CAPITOLO PRIMO
Si evidenziano i cambiamenti dello scenario competitivo degli ultimi anni. Per
comprendere il significato del concetto di capitale intellettuale e le ragioni per le quali
lo si considera risorsa strategica, è necessario capire, infatti, le dimensioni dell’era della
conoscenza nella quale le fonti di reddito sono sia i beni tangibili sia quelli immateriali.
Le persone sono considerate “investimenti” anziché costi per l’azienda e i rapporti con
la clientela sono di interazione.
Per questa ragione la capacità di sopravvivenza di tutte le organizzazioni dipenderà
dall’abilità del management di focalizzarsi su “ciò che è veramente importante” per il
mantenimento del vantaggio competitivo: il capitale intellettuale.
Del concetto in questione non esiste una definizione univoca: la sua concezione varia da
azienda in azienda, da un settore all’altro, perciò negli ultimi anni ci sono state diversi
studiosi che lo hanno definito ed analizzato nelle sue parti.
Le definizioni di intellectual capital proposte dai diversi ricercatori in materia, quali
Patrick Sullivan, Verna Allee, Leif Edvinsson, Karl-Erik Sveiby, Nick Bontis, Thomas
Stewart, Hubert Saint-Onge, Goran Roos, Franco D’Egidio, non sono molto differenti
tra loro e convergono sulla convinzione comune che vede il capitale intellettuale come
la seconda determinante, accanto alla dimensione economica-finanziaria e materiale
tradizionale, del valore totale dell’impresa. Il capitale intellettuale viene suddiviso in tre
dimensioni, quella umana, quella relazionale e quella strutturale.
In particolare modo, all’interno del capitolo, si approfondiscono le definizioni proposte
da Thomas Stewart, Leif Edvinsson e Franco D’Egidio.
Una volta puntualizzato l’oggetto dell’indagine, si introducono le ragioni che
dovrebbero spingere il management delle aziende a valorizzare e misurare il capitale
intellettuale.
Un concetto complementare a quello di capitale intellettuale è il knowledge
management.
Nelle organizzazioni, si parla di Knowledge Management per indicare quelle attività
volte a gestire la conoscenza esplicita, tacita e creabile identificando, gestendo e
valorizzando quello che l'organizzazione sa o potrebbe sapere: skill ed esperienze delle
persone, archivi, documenti e biblioteche, relazioni con i clienti, coi fornitori, e altri
materiali archiviati in database elettronici.
CAPITOLO SECONDO
L’evoluzione verso un’economia della conoscenza ha attirato l’attenzione di aziende e
studiosi i quali si sono interrogati sulla natura del capitale intellettuale pensando ad
opportuni strumenti in grado di misurane il valore.
Gli approcci tradizionali alla contabilità non sembrano offrire un adeguato supporto in
quanto incapaci di prendere in considerazione quei fattori intangibili che determinano in
modo rilevante il valore di un’azienda e le sue prospettive di crescita future.
Per riuscire a realizzare un sistema di misurazione valido, le aziende devono cambiare le
logiche di fondo che caratterizzano gli attuali sistemi di misurazione delle performance
e considerare indicatori non solo economico-finanziari, ma un sistema di indicatori
fisico-tecnici; ricercare un maggiore orientamento all’esterno (al cliente e al mercato) e
considerare che le risorse intangibili devono trovare un’adeguata valorizzazione.
In tal senso sono stati proposti da un lato modelli di valutazione diretta del capitale
intellettuale volti ad individuarne le componenti fondamentali e il loro impatto nei
diversi ambiti dell’organizzazione, dall’altro strumenti di valutazione di carattere
economico-finanziario che attribuiscono un valore totale all’azienda inteso come
somma del valore degli asset tangibili e intangibili
Mentre i primi puntano sulla connotazione qualitativa del capitale intellettuale, i secondi
ne offrono una valutazione quantitativa, di carattere monetario.
Tra i metodi di valutazione che rientrano nella prima categoria vengo analizzati il
“Technology Broker” di Annie Brooking; Il “Value Explorer™” di Andriessen.
Nella categoria dei metodi economico-finanziari rientrano, invece, il Market-to-Book
Value; la Tobin’s Q, l’EVA™; il Calculated Intangible Value; il Knowledge Capital
Earnings; gli approcci del costo, economico e di mercato.
Ma questi metodi rappresentano un valido supporto alle decisioni del manager dell’era
della conoscenza?
In effetti sia i metodi economico-finanziari, sia quelli diretti, presentano alcuni limiti.
