Un’altra perplessità, legata sempre alla trattazione, era dovuta alla vastità
della materia: in che territorio e in che periodo avrei dovuto circoscriverla?
Dopo una breve riflessione, ho fugato ogni dubbio decidendo di svolgere la
ricerca in Italia, nel senso territoriale-attuale del termine. E’ naturale che i
riferimenti alla storia alimentare catalana e francese, data la presenza di
questi popoli nella penisola, non costituiscono una divagazione fine a se
stessa.
Il periodo è il Medioevo, intendendo per questo, il periodo che va dalla fine
dell’Impero Romano fino alla scoperta dell’America.
Questo è naturalmente solo lo sfondo fisico e temporale. Ma quali aspetti
della storia alimentare avrei dovuto prendere in considerazione?
L’alimentazione è sempre stata studiata, almeno fino a pochi decenni fa, da
tanti diversi punti di osservazione, quasi fosse composta da una congerie di
aspetti disparati di cui si potevano occupare solo discipline diverse.
Scegliendo l’uno o l’altro aspetto, come il solo da studiare separatamente, si
arrivava a negare, di fatto, all’alimentazione, lo status di oggetto di studio
valido e legittimo di per sé, evitando così anche la difficoltà che questo
argomento sollecita in teorie che, implicitamente o esplicitamente, vedono
opposti il materiale allo spirituale. Siccome l’alimentazione è uno di quei
campi in cui tali antitesi sembrano intollerabili e che dimostra come l'atto più
fisiologico e materiale è anche un momento saturo di cultura e di
simbolismo, mi è apparso inane studiarne separatamente gli aspetti materiali
da quelli spirituali. L’aspetto più stimolante dello studio dell’alimentazione
consiste, invero, nel fatto che in questa sono riconducibili rapporti sociali ed
economici, forme di pensiero e gerarchie di valori, che spesso sono evidenti
solo in essa e per mezzo di essa.
Considerata come un sistema, l’alimentazione, riflette allora una
distribuzione degli uomini (chierici/ laici, cristiani/ musulmani, barbari/
romani), dei rapporti sociali (ricco/ povero, nobile/ borghese) e degli
alimenti (carne/pesce, vino/birra, olio/burro), in quelle categorie, tanto amate
dal Montanari
1,
che hanno un valore cosmologico e sociologico. Questa
categorizzazione si riflette, a sua volta, in ciò che appare naturale,
psicologico e individuale: il gusto, fenomeno fisiologico, psicologico e
culturale
2
, il piacere, il disgusto e tutte le categorie sensibili che
identificano i cibi e definiscono la loro gerarchia nella coscienza di ognuno.
Convinta del fatto, che soltanto interpretata in questa maniera,
l’alimentazione dovrebbe permettere di analizzare quel percorso che va dal
sociale allo psicologico, ho cercato di cogliere gli aspetti che a me
sembravano i più interessanti e li ho isolati, facendone quasi delle parti a se
1
Intendo Massimo Montanari, mio riferimento principale per i primi capitoli, colui che, a detta di
Cardini, ha operato nella materia una vera e propria “rivoluzione copernicana”.
2
La definizione citata è di J.L. FLADRIN, Per una storia del gusto in «La cucina e la tavola.
Storia di 5000 anni di gastronomia», Roma- Bari, 1987, p. 11.
stanti. Filo conduttore sempre e comunque il cibo.
Nel primo capitolo mi è parso necessario fare una sorta di premessa che
partendo dall’alimentazione romana, confusasi verso il V secolo con quella
germanica, doveva gettare un po’ di luce sulle origini di tutto il sistema
alimentare medievale. Assistendo alla corale conversione del mondo
mediterraneo verso la carne, ciò che più mi ha incuriosito è stato notare
come gli uomini si adattino spesso e con rapidità a cambiare i loro gusti e
anche le loro abitudini. Infatti non è solo il cibo che cambia, ma è anche il
modo di avvicinarsi ad esso: a quel senso della misura, così tipicamente
romano, si sostituiscono, nel Medioevo, l’eccesso e la sproporzione. In
questo lungo periodo due sono gli ideali: l’eroe che mangia molto e quello
che non mangia affatto. Tra questi ultimi sono compresi sicuramente quegli
uomini di Chiesa, che per arrivare alla santità, scelgono di seguire la via
della mortificazione della carne e della sottomissione a Dio piuttosto che al
“ventre”. Questo e altro ancora, è contenuto nel secondo capitolo, che
termina con una scoperta per me sconcertante nella sua scottante attualità:
l’esistenza delle sante anoressiche.
