmente non v’è teatro, a ben guardare da vicino la vita
ventennale di questa istituzione piemontese l’immagine iniziale si deforma, fino a suscitare sospetti
e diffidenze.
Grande tentazione potrebbe essere collegare il fenomeno della Compagnia Reale Sarda, in quanto
istituzione finanziata e controllata dallo Stato, alle riforme e ai programmi di età giacobina, o alla
politica teatrale di Napoleone. Ma, a meno che non si voglia collegare fatti esteriori e dati fra loro,
trascurando i significati di fatti e dati, qualsiasi accostamento tra la Compagnia Reale Sarda e le
esperienze teatrali di età giacobina e napoleonica condurrebbe fuori strada.
Oltre a essere il teatro giacobino di ispirazione repubblicana, esso si differenzia sul piano della
struttura dalla Compagnia Reale Sarda, perché aspirava a costituire un nuovo linguaggio teatrale
attraverso la formazione di nuovi attori, creando scuole di recitazione nelle quali gli attori potessero
imparare ad essere partecipi di un teatro che avrebbe dovuto esprimere valori nuovi; i
provvedimenti e i programmi degli anni giacobini volevano un teatro come scuola soprattutto di
ideali civili e politici; cercavano di stabilire le condizioni che potessero completamente sottrarlo alla
speculazione commerciale. Non fu mai nelle intenzioni del governo piemontese creare una scuola di
recitazione, ma a colpi di lauti compensi si compravano molti fra i buoni attori del tempo; né vi fu
preoccupazione di sottrarre il teatro alla speculazione commerciale, essendo di tipo commerciale il
rapporto stabilito prima di tutto tra il capocomico e il governo stesso; né i governanti piemontesi, a
loro volta, avevano il programma di affidare al teatro un ruolo particolare se non quello di conferire
maggior prestigio alla casa regnante che altrimenti mal avrebbe figurato di fronte a Milano che
godeva di un teatro imperiale e a Napoli dove agiva la Compagnia Reale sovvenzionata dallo Stato.
È sintomatico che, a poco più di dieci anni dal fervore di programmi e di progetti per un teatro che
non fosse strumento di divertimento, nel significato deteriore della parola, per un teatro cui si
volevano affidare funzioni sociali e politiche, tra le carte della Compagnia Reale Sarda non si trovi
niente del genere, fatta eccezione per le poche convincenti allusioni contenute nel decreto emanato
da Vittorio Emanuele I e che sembrano più conseguenza di una convenzione di linguaggio, che di
un programma ideale.
Con questo non si vogliono negare alcuni meriti alla regia iniziativa e all’opera di quanti la
realizzarono. Per quanto riguarda la pratica teatrale appare evidente, dallo studio dei documenti,
che la Compagnia Reale Sarda contribuì ad abolire quel malcostume che faceva delle prime donne
le divinità assolute della scena, divinità le cui decisioni non potevano essere sottoposte a
discussione; come pure, contribuì, mediante il severo controllo della censura, ad abituare gli attori a
non modificare il testo per tagliarselo addosso; ma, a questo proposito, si deve pur riconoscere che
non furono educati gli attori ad una pratica teatrale dalla quale scaturisse un nuovo rapporto con il
testo drammatico, bensì vi fu, come ho detto, un’impostazione della censura tanto che, finita la
Compagnia Reale Sarda, gli attori ripresero allegramente a tagliare i testi per consentire un
maggiore spazio a personali esibizioni. Sembra anche che l’attore, passata la temperie giacobina,
ritorni ai margini della società, ritorni ad essere un oggetto, sia pure oggetto di riguardo da tenere
lucido e bene in vista, cioè ben pagato. Infatti dai programmi e progetti del teatro italiano tra il 1796
e il 1805 emerge il nuovo ruolo dell’attore non soltanto nei confronti stessi della società: si vuole
che l’attore non smentisca con il suo contegno l’insegnamento che deve dare al pubblico dal
palcoscenico, l’attore è il portatore delle idee di libertà e di civiltà. Se questa identità tra la figura
dell’attore sul palcoscenico e la sua personalità fuori del teatro può ancora manifestare
preoccupazioni di ordine moralistico, è anche vero che, nel quadro delle riforme proposte dai teorici
del teatro giacobino, essa appare soprattutto come il riconoscimento della funzione sociale
dell’attore, il crollo delle barriere che da secoli separavano l’attore dalla società. Tutto questo
scompare nella Compagnia Reale Sarda: l’attore è ancora strumento di divertimento,
l’atteggiamento delle pubbliche autorità e degli elaboratori di regolamenti e programmi è, verso di
lui, diffidente, paternalistico nei migliori dei casi. I regolamenti per il buon governo della
Compagnia illustrano chiaramente sia il merito che va riconosciuto ai reggitori di volere un maggior
ordine e disciplina sulla scena, sia l’atteggiamento loro nei confronti degli attori, che sono sottoposti
a numerose pene disciplinari ove mai vengano meno ai doveri di decoro e di buona condotta che
sono imposti.