Accanto a questi strumenti ne sono stati pensati altri che, in un certo senso, combinano
queste due caratteristiche attraverso una valutazione multidimensionale (di carattere
economico-finanziario e non) del capitale intellettuale che rende potenzialmente più
agevole il loro processo di gestione.
Si tratta delle metodologie “a punteggio” che scompongono il capitale intellettuale nelle
sue componenti principali (capitale umano, relazionale e strutturale) individuando una
serie di indicatori significativi, utili a misurare le performance dell’intangibile.
Possono essere facilmente applicati ad ogni livello dell’organizzazione riuscendo a
determinare una misura più dettagliata alla base di un sistema di reporting
multidimensionale e coerente con sia le caratteristiche particolari dell’impresa sia con le
circostanze del settore in cui si opera. Di conseguenza la possibilità di confrontare, con
altre società sia del settore sia estranee, i metodi utilizzati e i risultati ottenuti diventa
molto difficile e poco utilizzato.
Rientrano in questa categoria la Balanced scorecard, l’Intangible asset monitor, lo
Skandia Navigator™, il Value Chain Scoreboard™ e l’ Intellectual capital- index ™.
CAPITOLO TERZO
La parte restante del lavoro si focalizza sull’analisi delle tre metodologie di valutazione
del capitale intellettuale a punteggio: la balanced scorecard, lo Skandia Navigator e
l’Intangible Asset Monitor.
Il capitolo in questione contiene un’analisi la balanced scorecard, proposta da Kaplan e
Norton, come metodo “a punteggio” per la valutazione del capitale intellettuale. La
Balanced Scorecard si pone come risposta all’esigenza di collegamento tra obiettivi di
breve e lungo termine, tra programmazione e strategia. L’azienda non costruisce più il
proprio sistema di controllo attorno a misure finanziarie correlate al raggiungimento
esclusivo di obiettivi di breve termine ma lo crea considerando anche indicatori di
performance legati ad obiettivi di lungo termine quali la soddisfazione del cliente, il
miglioramento dei processi e l’apprendimento continuo. La costruzione di una Balanced
Scorecard parte dunque dall’individuazione di alcuni obiettivi fondamentali dal punto
di vista strategico, ai quali è collegato un numero esiguo di indici di misurazione che
focalizzano l’attenzione dei manager sulle variabili più critiche.
La Balanced Scorecard si articola su quattro prospettive: economico-finanziaria, clienti,
processi e apprendimento e sviluppo.
Una volta individuate ed analizzate le quattro prospettive che compongono la Balanced
Scorecard, è opportuno chiedersi quali siano le variabili che ne determinano il successo
e quali i principi guida necessari a costruire un sistema di misurazione che non
raggruppi semplicemente quattro tipologie di indicatori ma sia in grado di generare
l’allineamento strategico attraverso una serie di misure monetarie e non, tra loro
integrate.
Lo scopo della realizzazione di una Balanced Scorecard non deve essere quello di
mettere a punto una nuova serie di misure.
La misura rappresenta solo il modo in cui si definiscono risultati e obiettivi e deve
essere intesa come uno strumento potente di motivazione e valutazione alla base di un
nuovo sistema di management
L’obiettivo di tradurre la strategia in azione non può essere raggiunto se non si tiene
conto del ruolo essenziale che l’Information and Communication Technology gioca
nella realizzazione, nel mantenimento e nello sviluppo della Balanced Scorecard.
Progettare il sistema informativo per supportare la realizzazione della balanced
scorecard significa compiere importanti scelte architetturali e tecnologiche che
influenzeranno la struttura informativa attuale e prospettica.
Aspetto importante è approfondire e analizzare l’impiego della Balanced Scorecard per
la valutazione del capitale intellettuale.
Sebbene la Balanced Scorecard sia uno strumento valido per aumentare l’interesse e la
sensibilizzazione del management sugli aspetti relativi alla dimensione dell’intangibile e
abbia riscosso un buon successo, essa risulta adeguata per far fronte alle esigenze di
valutazione del capitale intellettuale?
CAPITOLO QUARTO
In questa parte del lavoro si approfondisce lo Skandia Navigator, altro metodo di
misurazione del capitale intellettuale a punteggio, creato da Skandia AFS, società di
assicurazione del gruppo svedese AB Skandia.
Skandia considera la valutazione del proprio capitale intellettuale estremamente
importante attribuendo ad esso il ruolo di elemento di supporto alla creazione di valore
nel tempo che consente di gestire e guidare l’organizzazione verso il futuro evidenziano
e rendendo ben visibile le relazioni che esistono tra gli intangibile asset, la crescita e la
capacità di competere dell’azienda.
