5
(1990), il dilagare e la pervasività della logica del mercato, anche nella sfera culturale,
ha determinato l’imporsi della logica della frammentazione e la costituzione di uno
spazio di esposizione dell’arte più simile a quello delle aree industrializzate del tempo
libero che alle precedenti istituzioni museali. Per Crimp, invece, il museo postmoderno
segnala la fine della precedente logica museale di confinamento e di esclusione
dell’arte. Mentre Krauss indica come caratteristica predominante del postmodernismo
la frammentarietà, Crimp ravvisa nell’eterogeneità una sconfessione della pretesa di
stabilire un ordine e una rappresentazione coerente di un qualsiasi insieme di opere
d’arte; si affermano, egli sostiene, il valore della pluralità rispetto a quello
dell’universalità, l’attenzione per l’altro rispetto all’esclusività dell’identico. Tra la
condizione di frammentazione descritta da Krauss e la considerazione di Crimp del
valore dell’eterogeneità, si collocano anche le riflessioni degli altri autori che hanno
contribuito alla riflessione sul postmoderno in relazione all’arte e al museo.
La prospettiva di Clement Greenberg e del suo allievo Michael Fried, a cui sono
affiancabili le riflessioni di Yve-Alain Bois e di Brian O’Doherty, testimoniano la messa
in discussione dell’autonomia dell’opera d’arte in rapporto allo spazio che la circonda.
Dalla crisi della pittura da cavaletto (Greenberg) alla minaccia dell’“oggettualità”
(Fried), dalla tesi di uno “spazio della distrazione e della dimostrazione” (Bois) alla
descrizione del processo di letteralizzazione della superficie pittorica (O’Doherty),
emerge la consapevolezza della fine di una percezione ottica “assorbente”, sostituita
dall’affermarsi delle componenti tattili e teatrali, a cui corrisponde il passaggio dal
moderno al postmoderno. Mentre Fried dimostra di percepire questo processo come
perdita, nella restante critica e teoria dell’arte prevale la riflessione sulle caratteristiche
di paratassi di elementi eterogenei, assenza delle tradizionali cornici e costituzione di
uno spazio da esperire con il corpo e non solo con lo sguardo.
Se, come ha affermato Greenberg, il pittorico si dissolve in tessitura e in accumulazione
di ripetizioni, al posto di cornici di legittimazione e di definizione si affermano, a
margine delle opere d’arte, apparati di commento per la liberazione dei loro molteplici
significati. L’invito di Foucault a considerare il formarsi della conoscenza negli
interstizi delle ripetizioni e dei commentari suggerisce l’ipotesi di un museo
postmoderno come spazio critico e interpretativo: l’estetica di Vattimo permette di
6
sviluppare tale ipotesi leggendo nell’emergere di un tale spazio il luogo privilegiato di
esercizio dell’ermeneutica.
Nell’estetica filosofica vattimiana, il postmoderno segnala innanzitutto la fine di un
unico orizzonte condiviso, l’esplosione della pluralità di Weltanschauungen, l’affermarsi
di una forma di conoscenza simile all’espressione nietzschiana “sapere di sognare e
continuare a sognare” e di una concezione della temporalità non più lineare ed
evolutiva. Il museo postmoderno incoraggia un atteggiamento interpretativo perché
espone opere d’arte da fruire non secondo un ideale di perfezione formale ma a partire
dagli effetti di spaesamento e di shock che generano e che aprono spazi di sviluppo per
il dialogo con il fruitore. Secondo Vattimo, nella “condizione postmoderna” del museo
l’esperienza estetica è essenzialmente un’esperienza plurale
1
e nell’opera d’arte non si
riflette una umanità universale, ma una delle comunità che hanno preso la parola dopo
la dissoluzione delle ideologie, degli imperialismi e soprattutto dopo la
mediatizzazione della vita sociale. Vattimo ha sostenuto che i mass media hanno
contribuito a ridefinire l’esperienza estetica in termini di dialogo con l’opera d’arte
perché hanno permesso la moltiplicazione delle voci narranti, reso labile il confine tra
realtà e immaginazione estetica e costretto al confronto con culture diverse: alle
gerarchie predefinite di valori si è sostituita la molteplicità delle interpretazioni. Il
museo postmoderno dopo aver rinunciato ai metaracconti legittimanti e a una lettura
univoca degli eventi artistici, non può più essere considerato la cornice o il contenitore
a tenuta stagna dell’arte; in opposizione alla conciliazione delle differenze esso
permette l’esperienza straniante, lo spaesamento di un’arte che Vattimo, in La società
trasparente, ha definito oscillante. L’opera d’arte non splende più come monumentum
aere perennius ma mostra la propria temporalità e peribilità: priva dell’aura di una
bellezza assoluta essa è sottoposta al confronto delle interpretazioni. L’apertura
dell’opera a letture molteplici definisce il museo come il luogo nel quale fare
esperienza del carattere eterogeneo che caratterizza l’esistenza postmoderna.