I regolamenti sono molto dettagliati, prevedono tutti i vari accidenti che possono verificarsi nella
vita di una compagnia: dall’indisciplina dell’attore alla malattia contagiosa e ne sono enunciate le
varie soluzioni con una cura assoluta e zelante. Non soltanto il comportamento dell’attore è
sottoposto a severa disciplina durante gli spettacoli, ma anche durante le prove, alle quali tutti i
componenti della compagnia devono essere presenti, a meno che il conduttore non permetta di
allontanarsene. Provvedimenti così articolati, che contemplano i casi più disparati, sono certamente
una novità sulle scene italiane, tuttavia non bisogna lasciarsi affascinare dal desiderio di buon
ordine che ne emerge: esso nasconde, in sostanza, una completa dipendenza della compagnia dalle
autorità di Governo e se ne deduce che in conclusione questi attori devono comportarsi
decorosamente soprattutto e forse soltanto perché sono al servizio Reale, al di fuori di questa
dimensione il problema dell’attore, nella Compagnia Reale Sarda ha uno scarso rilievo.
Da alcune lettere appare chiaramente l’assoluta e dittatoriale funzione della Direzione dei Teatri,
composta, fino al 1848, in gran maggioranza da vecchi aristocratici, incapaci generalmente di
guardare il teatro con occhio più moderno. Scelgo tra alcune di queste lettere: il gran ciambellano
marchese Spinola, che per un certo periodo fu a capo della Direzione dei Teatri scrive a Domenico
Righetti socio del Bazzi nella conduzione della Compagnia, il 19 maggio 1842:
Il sottoscritto Gran Ciambellano di S.M. cui, a mente delle Sovrane intenzioni sta a cuore il lustro, il decoro e
l’incremento morale della R. Compagnia Drammatica, nel pronunciare il licenziamento dalla medesima del Sig. Torello
Chiari primo amoroso, venne determinato non già da demeriti personali del detto Attore, ma bensì dal convincimento
suo, avvalorato eziandio dal pubblico avviso, che il medesimo, benché dotato di abilità nell’arte sua, non ha però
raggiunto quel grado di perfezione, di eccellenza e dignità nel disimpegno delle parti che gli vengono affidate, che pur
sono indispensabili negli individui ascritti alla predetta Reale Compagnia […].
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La Direzione dei Teatri, cioè l’organo governativo avocava, dunque, a sé ogni decisione, anche di
ordine strettamente tecnico, per quanto riguardava la vita della Compagnia: il conduttore si
configurava come un semplice esecutore, d’altra parte era così nelle intenzioni della Direzione
come testimonia una lettera indirizzata alla stessa Direzione dal conte Piossasco, nei mesi in cui
lavorava alla formazione della Compagnia:
Niuno de’ miei buoni padroni sudd.ti mi disse che non aveva gran peso il mio riflesso che era necessario anche per la
compagnia definitiva di accettare un capocomico che liberasse la Direzione da una farraginosa amministrazione, dalla
spesa immensa delle provviste e fondi di teatro, dal disturbo di cercare teatri per l’autunno e farvi trasportare la
compagnia, e finalmente dalla critica inevitabile, e da mille fastidiosi pensieri […]
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Ma allora, che cosa esprimeva questa struttura organizzativa della Compagnia Reale Sarda, quale
significato aveva il finanziamento governativo?