Col terzo capitolo mi sposto nel territorio dell’alimentazione tout court, con
una doverosa rassegna degli alimenti principali. L’approccio a questo
capitolo è stato sicuramente il più difficile, sia per la sistematicità con cui ho
dovuto affrontare l’argomento, che mal si attaglia a chi è abituato a scrivere
di getto, sia perché comunque manca in me, come nella maggior parte delle
persone che in casa hanno un freezer, la sacralità del rapporto col cibo,
chiave fondamentale per comprendere appieno determinati momenti, quali la
panificazione forzata, la ricerca del cibo in posti lontani, la macellazione del
maiale, lo studio dei metodi di conservazione degli alimenti.
Il quarto capitolo, infine, nasce dalla considerazione che l’uomo, non
contento di sfamarsi con un cibo nutriente, ha voluto che questo fosse anche
gradevole al palato, all’olfatto e addirittura bello a vedersi. Così ha
cominciato ad accostarlo, per affinità, o meglio, nel periodo preso in esame,
per contrasto, lo ha profumato con un tripudio di spezie e infine lo ha
colorato. Mi limiterò al coinvolgimento di questi tre sensi, anche se, come ha
osservato il Cardini, potrei spingermi fino al tatto e all’udito: che dire infatti
del “pasto musicale” del terzo atto del Don Giovanni di Mozart, o di Rossini
e della sua “musica per digerire”?
Per parlare della cucina e dei vari Marchesi e Vissani del tempo, ho dovuto
fare un salto verso il XIV e il XV secolo: poco infatti si sa della cucina, in
quel millennio che separa l’opera di Apicio dai primi trattati del 1300. I
secoli XIV e XV sono periodi scanditi da grandi ricettari di cucina, molto più
importanti di quanto si potrebbe mai immaginare perché epigoni di una
tradizione alimentare che sarebbe cambiata per sempre da lì a poco: la
scoperta delle Americhe, anche gastronomicamente parlando, segna una
forte cesura tra questi ricettari e quelli che verranno dopo. Quasi consci di
questo, Martino, Platina e altri riportano, per iscritto, tutto lo scibile culinario
del periodo, come se a loro fosse spettato il compito di tramandare la nostra
vera cucina, prima che a colorarla di rosso arrivasse il pomodoro.
Il viaggio tra i ricettari è stato sicuramente il più difficile perché le fonti, a
parte quelle dirette, erano tante, sommarie e in contrasto tra loro, ma è stato
anche il momento più interessante e più bello. Un percorso all’indietro sulla
nostra tradizione alimentare, sui sapori forti, dolci e agri, su un mondo,
completamente diverso dal nostro, perché alla fine è questo che si evince. E
non potrebbe essere altrimenti dato il periodo in cui viviamo, sempre più
scandito da ritmi frenetici di vita, che inevitabilmente condizionano anche il
rapporto con un cibo, sempre più spesso consumato nei McDonald’s e quindi
saturo di salse al pomodoro e di patate in tutte le salse.
1 - LA NASCITA DEL NUOVO SISTEMA
ALIMENTARE
…la mediterraneità è faccenda poco chiara, al di là di quanto sostengono De
Chirico, D’Ors e Joan Manuel Serrat. Nell’inventario delle mediterraneità,
figurano per diritto estetico proprio il pino, l’alloro, il limone e l’ulivo, senza
che si sappia quale distrazione creativa fece sì che Geova, in fin dei conti
mediterraneo, collocasse un oggetto brutto e ambiguo come la melanzana tra
la flora e la fauna del Mare Nostrum.