Nell’affermarsi di un modello estetico di esistenza e nella determinazione
dell’esperienza estetica come esperienza della pluralità, il “frequentatore di musei”
rappresenta, secondo Vattimo, la figura paradigmatica della soggettività postmoderna.
1
Cfr G. Vattimo, Oltre l’interpretazione. Il significato dell’ermeneutica per la filosofia, Laterza, Roma, 1994, p. 91
7
Si tratta di un’indicazione significativa, dal momento che la conoscenza del turista si
costituisce durante un’esperienza di “spaesamento”, nel corso di un movimento di
oscillazione, di “andata-e-ritorno” che corrisponde al processo dinamico della
comunicazione e alla percezione distratta o tattile dello spazio. Anche a partire
dall’analisi delle caratteristiche del frequentatore del museo postmoderno riemerge il
valore dialogico dell’esperienza estetica che in esso si svolge: nell’Erfahrung del turista,
l’esperienza estetica si realizza compiutamente come esercizio ermeneutico.
L’analisi dell’architettura museale, infine, permette di cogliere la pluralità delle
prospettive teoriche e delle tipologie costruttive proprie della musealità postmoderna.
La Staatsgalerie di Stoccarda, progettata dagli architetti James Stirling e Michael
Wilford tra il 1977 e il 1983, è ritenuta un esempio emblematico di museo postmoderno
per le sue caratteristiche di apertura verso la città, per le sue funzioni di condensatore
sociale e catalizzatore culturale e per un rapporto con la tradizione fondato sull’uso
ironico delle citazioni di precedenti architetture. È questo il museo postmoderno che
corrisponde alla teoria di Krauss: le sue “rovine colorate” permettono al soggetto di
vivere con euforia una condizione di frammentazione.
Il museo di Castelvecchio a Verona, restaurato e riallestito da Carlo Scarpa tra il 1957 e
il 1964, può essere considerato, invece, la prefigurazione architettonica delle istanze
avanzate da Vattimo. Il rapporto con la tradizione che emerge dal progetto
dell’architetto veneziano è conforme a quello che il filosofo ha attribuito al
postmoderno: Verwindung e pietas caratterizzano il suo “intervenuto chirurgico”.
Scarpa distorce e contemporaneamente si “prende cura” delle tracce tramandate dal
passato e dalle altre culture, operando in tal modo una loro “rammemorazione” in
opposizione all’amnesia del tempo storico che una cieca preservazione dei reperti o il
loro totale rinnovo comporterebbero. Il museo di Castelvecchio può essere considerato
il risultato di un processo di ricerca e interrogazione in quanto aperta al confronto sia
con le diverse epoche storiche, che in modo discontinuo vi si sono sedimentate, sia con
la pluralità dei linguaggi e delle culture artistiche che Scarpa, come un turista, ha
“visitato”. Il senso della luce di Venezia, la leggerezza e raffinatezza dell’architettura
orientale, il cromatismo e i ritmi delle intelaiature mondriane e la sensibilità per i segni
8
di Klee si traducono e rinviano vicendevolmente, si compongono senza annullare le
differenze.
In analogia all’osservazione di Vattimo
2
secondo la quale nell’epoca della
riproducibilità tecnica l’esperienza estetica si avvicina sempre più alla percezione
distratta, si può rintracciare in Scarpa l’operatore descritto da Benjamin in L’opera d’arte
nell’epoca della sua riproducibilità tecnica
3
: egli penetra nel tessuto dei dati e ricompone le
immagini frammentate che ottiene secondo nuove leggi, ottenendo uno spazio che ha
un valore non auratico ma “espositivo”, da percepire in modo tattico, con un effetto
non assorbente ma teatrale. L’opera dell’architetto veneziano può essere descritta,
dunque, come un esempio di spazio ermeneutico anche perché, le stanze di
Castelvecchio sono da scoprire con il corpo e le opere sono sottoposte al test della luce,
dei colori degli ambienti e degli sguardi che, da diverse angolazioni, su di loro si
possono posare.