Sembra, che la struttura organizzativa della Reale Sarda non sia stata caratterizzata da nessuno dei
temi del dibattito che implicava una nuova cultura e un nuovo linguaggio; ma, a mio giudizio, i
governanti piemontesi fecero, invece, tesoro della tradizione delle accademie e delle società
filodrammatiche, ambedue tra le maggiori strutture portanti della vita del teatro di prosa nel
Settecento italiano. Nelle accademie vi partecipavano gli aristocratici della città i quali avevano
potere decisionale nella scelta delle compagnie: essi formulavano i regolamenti di disciplina interna
del teatro, sia per quanto riguardava il pubblico sia gli attori, avevano la responsabilità della
regolare applicazione dei provvedimenti di polizia, per quella parte che concerneva la vita teatrale.
Sia le accademie sia le società dei filodrammatici agivano, generalmente, sulla base del teatro
concepito come lusso o divertimento o svago di pochi. La Compagnia Reale Sarda, conservava
nella sua struttura portante, questa configurazione: l’intervento del finanziamento governativo non
contribuisce a dare alla istituzione teatrale una dimensione di teatro pubblico, così come veniva
fuori dalle stesse proposte dei riformatori giacobini, conserva la funzione di un teatro privato,
divertimento di un pubblico per il quale la presenza nelle sale teatrali è già un fatto acquisito, né si
cerca un pubblico nuovo.
Sulla base di queste considerazioni, si comprende lo spirito che detta la serie di rigidi provvedimenti
che regolano l’attività della compagnia: è un rigore che si propone di portare al massimo punto di
perfezione una struttura già esistente e già articolata; pertanto esso esprime essenzialmente una
disciplina, un desiderio di ordine, di decoro.
Più complesso, contraddittorio in un certo senso, diventa il discorso sul repertorio della Compagnia
Reale Sarda. Da una parte il problema deve essere collegato alla struttura organizzativa della
Compagnia, in quanto espressione di una idea di teatro; dall’altra deve essere inserito nel problema,
più vasto, della cultura del tempo. Per quasi vent’anni e forse più, la Compagnia Reale Sarda resta
tagliata fuori dal dibattito culturale che appassionava poeti e letterati: quel dibattito tra classici e
romantici che investì soprattutto la drammaturgia e dal quale poteva nascere e forse nacque, una
nuova idea di teatro. Nel Piemonte la drammaturgia doveva fedelmente riflettere i valori morali,
sociali, politici costituiti senza contestarli: e questo avviene puntualmente, se si osserva che, sui
palcoscenici torinesi, non v’è riflesso, come non v’è nelle produzioni drammatiche, delle polemiche
che agitavano la Lombardia, la Toscana. Classici e romantici si scatenano l’uno contro l’altro; e la
scelta tra classicismo e romanticismo, in questi primi decenni dell’Ottocento italiano, non è
questione di teorie letterarie, ma scelta di idee e molto spesso, come nel caso di un Modena, di un
Mazzini, di uno stesso Niccolini, scelta politica.
Nella seduta del 27 marzo fu decisa l’abolizione del sussidio governativo alla Reale Compagnia che
concluse la propria attività come istituzione teatrale finanziata dal governo; Francesco Righetti
succeduto al padre Domenico, nella conduzione, cercherà di mantenerla in vita ancora per qualche
anno: ma ormai la fisionomia della Compagnia è diversa. Le sue sorti si sollevarono, soltanto, con
l’intervento di Adelaide Ristori, sposata al marchese Giuliano Capranica del Grillo e saranno
successi raccolti soprattutto sulle scene parigine, fuori dall’Italia.
Nel 1853 fu sciolta la Compagnia Reale Sarda; le scuole per gli attori, vecchio sogno dei riformatori
giacobini, non esistevano o, quando vi furono, furono accademie. Il dibattito sul teatro nazionale
prese le pieghe più curiose e singolari: il duca di Ventignano, il Cioni Fortuna, il Nasi, per fare
qualche nome,
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appartennero alla schiera di scriventi sull’argomento, ma proposero nel migliore dei
casi, un teatro moralizzatore, prospettarono riforme, soluzioni vaghe, nebulose, che niente avevano
in comune con il problema della vita teatrale quale si andava configurando in quegli anni: astrazioni
teoriche di uomini di buona volontà e di mediocre cultura.