Manuel Vásquez Montalbán
IL MODELLO ALIMENTARE ROMANO
Durante il V secolo, crolla in Occidente l’Impero Romano. Alcuni
popoli d’origine germanica, chiamati Barbari (dal greco βαρβαροσ ,
balbuziente, per indicare lo straniero incapace di pronunciare
correttamente la lingua greca), costretti a spostarsi di fronte
all’insediamento degli Unni nell’Europa orientale, occupano l’Italia, la
Spagna e la maggior parte delle Isole Britanniche.
Questo sconvolgimento non fu un evento catastrofico, tale da
distruggere completamente e improvvisamente la cultura anteriore.
Esso provocò tuttavia l’insorgere e l’instaurarsi di condizioni storico-
politiche che diedero luogo alla formazione e allo sviluppo di un’altra
civiltà.
L’incontro tra queste due culture si era già delineato verso la prima
metà del III secolo, nel momento in cui nuove forze sociali, nuovi
popoli erano emersi nel proscenio dell’Impero, e personaggi di stirpe
barbarica erano arrivati a conquistare il trono.
Dalla storia sappiamo che una fusione armonica e completa tra queste
due culture non avvenne mai. Tuttavia, un certo avvicinamento prese
avvio tra il V e il VI secolo e maturò nei successivi, dando inizio a
quella civiltà originalissima chiamata “romano-barbarica”
3
.
Le diversità, tra queste due civiltà erano tangibili anche per i
contemporanei: i barbari si sentivano disorientati dalla ricercatezza e
dall’organizzazione romana, a loro volta i romani erano sempre
inorriditi davanti agli usi e costumi di queste popolazioni nomadi.
La cultura romana non aveva mai mostrato grande entusiasmo per la
vita nomade e di conseguenza per la natura incolta: questa anzi era per
latini e greci l’antitesi stessa della civiltà
4
.Dal punto di vista produttivo,
la cultura romana, trovava il proprio spazio ideale in una campagna
organizzata armonicamente attorno alla città. Questo contado era
composto da terreni coltivati, chiamati ager, tenuti nettamente distinti
3
Per il profilo storico, cfr. G. LIVET e R. MOUSNIER, Il Medioevo, Roma-Bari, 1993,
passim.
4
M. MONTANARI, La fame e l’abbondanza, Roma- Bari, 1993, p. 12.
dal saltus, lo spazio incolto e non produttivo
5
. Esistevano, certamente,
forme di sfruttamento dell’incolto, ma marginali e in qualche misura
occultate da una letteratura ideologicamente proiettata verso altri
valori
6
. Nella cultura romana, insomma, l’incolto si configurava come
esclusione e marginalità. Netto rilievo dunque alla coltivazione, sulla
quale si fondava l’economia e la cultura alimentare romana.
I punti di forza di questa cultura erano il grano
7
, la vite
8
e l’ulivo
9
.
5
Ibidem
6
Basta pensare agli scritti di Catone, Columella e Varrone.
7
I Romani conoscevano tre tipi di frumento: il triticum, il far, o semen, e il trimestre. Il
primo, che era un grano tenero, si raccomandava soprattutto nei terreni asciutti e non
ombrosi; il secondo nei terreni umidi e argillosi; il terzo lo si usava quando non si era
potuto seminare in tempo o quando il terreno permetteva il ristoppo. Poco diffusi erano
invece i grani duri. Il farro aveva in origine più larga coltura, e serviva a preparare la polta
(puls), una sorta di polenta di farro con acqua e sale. Il pane vero e proprio giunse in un
secondo tempo con la diffusione del triticum, dopo la metà del V secolo a.C. La più antica
forma di matrimonio romano si chiamò “confarreatio”, dalla focaccia di farro portata dalla
sposa. Per la distinzione del frumento cfr. M. P. CATONE, De agri cultura, a cura di G.
Curcio, Firenze, 1929, capp. 33 e 34, pp. 150-151; L. DALMASSO Agricoltura, zootecnica
e pastorizia, in «Guida allo studio della civiltà romana antica», vol. 1, Napoli, 1958, pp.
564-566.