Il museo di Verona è, infine, uno spazio di dialogo con le opere d’arte in quanto opera
aperta e risultato del disegno di “vie principali e laterali” che il visitatore ha la facoltà di
scegliere e soprattutto interpretare. Nella coesistenza tra il contatto diretto con l’opera e
la fruizione pubblica, tra i percorsi della visita ed il momento della riflessione,
Castelvecchio esemplifica la pluralità delle esperienze dello spazio. Sia il rallentamento
nel tempo di lettura degli ambienti e delle opere sia il gioco di riconoscimenti e
ricomposizioni di percorsi possibili comportano la rottura della logica della continuità
e dell’identità e costituiscono un’alternativa concreta allo spazio chiuso del museo
moderno. Il labor limae che Scarpa ha perseguito nel suo linguaggio ha reso gli spazi
fecondi di segni non consumabili e da investigare.
2
G. Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano, 1999
3
, p. 69
3
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, trad. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino,
1966, pp. 37-38
9
COORDINATE DEL MUSEO POSTMODERNO
A livello teorico, il piano di iscrizione del postmoderno è costituito da due assi, l’uno è
rappresentato dalle tesi di Lyotard sulla “fine dei metaracconti”, l’altro dall’eredità del
messaggio di Nietzsche e di Heidegger sulla “fine della metafisica”, forse il
metaracconto che maggiormente ha determinato il pensiero occidentale, come fine del
pensiero del fondamento, dell’origine e dell’essenza. “Con l’avvento della società
informatizzata, secondo Lyotard, il sapere stesso diventa oggetto di circolazione e i
‘grandi racconti’ dell’età moderna si svuotano progressivamente, perdono coerenza e
peso assiologico”
1
. I gran recit erano la cornice dell’opera d’arte e della cultura, nel
delimitarle le davano forma e significato, le conferivano i tratti della totalità e
dell’unità. Da un lato la crisi del progetto idealistico di un sapere assoluto e quello
illuministico di una ragione emancipatrice segna la perdita di una qualsiasi forma di
legittimazione e l’affermarsi di un atteggiamento di incredulità nei confronti di ogni
posizione “forte”. Dall’altro l’annuncio della morte di Dio e dell’eterno ritorno manda
in frantumi il “centro”, sia l’idea di origine degli storici sia il mito dell’interiorità e
dell’essenza dei metafisici. Si tratta di due movimenti simultanei, di forze distruttive,
l’una centrifuga e l’altra centripeta, dalla cui combinazione deriva la presa di coscienza,
da parte del postmoderno, dell’obsolescenza della modernità.
Il museo contemporaneo può essere considerato “postmoderno” nella misura in cui
non si pone come cornice di un’opera allo scopo di legittimarla, ma come un’istituzione
che ha abbandonato i valori di autenticità e unicità e che si è liberata dall’autorità del
metaracconto della storia dell’arte. La “condizione postmoderna” del museo è
coinvolta in un processo che ha riguardato sia fenomeni economici e sociali sia
cambiamenti nell’ambito della percezione e della conoscenza. Gli autori trattati qui di
seguito hanno privilegiato ciascuno un aspetto del panorama museale, tuttavia il punto
di partenza comune a ogni riflessione è la crisi del modernismo e dello spazio museale
che lo ha rappresentato.
1
M. Ferraris, Tracce. Nichilismo moderno postmoderno, Multhipla, Milano, 1983, pp. 88-89. Il medesimo
autore ho proposto un’interpretazione simile anche in Il Postmoderno e la costruzione del Moderno, in (a cura
di ) G. Mari, Moderno, postmoderno, Soggetto, tempo, sapere nella società attuale, Feltrinelli, Milano, 1988, pp.
118-120
10
1. Lo spazio chiuso del museo moderno
Il sistema di framing del museo moderno emerge dalle osservazioni di Foucault circa il
rapporto di Flaubert e Manet nei confronti, rispettivamente, della biblioteca e del
museo. “Gli innovatori del modernismo in letteratura e in pittura, pur rompendo in un
certo senso con tutte le convenzioni del passato, dovevano ancora collocarsi da qualche
parte storicamente e geograficamente”
2
. Sia la biblioteca sia il museo registravano il
passato nell’esibizione organizzata di prodotti, libri o quadri.
Gli artisti e gli scrittori modernisti concepivano le loro opere come destinate a questi
luoghi, in cui la tradizione non era negata ma valorizzata, proprio per superare i limiti
della loro collocazione spaziale e del loro tempo.