Lo strumento si basa su cinque categorie: focus finanziario, focus sul cliente, focus sui
processi, focus sull’innovazione e sviluppo e focus sul capitale umano.
All’interno dello Skandia Navigator, il focus sul capitale umano copre un ruolo di
particolare importanza perché rappresenta il punto di incontro delle altre quattro.
Il merito principale del Navigator consiste nell’avere individuato un sistema di
parametri o indicatori coerenti e strettamente connessi al processo di creazione di
valore. La valutazione del capitale intellettuale non può prescindere dalla politica
aziendale: lo Skandia Navigator è nato, infatti, allo scopo di agevolare la gestione di
quelle risorse ritenute critiche dal punto di vista strategico.
Per questa ragione il primo passo per costruire il navigatore consiste proprio nella
traduzione in prima battuta della vision, poi è necessario fissare gli obiettivi strategici in
relazione a ciascuna prospettiva, successivamente si analizzeranno i fattori critici di
successo che sono alla base del processo per il raggiungimento degli obiettivi definiti,
per poi stabilire gli indicatori necessari ad un loro monitoraggio.
L’ultima fase consiste nella determinazione delle attività necessarie al raggiungimento
dei valori definiti dagli indicatori fissando un piano di lavoro
Le strategie e gli obiettivi definiti dalla corporate sono in linea con quelle definite da
ogni singola divisione appartenente al gruppo. Ogni dipendente, tuttavia, viene
coinvolto nell’attività di pianificazione strategica affinché sia indirizzato e motivato
sulle azioni da compiere per il raggiungimento degli obiettivi prefissati.
Dal 1995 Skandia pubblica, in aggiunta al bilancio d’esercizio, un supplemento
sull’intellectual capital lo Skandia navigator .
Il management di Skandia attraverso la misurazione e la sua successiva pubblicazione,
dello Skandia Navigator, vuole fornire indicazioni riguardo al capitale intellettuale, sia
potenziale che effettivo, dell’azienda al mercato finanziario e provvedere ad un valido
supporto per il processo di condivisione della conoscenza attraverso la misurazione
dell’intellectual capital.
I valori individuati dal sistema di misurazione dei beni intangibili non riescono a
rappresentare, da soli, l’effettiva dimensione del capitale intellettuale. Le cifre, infatti,
sono importanti ma perdono di valore se non lette alla luce dell’analisi della strategia e
della vision aziendale.
La direzione capitale intellettuale, infatti, sceglie, in collaborazione con la direzione di
ogni azienda che si vuole monitorare, gli indicatori più significativi tra i possibili in
modo tale da adattarsi alle singole caratteristiche delle diverse unità di business.
Per capire come è strutturato il modello dello Skandia Navigator, sono riportati gli
alcuni esempi pubblicati dalla stessa società.
CAPITOLO QUINTO
L’ultimo capitolo analizza l’Intangible Asset Monitor, metodo a punteggio per la
valutazione del capitale intellettuale il cui fondamento sono gli individui, considerati gli
unici generatori di profitto all’interno dell’organizzazione.
Il metodo prevede una suddivisione delle risorse intangibili in tre categorie: “struttura
interna”, “struttura esterna” e “ competenze individuali”. Tale impostazione richiama le
dimensioni del capitale intellettuale quali il capitale strutturale, relazionale e umano.
All’interno di ciascuna prospettiva, quindi, sono previste tre classi di indicatori, quelli di
crescita/sviluppo, di stabilità e di efficienza.
Alcune aziende hanno realizzato il modello proposto da Sveiby per la valorizzazione e il
monitoraggio del proprio capitale intellettuale
Ne è un esempio Celemi, una società svedese specializzata nella realizzazione e nella
vendita di strumenti formativi.
Dal 1995 la società misura il capitale intellettuale utilizzando l’Intangible asset
monitor.
Nel capitolo verranno analizzate le diverse pubblicazioni fino al 2000.
La struttura del lavoro è illustrata nella figura seguente:
- Misurazione del capitale intellettuale
- Metodi diretti ed economico-finanziari, loro
idoneità alla misurazione.
- Studiare i metodi a punteggio per oltrepassare i
limiti delle precedenti metodologie.
- Lo Skandia Navigator
- L’Intangible Asset Monitor
- La balanced scorecard di
Kaplan e Norton
- Caratteristiche dell’era della conoscenza e del
ruolo essenziale svolto dal capitale intellettuale.
- Dimensioni del capitale intellettuale e relative
definizioni in materia.