8
Per A.I. Pini il vino, appartiene di diritto al codice genetico degli italiani. Enotria, “terra
del vino”, era infatti il nome con cui i greci indicavano la nostra penisola. Effettivamente
quello che non decadde mai nell’Impero Romano, fu la produzione di buon vino.
Inizialmente consumato solo in occasioni di festività religiose, il vino, a un certo punto
venne liberalizzato e diventò la bevanda per eccellenza, da consumare nelle più svariate
occasioni. Molti erano i vini nell’antichità, tra questi, il più importante era il Falerno. A.I.
PINI, Vite e vino nel Medioevo, Bologna, 1989, p. 19; E. SALZA PRINA RICOTTI, In
cucina e a tavola, in «L’alimentazione nel mondo antico. I Romani», Roma, 1987, p. 77.
9
Secondo M. Sentieri, nella triade dei prodotti tipicamente mediterranei, all’olio spettava
la posizione intermedia: non era infatti un alimento di prima necessità come il pane ma
nemmeno puro completamento come il vino (sul ruolo fondamentale che ebbe il vino nel
Medioevo si tratterà più avanti). L’introduzione della coltivazione dell’ulivo in Italia si
deve alle colonie greche, ma, la vera diffusione dell’ulivo avvenne solo verso la fine della
Repubblica, e durò almeno sino al II d. C., quando tale coltivazione cominciò a sembrare
meno redditizia e l’Italia non produsse più olio sufficiente ai suoi bisogni. L.
DALMASSO, Agricoltura, cit., p. 565; M. SENTIERI, Cibo e Ambrosia, Bari, 1993, pp.
42-43.
Accanto a questi prodotti avevano una certa importanza l’orticoltura, la
pastorizia ovina, e soprattutto la pesca. All’inizio quest’ultima non
aveva molta rilevanza: i pesci, infatti, rappresentarono per molto tempo
un cibo non raffinato. Solo il lusso ellenistico, penetrato a poco a poco
in Roma, portò anche il gusto della pesca rara. Si moltiplicarono così le
piscine di acqua dolce e di acqua marina e la pesca divenne a poco a
poco uno sport favorito anche per persone di elevata cultura e posizione
sociale
10
.
Plinio il Giovane
11
, in un’epistola, tra le meraviglie di una sua villa sul
lago di Como, mette in rilievo la possibilità di assistere non solo allo
spettacolo dei pescatori al lavoro, ma addirittura di pescare.
Su questa realtà, rappresentata dal grano, dal vino, dall’olio e, un po’
più tardi, anche dalla pesca, si fondava un sistema di alimentazione che
si potrebbe definire “mediterranea”, di forte stampo vegetale, integrata
10
La pesca fu infatti uno svago di Antonio e Cleopatra, di Marco Aurelio e altri imperatori.
Tra il II e il I secolo a. C., la pesca diventò, per molti quasi una mania, al punto che, tutta
la costa tirrenica si riempì di piscine artificiali. Le fonti distinguono quattro modi di pesca:
all’amo, con la rete, con la nassa, col rampone. Tra tutte è da ricordare la pesca del tonno,
che anche allora richiedeva una speciale organizzazione e si effettuava generalmente dal
15 maggio al 25 ottobre. Non bisogna dimenticare, infine, che il pesce serviva per
preparare il garum, la salsa onnipresente delle tavole romane. L. DALMASSO, Caccia e
pesca, in «Guida allo studio della civiltà romana antica», cit., pp. 582-584; E. SALZA
PRINA RICOTTI, In cucina, cit., p. 106.
11
“Ex illa possis despicere piscantes, ex hac ipse piscari hamumque de cubiculo ac paene
etiam de lectulo ut e naucula iacere”. C. PLINI SECUNDI, Epistolarum libri novem,
Lipsia in Aedibus B.G. TEVBENERI MCMLVIII, Ep. IX, 7, 4.
da poca carne, per lo più di maiale o di selvaggina, e solo nei giorni di
festa
12
.
Non bisogna in ogni modo dimenticare che la storia di Roma si è
snodata per oltre un millennio e che, dal faticoso lavoro del suolo nasce
l’aspetto frugale dell’alimentazione della prima Repubblica.