Il museo e la biblioteca sono, secondo Foucault, eterotopie tipiche del XIX secolo, in
quanto luoghi di accumulazione indefinita del tempo secondo la modalità progressiva
e aggregativa del moderno, una disposizione degli eventi lungo una linea di
perfezionamento, di conciliazione e di Aufhebung. “L’idea di accumulare tutto, l’idea di
costituire una sorta di archivio generale, la volontà di racchiudere in un luogo tutti i
tempi, tutte le epoche , tutte le forme, tutti i gusti, l’idea di costituire un luogo di tutti i
tempi che sia a sua volta fuori dal tempo, e inaccessibile al suo morso [...] ebbene, tutto
ciò appartiene alla nostra modernità”
3
.
Il museo era, quindi, uno spazio congeniale al movimento modernista perché
permetteva agli artisti di confrontarsi con le opere del passato e di “superarle” e agli
storici dell’arte la continuità della narrazione sulla base di criteri storico-stilistici.
Proprio l’affermarsi della storia dell’arte come disciplina è stato uno degli elementi che
hanno determinato la scomparsa del museo bric-à-brac
4
e l’imporsi, al suo posto, della
distinzione dei generi e della concorrenza tra le scuole esposte in ordine cronologico –
emblematica è, per esempio, la distinzione tra l’arte veneziana e quella fiorentina, l’una
arte del colore e l’altra del disegno.
2
D. Harvey, La crisi della modernità, trad. it. di M. Viezzi, Net, Milano, 2002, pp. 332-333
3
M. Foucault, Eterotopia, in AA. VV., Eterotopie e luoghi metropolitani, trad. it. di T. Villani e P. Tripodi,
Mimesis, Milano, 1994, p. 18
4
Cfr Y. Bois, Esposizione: estetica della distrazione, spazio della dimostrazione, in “Rivista di estetica”, p. 118
11
Il museo moderno concepisce lo sviluppo dell’arte come se la sua struttura
corrispondesse a quella di un libro: si visita un museo come se si sfogliassero le sue
pagine, una dopo l’altra, di capitolo in capitolo. La “lettura” di un movimento artistico
presuppone quello che lo ha preceduto e, nel ricondurre la complessità a “una storia”,
il rischio è di mettere ai margini della tradizione artisti “non omogenei” - come Vasari
aveva fatto nei confronti di Pontormo -, di privilegiare il centro rispetto alla periferia
5
o
di giudicare artisti del passato sulla base di criteri attuali. Il museo modernista, sulla
base di un “dogmatismo storicista”, preferisce il “didatticamente utile” e confina la
pluralità delle prospettive nei depositi. Secondo Yve-Alain Bois, il principio ordinatore
posto alla base sia dell’Altes Museum, da parte di Carl Friedrich von Rumohr, sia del
Museum of Modern Art, da parte di Alfred Barr, era lo stesso: “si tratta di rendere lineare
uno spazio piano, in quanto l’infilata di sale conferisce la dimensione del tempo alle
opposizioni statiche della tassonomia (siano esse fondate sulla geografia o sulla
pluralità degli stili). In entrambi i casi, l’ordine della sequenza deve essere totalizzante
e creare l’illusione che ciò che è stato escluso dalla serie globale messa in scena
dall’allestimento dell’intera collezione (la serie delle serie) non potrebbe in alcun modo
pretendere di farne parte”
6
.
Questo atteggiamento di esclusione interna era complementare a quello di chiusura
rispetto al mondo esterno, ed è stato proprio quest’ultimo, per Bois, ancor più del
“dogmatismo storicista” a fondare il museo moderno. Secondo questa ipotesi, piuttosto
che da Manet, sarebbe opportuno far iniziare la storia del modernismo e della nozione
di un’arte destinata ai musei da Courbet, il quale affermava come “la pittura
modernista non potesse esistere se non in uno spazio specifico, omogeneo, tale da
escludere qualsiasi intrusione dall’esterno”
7
.
Courbet, che non apparteneva alla schiera dei sostenitori dell’arte per l’arte, tentava in
tal modo di sottrarre l’opera d’arte ai vincoli del mercato. Egli rifiutò persino di esporre
all’interno dell’Esposizione Universale del 1855, perché non voleva che le sue opere
fossero disperse tra le altre, proprio come un oggetto intercambiabile o una merce sul
5
Cfr E. Castelnuovo, C. Ginzburg, Centro e periferia, in Storia dell’arte italiana, parte I, vol I, Torino, Einaudi,
1979
6
Y. Bois, Esposizione: estetica della distrazione, spazio della dimostrazione, cit., p. 119
7
Ivi, p.115
12
mercato. Nell’interpretazione di Bois, mentre per i critici modernisti il museo era il
mausoleo dell’arte, gli artisti lo concepivano come uno spazio protetto cui destinare le
loro opere. La novità può emergere solo in uno spazio distinto, può “essere apprezzata
solo nello spazio della trincea, ovvero lo spazio del museo”
8
; una “trincea” che non
aveva lo scopo di separare l’arte dalla vita ma di salvarla dalla mercificazione.