CAPITOLO
TERZO
CAPITOLO
QUARTO
CAPITOLO
QUINTO
CAPITOLO
SECONDO
CAPITOLO
PRIMO
CAPITOLO PRIMO
DEFINIZIONE DI CAPITALE INTELLETTUALE E SUA
IMPORTANZA STRATEGICA
SOMMARIO: 1. INTRODUZIONE 2. L’IMPORTANZA DEL CAPITALE INTELLETTUALE NELL’ERA DELLA
CONOSCENZA - 2.1 Introduzione - 2.2 Perché misurare il capitale intellettuale - 2.3 Le immobilizzazioni immateriali nella
prassi contabile vigente - 2.4 Origini ed evoluzione del capitale intellettuale
3.DEFINIZIONI DI CAPITALE INTELLETTUALE – 3.1 L’approccio di Leif Edvinsson - 3.2 Il capitale intellettuale secondo
Thomas A. Stewart - 3.3 La definizione di Franco D’Egidio - 3.4 Capitale intellettuale: definizioni a confronto - 4.CAPITALE
INTELLETTUALE E GESTIONE DELLA CONOSCENZA, QUALI RELAZIONI? - 4.1 Aspetti principali del Knowledge
Management - 4.2 Relazioni tra capitale intellettuale e gestione della conoscenza. 5. IL VALORE CREATO DAL CAPITALE
INTELLETTUALE.
1. INTRODUZIONE
Nella consapevolezza della crescente rilevanza dei beni immateriali nell’economia
attuale, il presente capitolo contiene un’analisi del fenomeno “conoscenza” e del
concetto di capitale intellettuale.
Le definizioni di intellectual capital proposte dai diversi ricercatori in materia, quali
Patrick Sullivan, Verna Allee, Leif Edvinsson, Karl-Erik Sveiby, Nick Bontis, Thomas
Stewart, Hubert Saint-Onge, Goran Roos, Franco D’Egidio, hanno analizzato il
concetto di capitale intellettuale dandone delle definizioni non molto differenti tra loro
e che convergono sulla concezione comune che vede il capitale intellettuale come la
seconda determinante, accanto alla dimensione economica-finanziaria e materiale
tradizionale, del valore totale dell’impresa.
Un concetto complementare a quello di capitale intellettuale è il knowledge
management.
Alla luce dell’importanza dell’aspetto immateriale, pare opportune cercare i sistemi di
misurazione più adatti a cogliere il valore dell’intellectual capital, favorendone la
gestione.
I sistemi tradizionali, incentrati soprattutto sul concetto di immobilizzazione
immateriali, offrono una visione parziale del fenomeno, che dovrà essere ampliata con
approcci più innovativi.
2. IL CAPITALE INTELLETTUALE NELL’ERA DELLA CONOSCENZA
2.1 Introduzione
Il sapere è sempre stato essenziale per l’umanità: l’uomo moderno è Homo sapiens,
individuo che pensa. Per tutta la storia i vincenti sono stati coloro in grado di sfruttare
al meglio nuove conoscenze: i guerrieri primitivi che impararono a fabbricare armi in
ferro ebbero la meglio sui nemici armati di bronzo.
Oggi il sapere è più importante che mai poiché ci si trova in una fase di rivoluzione
economica che conduce in una nuova era.
Per capire il significato del concetto di capitale intellettuale, e le ragioni per le quali
esso è considerato una risorsa strategica da individuare e valorizzare nel tempo, è
necessario capire che si è giunti nell’era della conoscenza
1
(Figura 1.1).
FIGURA 1.1 Dall’era agricola all’era della conoscenza
1
“ Il bilancio dell’intangibile. Per determinare il valore futuro dell’impresa” Franco D’Egidio 2001
Era agricola
Era dell’informazione
Era della conoscenza
Era industriale
1800 Anni ‘80 Anni ‘90
Dall’era agricola, dove la fonte di ricchezza era la terra, si è passati all’era industriale
in cui il capitale e le materie prime erano le risorse principali. In seguito si è entrati
nell’era dell’informazione le cui fondamentali fonti di ricchezza erano costituite dal
sapere e dalla comunicazione, anziché dalle risorse naturali e dal lavoro fisico.
La disponibilità d’informazioni ha sempre avuto un ruolo fondamentale nella creazione
di ricchezza e tutte le organizzazioni hanno speso molte risorse per raccogliere le
informazioni necessarie alla propria sopravvivenza ed al proprio sviluppo.