Verso il finire del periodo repubblicano, in concomitanza con
l’espandersi dell’Impero, i costumi austeri erano ormai in disuso e la
conquista del mondo asiatico aveva introdotto a Roma, in campo
gastronomico, il virtuosismo e la stravaganza nella presentazione delle
vivande. Il cibo diventò allora raffinatezza, e lo strano, il divertente e il
curioso prevaricarono il semplice gusto del mangiare. La letteratura
latina abbonda di aneddoti sulle crapulonerie dei ricchi romani, e pare
che non fossero esenti da questi vizi neppure gli imperatori come
Vitellio
13
o Domiziano.
La periodica promulgazione di leggi suntuarie, rivolte a contenere le
spese esagerate destinate ai festini e a moderare l’ostentazione di una
magnificenza per molti rovinosa, fanno capire che questi banchetti
12
M. SENTIERI, Cibo cit., passim; M. MONTANARI, La fame, cit., passim.
13
Vitellio era l’imperatore eletto dalle truppe renane il 2 gennaio 69 d.C., in seguito alla
crisi di successione aperta con la morte di Nerone. Fu assassinato entrando a Roma il 20
dicembre dello stesso anno. M.A. LEVI e P. MELONI, Storia Romana. Dalle origini al
476 d.C., Milano, 1986, pp. 319-321.
erano comunque caratteristici di poche persone, il più delle volte nuovi
arricchiti, e affianco a quest’estrema opulenza, agli eccessi di pochi, si
riconosceva comunque la faccia della Roma morigerata celebrata da
molti scrittori con mense frugali.
IL SISTEMA ALIMENTARE NORDICO
Completamente diversi erano i modi di produzione e i valori culturali
delle genti
14
venute dal nord-est. Queste popolazioni, celtiche e
germaniche, nomadi e senza un rapporto duraturo con un determinato
territorio, erano solite percorrere le foreste del cuore dell’Europa.
14
Anche tra le popolazioni che comunemente vengono definite barbare, occorre fare delle
differenze. L’Irlanda era abitata da popolazioni celtiche, che vivevano principalmente
dell’allevamento e della coltivazione dei cereali. Già nel III-IV secolo, queste popolazioni
si erano appropriate, nell’ambito dell’agricoltura, di essenziali novità tecniche usate nella
vicina Britannia. Così il tradizionale aratro ad uncino era stato completato con un coltro di
ferro, che facilitava di molto l’aratura e diventò uno strumento fondamentale che permise
l’aumento della produttività dell’aratura e di conseguenza un visibile aumento
demografico. I Frisoni, i Sassoni, i Turingi e i Longobardi, vivendo invece in una zona
temperata dell’Europa, (tra il Reno e l’Elba) su terreni coperti per lo più da foreste di
latifoglie e di conifere, nel paesaggio boschivo campestre, adattavano alle condizioni locali
il proprio modo di conquistare il cibo. Base della loro esistenza era l’allevamento,
principalmente di bovini, in gran parte anche di suini e soltanto in piccola quota di capre e
pecore. Tra i cereali si coltivavano principalmente l’orzo e il frumento e per l’aratura ci si
serviva dell’aratro a uncino, con un vomere di ferro e alle volte con il coltro. I Goti, gli
Svevi, i Normanni, che occupavano le zone più a nord dell’Europa, vivevano grazie
all’allevamento di bovini, pecore, capre e, in Gotlandia di cavalli. L’agricoltura era
modesta e basata sui cereali. Il tutto era poi completato dalla pesca e dalla caccia di
animali selvatici nelle acque e nelle foreste locali. Gli Slavi (di origine ancora incerta), si
distinguevano invece per l’economia basata sull’agricoltura e l’allevamento. Erano
agricoltori che coltivavano prevalentemente il grano, la segale e il miglio. Presso questo
popolo l’allevamento, la caccia, la pesca e la raccolta dei frutti selvatici occupavano un
posto secondario. I Balti, si occupavano dell’allevamento degli animali e, prima di tutto, di
bovini, di pecore e capre, di cavalli, più raramente di suini. Particolare importanza aveva
anche la coltivazione dei campi: venivano seminati principalmente il frumento, il miglio e
la segale. Nelle zone boschive, la coltivazione di terre bonificate col fuoco, aveva
certamente un ruolo fondamentale. E’ anche attestata la pratica più sofisticata dei due
campi coltivati a rotazione e per l’aratura ci si serviva dell’aratro con vomere di ferro. Le
provviste alimentari erano completate dalla caccia, dalla pesca e dalla raccolta dei frutti di
bosco. Gli Ugrofinni, che occupavano originariamente i terreni che dai Monti Scandinavi
arrivavano agli Urali, vivevano abbondantemente di quello che offriva l’ambiente
boschivo e lacustre, praticando comunque un po’ di agricoltura e allevamento, soprattutto
suino. L. LECIEJEWICZ, Il barbaricum: presupposti dell’evoluzione altomedievale, in
«Storia d’Europa», vol. 3, Torino, 1994, pp. 41-83.