I risultati non furono, tuttavia, conformi alle intenzioni iniziali. Alla base del museo
moderno, sostiene Bois, vi è la storia dell’arte e il suo tentativo di escludere l’opera dal
contesto per cui era stata realizzata; proponendosi di mettere al riparo l’arte dalla
mercificazione, lo spazio chiuso del museo, in realtà, ne aumentava il valore di
scambio.
Gli ideali dei sostenitori dell’arte per l’arte innescarono gli effetti opposti a quelli
desiderati. Come scrive Adorno, commentando la visione del museo di Valéry: “in
effetti la sua visione personale, l’innalzamento dell’arte a culto delle immagini, tornò a
profitto di quel processo di reificazione e di commercializzazione dell’arte, la cui sede
è, per Valéry, il museo che, come tale, egli mette al bando: soltanto nel museo, dove i
quadri sono offerti alla contemplazione come fine a se stessi, essi divengono così
assoluti come Valéry sognava, ed egli è preso da spavento mortale dinanzi alla
realizzazione del proprio sogno”
9
. Il museo pone Valéry di fronte alla minaccia
dell’opera “pura” da parte della reificazione e dell’indifferenza, al suo esaurimento
nella contemplazione, mentre l’opera “non pura” sopravvive grazie al suo rimandare a
un contesto sociale.
Nella constatazione della feticizzazione dell’oggetto e, più in generale, della
mercificazione dell’arte, Valéry ammutolisce e si dichiara in lutto per la pietrificazione
delle opere d’arte: una reazione che, nel passaggio alla sensibilità postmoderna muta,
secondo Krauss, in euforia.
8
Ivi, p.118
9
T. W. Adorno, Valéry, Proust e il museo, in Prismi, trad. it. di A. Burger Cori, Einaudi, Torino, 1972
2
, p. 186
13
1.1. Rosalind Krauss: la logica culturale del museo tardo capitalista
Ideale continuazione delle riflessioni di Bois
10
è il saggio The Cultural Logic of the Late
Capitalist Museum (1990) di Rosalind Krauss. Il titolo del testo rivela il debito
dell’autrice nei confronti della teoria di Jameson
11
sul postmodernismo, inteso come la
logica del tardo capitalismo, in una prospettiva trasferita all’ambito del museo in base
al principio della pervasività del mercato anche nella sfera culturale.
Di fronte all’alternativa tra una concezione storica e una concezione stilistica del
fenomeno postmoderno, Jameson privilegia la prima perché gli consente un approccio
“critico” e dialettico, guidato dalla lezione marxiana di intendere lo sviluppo e i
cambiamenti storici. Il tardo capitalismo è il terzo momento - preceduto dal
“capitalismo di mercato” e dal monopolio o imperialismo del modernismo - della
periodizzazione tracciata da Mandel, caratterizzato, secondo Jameson, dall’espansione
del capitale in quelle aree che, prima di allora, erano al di fuori del circuito della
mercificazione. Come ha osservato Gaetano Chiurazzi, la sfera culturale, “che
nell’analisi marxista classica era una sfera relativamente autonoma, punto archimedeo
da cui condurre un discorso critico sul mondo capitalistico borghese, viene
disautonomizzata, riassorbita nella sfera totalizzante del capitale e del mercato”
12
;
paradossalmente tutto diventa “culturale” e viene ricondotto sotto il segno
dell’immagine.
Krauss contestualizza e declina questa teoria nell’ambito del museo, sia considerando
gli effetti della mercificazione sulla costituzione della soggettività dei fruitori del
museo, sia individuando nel Minimalismo un momento specifico di passaggio allo
spazialità museale postmoderna, in parallelo all’analisi di Jameson dell’architettura
postmoderna di Portman.