Certamente se noi guardiamo le memorie dell’epoca, i ricordi degli attori, gli articoli e studi
apologetici della fine del secolo e dei primi anni del Novecento, in un momento di rivalutazione il
più delle volte acritica di tutto quanto aveva partecipato degli anni risorgimentali, è possibile
arrivare a conclusioni affatto diverse. Se invece, si tiene d’occhio la struttura teatrale, il problema
del repertorio, il linguaggio teatrale, la situazione dell’attore e tutti questi elementi composti in un
unico quadro, appare chiaro che l’idea di teatro si svuota dei significati e della funzione che
volevano affidarle i riformatori giacobini e Modena. La vita teatrale italiana entra in una situazione
che è la naturale evoluzione e conseguenza della struttura, dell’attività e dello spirito della
Compagnia Reale Sarda. Posti di fronte alla scelta, i nostri teatranti della metà dell’Ottocento si
mossero sulla strada della conservazione velata da un moderato spirito progressivo. Ma nel
momento in cui il teatro assumeva una posizione di disimpegno nei confronti della realtà, allora non
restava che l’osservazione della natura secondo le regole morali comunemente accettate. L’attore
prendeva la strada che lo conduceva alla fotografia morale, poi a quella psicologica.
Né mi sembra che si possa vedere nel teatro del Risorgimento un teatro politico, ma soltanto un
teatro patriottico: nel momento del loro massimo impegno, la Ristori o Salvini furono attori
interpreti di spirito patriottico, non di impegno politico alla pari del Modena. Teatro politico,
nell’accezione più ampia, può intendersi come teatro che si pone in una situazione di contestazione
e di critica nei confronti della realtà, è un teatro della modificazione. Per questi aspetti che
caratterizzano il teatro negli anni del Risorgimento, la Ristori mi sembra la figura più
rappresentativa: quella Ristori che, a ben ragione, il De Sanctis accusò di avere un pianto
inestetico,
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cioè un atteggiamento di scena perfetto tecnicamente, ma morto, incapace di suscitare la
fantasia, cioè un nuovo ordine di emozioni: eppure le platee applaudivano la Ristori. Ma gli
spettatori abituali del teatro, erano precisamente i rappresentanti di quella classe borghese in ascesa,
che aveva raggiunto il potere e che per mantenerlo doveva bloccare qualsiasi atteggiamento etico
innovatore: avviene così quella cristallizzazione morale che è alla radice della ripetizione dei valori
sul palcoscenico e dunque alla radice del perfezionismo tecnico sempre più avanzato quanto più
vuoto: inestetico.
Al tempo della Compagnia Reale Sarda, Adelaide Ristori, già sposata al marchese Giuliano
Capranica del Grillo, fu considerata il nume tutelare di una istituzione che sarebbe naufragata senza
il sussidio governativo.
Ecco che cosa accadde: l’Avvocato Francesco Righetti conduttore della Compagnia Reale Sarda,
abolito il finanziamento del governo piemontese, si trovò nella necessità di sciogliere la compagnia,
rinunziare alla conduzione, buttare, in qualche settimana, anni di lavoro. Incominciarono le
trattative con la Ristori, marchesa Capranica del Grillo; tramite di queste fu Pasquale Tessero, attore
e cognato dell’attrice. La novella aristocratica opponeva alle offerte del Righetti ragioni di prestigio
marchesale, l’opinione contraria dei suoceri che mal avrebbero visto la moglie del figliolo calcare le
scene. Questo la Ristori scriveva al Righetti. Al Tessero, con il quale era in più franchi rapporti,
scriveva che il compenso proposto dal Righetti era basso, le condizioni svantaggiose; infine
aggiungeva che al marito erano stati promessi proficui appalti da gestire e che, dunque in tal caso,
entrare nella Compagnia alle condizioni proposte sarebbe stato finanziariamente svantaggioso.