Avevano sviluppato, così, un’abilità, sconosciuta ai romani, atta a
ricavare il maggior utile possibile dallo sfruttamento della natura
vergine e degli spazi incolti
15
.
Tutta la loro economia era di tipo silvo-pastorale, basata sullo
sfruttamento degli spazi incolti e boschivi.
Lungi dall’essere abbandonata a se stessa, la foresta, almeno nelle zone
vicine ai centri abitati, occupava nella mentalità barbara un posto
economico molto importante: i pinastri erano considerati alberi da
frutto, le pine venivano usate per accendere il fuoco e in Provenza si
facevano seccare i semi che servivano come cibo. Queste foreste,
ricche di frutti selvatici, erano particolarmente adatte alla pratica della
caccia, e, in presenza di stagni, anche della pesca. Inoltre non bisogna
dimenticare che questi boschi erano delle riserve di miele, unico
edulcorante del tempo.
Lo spazio boschivo era soprattutto prezioso per il pascolo, in modo
particolare per quello dei maiali, golosi di ghiande
16
.
15
M. MONTANARI, La fame, cit. passim; idem, Alimentazione e cultura nel Medioevo,
Roma- Bari, 1994, pp. 13-21.
16
G. CHERUBINI, Agricoltura e società rurale nel Medioevo, Firenze, 1972, pp. 12-13;
M. MONTANARI, L’alimentazione contadina nell’alto Medioevo, Napoli, 1979, pp. 34-
37; J. L. GAULIN, Tra silvaticus e domesticus: il bosco nella trattatistica medievale, in «Il
bosco nel Medioevo», Bologna, 1990, pp. 83-96; M. SENTIERI, Cibo, cit., p. 107.
Marginale era in questo contesto il ruolo della cerealicoltura, praticata
in modo sporadico e intermittente e destinata alla produzione di birra -
bevanda che qui sostituiva il vino come bevanda fermentata di base -
prima ancora dei farinacei. Una notevole importanza assumevano
invece le coltivazioni orticole praticate nei pressi degli insediamenti:
ciò che si verificava era, insomma, soprattutto un’integrazione fra
risorse dell’incolto e coltivazione intensiva di zone ristrette.
Il sistema alimentare era dunque completamente diverso e prevedeva
una massiccia presenza dei prodotti animali, affiancati da cereali e
soprattutto da ortaggi.
Il quadro non era certo così rigido, ma, le diversità, davvero notevoli,
erano ben note anche ai contemporanei ed erano proposte, non di rado,
come il segno tangibile dell’arretratezza. Scrittori greci e latini
descrivono i costumi di strani popoli che non conoscono l’uso del pane
e del vino
17
.
Ovviamente l’orgoglio della propria identità alimentare era sentito
anche dall’altra parte.
17
“Semplice è il cibo: pomi agresti, selvaggina fresca, cacio; sfamansi senza apparato e
senza leccornie”. C. TACITO, La Germania, in«Opere», Torino, 1968, cap. 23, p. 839.
“Ma quale traviamento è questo fra gli uomini di volersi nutrire con ghiande dopo la
scoperta delle biade?” M. T. CICERONE, Oratore, a cura di E.V. D’Arbela, Milano, senza
data di edizione,(s.d.), p. 77.