Considerare l’opera come un bene commerciale prima ancora che culturale, verificare
la capacità di pressione del mercato dell’arte sul museo e la sfida posta dai
10
L’originale è stato pubblicato in “Les Cahiers du Musée National d’Art Moderne”, Autunno 1989, n. 29,
pp. 57-79; la prima pubblicazione del saggio di Krauss è dell’anno successivo: in “October”, n. 54 , 1990,
pp. 3-17
11
Krauss precisa che il riferimento è a Postmodernism, or the Cultural Logic if the Late Capitalism, in “New
Left Review”, n. 146, luglio-agosto 1984, pp. 53-93. Il volume di Jameson, che porta il medesimo titolo, sarà
pubblicato successivamente nel 1993
12
G. Chiurazzi, Il postmoderno. Il pensiero nella società della comunicazione, Paravia, Torino, 1999, p. 24
14
procedimenti di produzione di massa nei confronti dell’idea di originale dell’opera
costituiscono infatti, secondo Krauss, motivi che il Minimalismo ha contribuito a
diffondere e che valgono come punti di partenza per una riflessione sulla condizione
attuale del museo.
L’autrice prende le mosse dalle riflessioni di Tony Smith e di Tom Krens, allora
direttore del Guggenheim, sull’inadeguatezza della maggior parte dei musei attuali,
sulla loro predilezione per un discorso basato ancora sulla dimensione diacronica
piuttosto che sincronica. Il museo enciclopedico aveva lo scopo di raccontare una storia
ben definita presentando al visitatore l’ordine delle opere predisposto dalla storia
dell’arte; quello “sincronico” attraverserebbe invece la storia per far vivere
un’esperienza intensa, un vivo piacere estetico non di natura temporale, ma spaziale.
Un modello, questo, sperimentato appunto dalla corrente artistica minimalista.
Fin dalle premesse del saggio l’autrice fa emergere l’interno paradosso di tale
movimento. Da una parte, il soggetto è condotto a fare esperienza della propria
corporeità in opposizione ai processi di astrazione di un’arte moderna senza tempo che
privilegiava il senso della vista. Dall’altra, il Minimalismo si rivela comunque coinvolto
nella logica dei beni di consumo, nella loro serialità, nella dispersione di copie senza
un’originale. Le forme, i materiali venivano scelti per determinare l’immediatezza
dell’esperienza, ma il plexiglass e le geometrie semplici ottenevano come effetto,
secondo Krauss, solo il rinvio alla società industrializzata. Lo stesso avveniva con il
metodo di composizione: la resistenza del Minimalismo nei confronti della tradizione
spinse gli artisti verso l’adozione dell’aggregazione ripetitiva e additiva che, tuttavia,
più che apparire come una forma di contestazione del genio artistico risultava
direttamente connessa alla serialità del sistema dei consumi. Nel tentativo di erodere la
tradizionale nozione di autorità creatrice, il Minimalismo si espose al “mondo della
produzione capitalistica”. La spiegazione di questo paradosso, secondo Krauss, va
rintracciata nelle pagine di Jameson: mentre l’artista potrebbe creare un’utopia
alternativa o di compensazione per una quotidianità determinata
dall’industrializzazione e dalla mercificazione, le suo opere e progetti sono comunque
pre-ordinati dalle caratteristiche strutturali di quella stessa realtà ed egli prepara i suoi
soggetti a occupare un futuro spazio che l’opera d’arte li ha già portati a immaginare.
15
Jameson descrive come l’artista possa pre-ordinare, in modi diversi, questo “spazio che
verrà” confrontando le opere di Andy Warhol e quelle di Van Gogh, dove le prime
rappresentano la completa inversione del gesto utopico delle seconde. I quadri del
pittore olandese sono “un atto di compensazione che finisce per produrre tutto un
nuovo regno utopico dei sensi, o almeno di quel supremo senso – la vista, il visuale,
l’occhio – che ora è ricostruito per noi come uno spazio semiautonomo”
13
, separato
dalla frammentata realtà della divisione del lavoro. Le scarpe della contadina, secondo la
lettura che Heidegger ne dà in L’origine dell’opera d’arte (1936), racchiudono la silenziosa
voce della terra, “è un oggetto che appartiene alla terra e che è protetto nel mondo
della contadina”. L’opera d’arte rivela quella terra tramite la trasformazione di una
forma di materialità, la terra e i suoi oggetti, in un’altra, la pittura ad olio. Con Diamond
Dust Shoes di Andy Warhol viene meno questa materialità che permetteva il gesto