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Finalmente dopo lunghe trattative si giunse ad un accordo: la Ristori sarebbe entrata nella
compagnia come socia del Righetti con i diritti di scelta del repertorio, di esigere che il conduttore
sottoponesse alla sua approvazione l’assunzione degli attori;
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mentre il povero Righetti, liberato
dalla Direzione Generale dei Teatri, cadeva nelle mani dell’attrice-marchesa, o meglio della
marchesana, come con disprezzo la chiamava Gustavo da Modena. Tuttavia Righetti sente il buon
affare, accetta le condizioni poste dalla Ristori e si mette in movimento per organizzare una tournée
a Parigi: trionfo del teatro italiano, contentezza del Cavour che nel 1855, faceva una politica di
avvicinamento alla Francia, gran lavoro del marchese Giuliano marito della Ristori. Infatti questi fu
spedito a Parigi con numerose lettere commendatizie di aristocratici italiani per i loro colleghi
francesi. Lì il marchese seppe ben fare, riuscì a vendere i palchi della sala Ventadour al bel mondo
parigino per tutto il periodo di recite della moglie. Da Parigi la Ristori, alternando brevi soggiorni in
Italia, incominciò a girare il mondo dando il via a quel nomadismo che caratterizzò l’attività delle
nostre maggiori compagnie di prosa per tutto il XIX secolo e ancora nei primi decenni del
successivo fino alla prima guerra mondiale, e anche dopo.
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Successi, trionfi, ovazioni, onori accoglievano dovunque la Ristori che, ritornata in Italia, si godette
un’onorata vecchiaia allietata dalle favolose celebrazioni dell’ottantesimo genetliaco.
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Ma qui
interessa comprendere che cosa la Ristori voleva dire al suo pubblico dal palcoscenico, e quale idea
di teatro andava realizzando con le sue prestigiose interpretazioni.
Bellezza, voce, eleganza di portamento – scrive la Ristori – non hanno altro che valore effimero se manca il fondamento
vero ad un attore: cioè l’intelletto dell’Arte. E non basta nemmeno l’intelletto che è scultura a se stesso: non si estolle
dalle vie della vanità, non perviene a nulla! Bisogna studiare, non superficialmente, innanzi tutto quello che io chiamo il
materialismo della parte, in altri termini la forza fisica che occorre a renderla, e poi, il suo idealismo, sviscerando il
carattere, dandogli il colorito che ha, mercé i colori che avete voi sulla vostra tavolozza. Il giovine che si propone di
calcare le scene non deve contentarsi di essere una bella speranza, ma mirare a divenire un valore effettivo, e
particolarmente (in ciò sta la difficoltà) in mettere d’accordo, per così dire, i colori che si posseggono con quelli che
sono propri del tipo il quale è da rendere.
Io avevo tutti i colori della mia tavolozza, avevo anche una potenza di fibra è vero, ma avrei sciupato gli uni e l’altra
senza l’ostinata volontà di uscire dalla mia natura per entrare in quella del tipo che volevo rappresentare. Invece mi
pare, che certe attrici non facciano altro che ridurre alla propria natura tutti i tipi.
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Credo bene che questo sia il metodo
più comodo […]; ma ecco che il giovine, di belle speranze resta in una mediocrità, una miseria addirittura! Sia loro di
sprone, invece, il mio suggerimento. Le indeterminate raccomandazioni di cercare il vero ed il bello, non valgono a
nulla se non si superano le grandi difficoltà di conciliare il vero che ha in sé l’artista, col vero che è nel tipo da rendersi.
Solo per questa via l’artista raccoglie il premio dei suoi stenti. E chiudo col dire che nemmeno basta conoscere il vero
obiettivo e metterlo d’accordo col sub obiettivo, ma bisogna fare di più, molto di più: non è lecito riprodurre fedelmente
il vero come è in natura, perché il vero naturale è appena la radice del vero e del bello artistico; questo è il fiore di
quello, e non bisogna, per così dire, cogliere tutta la pianta del vero ma il suo fiore.
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Riassumono queste parole il credo artistico della Ristori e il suo comportamento d’attrice. Il centro
del discorso va cercato nel problema della conciliazione tra il vero che l’artista ha in sé, con il vero
che è nel tipo da rendersi. Bisogna tenere ben presente che il tentativo di conciliazione tra questi
due poli dell’atto interpretativo non aveva alcun significato dialettico, né implicava alcuna
posizione critica verso la parte da interpretare, come nelle teorie di Gustavo Modena. La Ristori fu
soprattutto la grande attrice del dramma storico e della tragedia storica, la grande interprete degli
spiriti del Risorgimento.
La differenza di vero che essa vede, quello dell’artista e quello del tipo da rendere, è soprattutto una
differenza storica nell’accezione rigidamente cronologica del termine. Si sviluppa un atteggiamento
archeologico, per quanto riguarda la puntualizzazione esteriore del personaggio da interpretare.
Compiuta questa ricostruzione storica di superficie, la Ristori penetrava all’interno della parte e qui
il suo vero morale, rivestito di abiti cronologicamente diversi, invadeva il personaggio, che
diventava così portavoce della morale corrente. In altri termini si realizzava un processo di
identificazione etica tra il personaggio e l’attore: ne scaturiva un’interpretazione che stava tra lo
psicologismo e il giudizio moralistico, come appare nelle magistrali pagine scritte dalla Ristori nei
suoi Ricordi.
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Ella afferma che trovava difficoltà ad interpretare personaggi moralmente distanti da
lei,
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racconta che non voleva interpretare Medea, perché lei, Adelaide Ristori amava teneramente i
propri figli, né poteva accettare che una madre li uccidesse.
Sul piano della struttura organizzativa la Ristori non pensò di creare un nuovo teatro: accettò quello
che c’era; accolse, abbiamo visto, l’eredità della Compagnia Reale Sarda, poi agì creando una
compagnia propria secondo i canoni del tradizionale capocomicato e nell’ambito di questi vecchi
canoni l’attrice e capocomico portava le maggiori perfezioni possibili: lusso, decoro per i secondi
attori, paghe che non affamavano i compagni di lavoro, verso i quali ebbe, come attrice, un
atteggiamento incoraggiante cercando di metterne in luce le qualità migliori che avrebbero dato
maggior prestigio alla sua compagnia. Immobilismo di struttura, ma perfezionismo ad alto grado.
Per quanto riguarda la recitazione la Ristori accettava la frantumazione dei generi tragico e comico
e la mescolanza dei due, secondo gli insegnamenti del Modena e i principi della scuola romantica e
questa tecnica usò per esprimere i valori proposti dal Risorgimento, nel momento in cui lo stesso
Risorgimento era praticamente un fatto già acquisito, cioè dopo il 1855: è dopo questa data che la
Ristori sale a grandissima fama.
Essa è la sintesi delle innovazioni teatrali moderatamente maturate nel corso della prima metà
dell’Ottocento, è il segno, per quanto riguarda il linguaggio teatrale, più compiuto del momento
storico dell’unita d’Italia. In questi limiti essa fu insuperabile e insuperata non soltanto come attrice
ma come teatrante, come capocomico. Una testimonianza viva ci ha lasciato nelle lettere indirizzate
al Giacometti, in gran parte inedite: la collaborazione con l’autore è perfetta. E mentre dalla sua
interessante corrispondenza con il Legouvé può nascere il sospetto che l’intesa tra l’attrice-
capocomico e l’autore francese abbiano radici che esulano da un rapporto strettamente teatrale e che
trovi la forza maggiore in una sorta di amitié amoureuse, per quanto riguarda Giacometti il sospetto
non esiste, tanto lontane erano le dimensioni umane della Ristori da quelle del mesto autore italiano.
Eppure, con quest’ultimo l’intesa, sul piano teatrale c’è, la Ristori si adopera perché uno spettacolo
riesca bene; chiede a Giacometti che faccia una bella parte per la Gigia Glech, attrice della
compagnia, che è bella, ha un bel pianto, ed è magnifica voce. Vuole i suggerimenti dell’autore
anche per quanto riguarda le scenografie. Gli scrive per la Maria Antonietta: «pensi che il teatro di
New York è grande come l’Alfieri di Firenze, e su quella misura noi facciamo fare tutte le
scene…».