ermeneutico di restituzione dell’oggetto “morto”, in quanto destituito dalla sua
funzione di strumento, al più ampio orizzonte del suo vissuto. L’artista, emblema della
Pop-Art, strappa la superficie esterna e colorata degli oggetti, contaminati già in
partenza dalle lucide immagini della pubblicità, per rivelarne il substrato bianco e nero
del negativo fotografico da cui derivano. Questa è una delle conseguenze della “società
dell’immagine”: “quello che consideriamo il colore nel mondo esterno non è altro che
un’informazione di un programma installato in qualche computer, che ritraduce i dati
e li marca con un’appropriata tinta”
14
, come succede nei rifacimenti di Hollywood dei
film in bianco e nero. Ora il colore reale è quello che si vede nelle fotografie, per questo
molti edifici postmoderni, secondo Jameson, sembrano essere stati costruiti per venire
fotografati. Giunge così a compimento il passaggio alle tavole patinate dei libri
illustrati, che l’autore paragona anche allo scintillio dei CDs e della banda delle carte di
credito. Se il mondo “minaccia di diventare una pelle lucida”, la rappresentazione
dello spazio e quella del corpo diventano sempre più problematiche. Se di fronte alle
statue dell’iperealista Duane Hanson si esita a capire se respirino o meno, allora la
stessa esitazione “tende a tornare rispetto agli esseri viventi che si muovono intorno a
te nel museo per trasformarli, anche solo per un istante, a loro volta in tanti simulacri
13
F. Jameson, Postmodernism or the Cultural Logic of the Late Capitalism, Duke University Press, Durham,
1993, p. 7
14
Ivi, p. 99
16
morti e dai colori sgargianti”
15
. Negando il sistema dell’arte tradizionale e dissolvendo
il primato dell’originale il Minimalismo, secondo Krauss, ha preparato la strada per
l’affermarsi di un soggetto che “galleggia disperso nel labirinto di segni e simulacri del
tardo postmodernismo degli anni ottanta [...] un soggetto che non ha più una propria
percezione ma che è coinvolto nel vertiginoso sforzo di decodificare i segni che
emergono da una profondità non più disegnabile su una mappa né conoscibile”
16
.
Il ruolo del Minimalismo che Krauss delinea nei confronti del museo è parallelo alla
lettura di Jameson nei confronti di quell’architettura che costituisce un hyperspace.
Nell’iperspazio postmoderno l’individuo non riesce a determinare la collocazione del
proprio corpo, a organizzare le percezioni di ciò che lo circonda, non gli è possibile, da
un punto di vista cognitivo, tracciare una mappa del mondo esterno. Ne deriva la
confusione di un ambiente nel quale le cose e le persone non trovano il loro posto, la
condizione di spaesamento – “bewilderment” – di uno spazio “senza-forma”, né massa
né volume, rappresentato dall’architettura di Portman e di Gehry
17
. Quest’ultimo, in
particolare, ottiene “’effetto dell’iperspazio postmoderno” perché, come ha scritto
Macrae-Gibson, “l’occhio umano ha ancora un’importanza critica nel mondo di Gehry,
ma il senso del centro non ha più il suo valore simbolico tradizionale”
18
. L’architetto
canadese mette in scena il disorientamento del soggetto in uno spazio che non può
essere definito come vicino-lontano o familiare-sconosciuto, in uno spazio “non-
situato” come lo sono le camere di una catena internazionale di motels o gli anonimi
terminali aeroportuali
19
. Jameson definisce hysterical sublime il modo in cui il soggetto
vive questa condizione. Mentre per Kant il sublime era l’esperienza dei limiti della
figurazione e dell’incapacità per la mente umana di dare una rappresentazione delle
forze della natura, il sublime postmoderno, per Jameson, va ripensato alla luce
dell’eclissi della natura stessa e può quindi essere adeguatamente teorizzato come
l’incapacità di immaginare, nella sua interezza, la rete globale del “terzo stadio del
capitalismo”, il capitalismo multinazionale.
15
Ivi, p. 34
16
R. Krauss, The Cultural Logic of the Late Capitalist Museum, in AA. VV., October the Second Decade 1986-
1996, The Mit Press, Cambridge, 1997, p. 436
17
F. Jameson, Postmodernism or the Cultural Logic of the Late Capitalism, cit., pp. 38-45, 116
18
Ivi, p. 116
19
Cfr i “non-luoghi” di Marc Augé
17
In questa prospettiva si spiega il valore della revisione del Minimalismo come corrente
che ha indirizzato o persino determinato il nuovo soggetto frammentato e tecnologico.
Krauss cerca di dimostrare che il processo di affermazione della logica del tardo
capitalismo è avvenuto quando il museo stava ripensando il proprio statuto e i propri
presupposti: ciò che prima caratterizzava solo l’ambito della produzione industriale –
meccanizzazione, standardizzazione, parcellizzazione del lavoro – è penetrato in tutti i
settori della vita sociale. La società del consumo, dell’informazione e dei media, per
Krauss, non ha “sublimato” il capitale: “siamo in una forma persino più pura del
capitale nella quale i tratti dell’industria hanno raggiunto gli ambiti (come il
divertimento, lo sport e l’arte) che precedentemente erano da essa separati”
20
. La logica
del tardo capitalismo è quella di una “industrializzazione generale universalizzata”
che causa l’esperienza di uno spazio reificato nel museo e la considerazione dell’opera
d’arte come merce. Il museo postmoderno cui si riferisce Krauss corrisponde dunque al
museo “industrializzato”, un’istituzione molto più simile alle aree industrializzate del
tempo libero – come Disneyland – che alle precedenti istituzioni museali, sempre più
coinvolto nel mercato di massa piuttosto che in quello dell’arte. Il museo
industrializzato è il luogo dell’esperienza di segni privi di referente e, conclude Krauss,
ha bisogno di un “soggetto che faccia esperienza della propria frammentazione come
euforia”, del soggetto il cui campo d’esperienza non sia più la storia, ma lo spazio
stesso.
L’approccio di Krauss assume, come punto di partenza della sua argomentazione, la
struttura economica della cultura postmoderna. Dal confronto con altre interpretazioni
che non presuppongono un’equivalenza tra postmoderno e “tardo capitalismo” vi è la
possibilità di rilevare differenti sviluppi di tre temi che Krauss ha trattato nella sua
argomentazione: la relazione tra opera d’arte e merce; la serialità come modalità di
ordinare gli oggetti nell’epoca post-industriale e il ruolo del Minimalismo
nell’affermarsi di un soggetto che nell’esperienza estetica vive con euforia la propria
frammentarietà.
Secondo Krauss, l’opera d’arte nel museo diventa merce a causa della separazione dal
suo contesto originario e della sua immissione nel circuito del mercato; per Krizstof
20
R. Krauss, The Cultural Logic of the Late Capitalist Museum, cit., p. 438
18
Pomian, invece, tale distacco determina il suo valore di “semioforo”
21
: un oggetto
diviene “portatore di significato” perché, nel perdere la sua utilità, assume una pura
funzione semantica. I due tratti caratteristici di un semioforo sono quello di offrirsi allo
sguardo e quello di essere intermediario tra il visibile e l’invisibile, ponte tra lo
spettatore e il nascosto, il lontano o l’assente. “Sia l’utilità sia il significato
presuppongono un osservatore, non essendo altro che dei rapporti tenuti da individui
o gruppi per il tramite degli oggetti, con i loro ambienti visibili o invisibili”. Tuttavia, a
differenza dell’oggetto quotidiano che si realizza nel suo consumo, il semioforo svela il
suo significato soltanto quando è esposto allo sguardo, quando diventa, quindi, un
pezzo da collezione.
L’invisibile è tale in diverse accezioni: perché collocato in un tempo o in un luogo
diverso da quello attuale e presente, perché di durata limitata o perché sfuggente alla
nostra conoscenza. In questo modo si spiega come, a seconda degli atteggiamenti che i
vari periodi storici hanno avuto nei confronti dell’invisibile, si siano affermate le
collezioni di diverse classi di semiofori, tra cui quelle di antichità, di oggetti esotici
riportati da viaggi, di quadri e, più in generale, di opere d’arte moderna o di strumenti
scientifici. Gli oggetti dell’antichità, non più considerati reliquie o mirabilia, da “scarti”
diventano semiofori perché il loro studio permette, ad esempio, la comprensione dei
testi antichi. Le collezioni di oggetti esotici del Seicento hanno reso visibile in occidente
un mondo prima non conosciuto, vicino un mondo prima lontano. La collezione di
quadri nasce, invece, per il potere riconosciuto all’arte di rendere visibile la Bellezza, di
trasformare il transitorio nel durevole. Gli strumenti scientifici, infine, possono essere
considerati intermediari nel senso che, con il linguaggio della teoria matematica, a
partire da ciò che non si vede, permettono di giungere a conclusioni infallibili su ciò
che non si può vedere. In tutti questi casi, l’oggetto ha perso il suo originale valore
d’uso per acquisirne uno di scambio, scambio di un tempo passato, di un luogo
lontano o di un sapere non immediatamente accessibile. L’oggetto, liberato dal suo uso,
espone e rende visibile il suo significato, perso il suo statuto di “strumento” assume
quello, più fecondo, di opera d’arte che si dispiega nel tessuto della sua Wirkung,
ricezione e interpretazione.
21
Cfr K. Pomian, Collezione, in Enciclopedia Einaudi, vol. III, pp. 330-364