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È un momento di grande equilibrio tra le parti dello spettacolo: il palcoscenico e l’autore;
l’equilibrio che Modena respingeva perché non credeva in quella drammaturgia che invece
costituisce gran parte del repertorio della Ristori; Modena rifiutava il teatro celebrativo, che trova
nella marchesa Capranica del Grillo la più completa interprete e che vivrà di intensa vita per tutto
l’Ottocento.
La posizione dell’attore in questo contesto teatrale è particolarissima e apparentemente
contraddittoria. A poco a poco egli perde la sua autonomia creativa, il suo rapporto con il pubblico
si cristallizza in un «rapporto di giudizio»: cioè egli, l’attore, non è più il creatore, non conduce più
il pubblico in un mondo o in una sfera di emozioni, ma, diventando lo specchio dello spettatore, ne
aspetta il giudizio; la dipendenza completa dell’attore dal pubblico è realizzata.
E se identificazione e imitazione, diventarono più tardi, nell’area del primo naturalismo, tecniche
per condurre un discorso critico e di accusa verso la società, in questo momento teatrale
dell’Ottocento esse sono invece un fine da raggiungere, confermando sempre più l’idea che teatro
deve essere lo specchio della realtà, di fronte la quale l’attore si pone in posizione acritica. L’attore
è come un accumulatore di nozioni, di osservazioni, che fedelmente riprodurrà da un palcoscenico
al di sotto del quale il pubblico, in base alla maggiore o minore fedeltà riproduttiva, emetterà il
proprio giudizio. Lo spettatore da parte sua non soltanto troverà nel teatro una perfetta illusione, ma
anche un’illusione che lo compiace in quanto vede perfezionati, se questa è l’espressione giusta, gli
affetti, i gesti, i valori della propria quotidianità. È interessante notare che proprio la generazione di
attori cresciuta e formatasi nella temperie del dramma storico e della storia come problema, quale
emergeva dalle idee del Modena, di Mazzini e di Manzoni, si allontana da ogni dimensione storica
nello studio e nella costruzione dei personaggi da interpretare. Assumono un atteggiamento
cronologistico ed acritico. Esemplare a questo proposito l’analisi compiuta dalla Ristori sul
personaggio di Maria Antonietta. Nell’esaminare e studiare la vicenda, la Ristori si tiene lontana da
ogni valutazione storica e politica, per approfondire l’aspetto psicologico e morale sulla base dei
valori della propria contemporaneità.
Accade che, avendo come fine dell’atto rappresentativo l’identificazione e trovandosi di
conseguenza nell’impossibilità di creare un linguaggio autonomo, l’attore diventa completamente
preda del pubblico che, a sua volta, lo blandisce in quanto non ha più niente da temere dal
palcoscenico nel momento in cui lo stesso palcoscenico si fa portavoce fedele della platea. Ed è
questo infatti, un periodo d’oro, anche se sterile, dei rapporti tra spettatore e attore: quest’ultimo è
accarezzato, onorato. L’attore da parte sua, cerca di inserirsi nella società adottandone in pieno i
canoni morali. E ancora una volta, anche sotto questo aspetto, Adelaide Ristori è un esempio
compiuto: rinuncia alle bizzarrie, alle fantasie, ai capricci, all’estrosità delle grandi attrici, per
assumere il tono della grande dama che fa l’attrice. Le sue mille pretese non sono quelle di
un’attrice che si percepisce altra dal pubblico, ma le pretese della neo-marchesa Capranica del
Grillo che ha la coscienza, di far guadagnare buoni denari agli amministratori, impresari e compagni
di lavoro.
Alla metà dell’Ottocento, dopo complesse e contraddittorie esperienze, il rapporto tra la sala ed il
palcoscenico è statico: valori cristallizzati sono riprodotti dal grande attore; è il teatro dell’unità
d’Italia, improntato all’etica liberale, al moderatismo culturale, all’immobilismo politico.
Su questa situazione si conclude un momento teatrale strettamente collegati al nostro tessuto
culturale; e su queste basi incomincia un’altra vicenda che si trascinerà lungo tutta la seconda metà
del secolo, fin quando le polemiche sul naturalismo e sullo spiritualismo apriranno nuove
prospettive al teatro italiano.