Tuttavia, la tecnologia odierna offre la possibilità di raccogliere in tempo reale ed
archiviare migliaia di miliardi di bytes. La “digitalizzazione” d’informazioni di tipo
diverso (testi, immagini, suoni, filmati…) ha permesso che il flusso informativo a
disposizione delle aziende aumentasse in maniera vorticosa. Questo sviluppo ha portato
ad una situazione d’eccesso d’informazione dove il valore economico della stessa, non
più fattore scarso, sta diminuendo. Diventa, quindi, importante non l’informazione in
quanto tale, ma la capacità di utilizzarla adeguatamente. Per questo motivo è la
conoscenza, ovvero la capacità di utilizzare un’informazione al fine di prendere una
corretta decisione, ad offrire un vantaggio competitivo ad un’organizzazione piuttosto
che ad un’altra.
L’informazione negli anni passati serviva per essere più efficienti. Oggi questa
situazione si è evoluta, quello che avviene in continuazione è la compravendita di
conoscenza. In ogni prodotto o servizio venduto c’è una percentuale in costante
aumento di conoscenza. Per esempio, un quintale di granoturco “ingloba” un 75% di
conoscenza, un barile di petrolio circa il 50%
2
.
E’ quindi cambiato il modo “industriale” di guardare il mondo per il semplice motivo
che ormai viviamo in una realtà in cui i servizi costituiscono più dei 2/3 del PIL.
Il passaggio dalla “prospettiva industriale” alla “prospettiva della conoscenza”, che
individua le organizzazioni basate sulla conoscenza
3
, impone un cambio di mentalità
2
“Your company’s most valuable asset: intellectual capital”, Fortune, October 1994.
3
Il concetto di organizzazione basata sulla conoscenza è utilizzato da Sveiby in “Rafforzate la
Conoscenza - fate che la vostra organizzazione sia Centrata sulla Conoscenza” 2000 articolo disponibile
su www.sveiby.com.au (visitato in ottobre 2001)
paragonabile a quello che fu necessario per passare dalla visione tolemaica a quella
eliocentrica.
Nella tabella 1.1 è possibile vedere le differenze sostanziali tra le due diverse
prospettive, in particolare, si può notare come si siano modificati tutti i presupposti
attraverso i quali si era abituati pensare, in sostanza sono cambiate le basi della società:
TABELLA 1.1 L’era industriale e quella della conoscenza.
PROSPETTIVA
INDUSTRIALE
PROSPETTIVA DELLA
CONOSCENZA
PERSONE Fonte di costi Fonte di ricavi
FONTE DI REDDITO Beni tangibili Beni intangibili e tangibili
PROCESSO
PRODUTTIVO
Operai processano le
materie prime per creare
prodotti tangibili
Lavoratori della conoscenza
che convertono conoscenza
in prodotti intangibili
FLUSSO DELLA
PRODUZIONE
Guidato dalle macchine Guidato dalle idee, molto
destrutturato
LIMITAZIONI ALLA
PRODUZIONE
Capitale finanziario e
capacità umane
Tempo e conoscenza
CONOSCENZA Una risorsa tra le altre
Il focus del business
INFORMAZIONE Strumento di controllo Risorsa e strumento di
comunicazione
FLUSSO
INFORMATIVO
Attraverso la struttura
gerarchica
Attraverso network
collegiali
RELAZIONI CON LA
CLIENTELA
Unidirezionali attraverso il
mercato
Interattive attraverso reti di
relazioni personali
LOTTA PER IL
POTERE
Operai contro i capitalisti Lavoratori della conoscenza
contro i manager
POTERE DEL
MANAGEMENT
In relazione al livello
gerarchico ricoperto nella
gerarchia
In base al livello di
conoscienza
VALORE DI
MERCATO DELLE
AZIONI
Influenzato dalle risorse
tangibili
“Guidato” dagli intangibles
PRINCIPIO
ECONOMICO GUIDA
Ricavi decrescenti Ricavi sia decrescenti che
crescenti
FONTE: Rielaborazione propria da “The New Organizational Wealth” Karl Erik Sveiby.
Berrett-Koehler Publishers, Inc 1997
Le principali fonti di reddito non sono più i beni tangibili, bensì quelli intangibili
(conoscenza, apprendimento, nuove idee, nuovi clienti…).
Nel 1982 il 35% del valore di un’impresa era collegato ai beni intangibili mentre il
restante 65% erano beni tangibili. Nel 2000 le percentuali si sono capovolte: i beni
intangibili di una società rappresentano l’85%.
General Motors (azienda che rientra nella categoria ”beni pesanti”) ha un fatturato di
161 milioni di dollari americani con un valore di mercato pari a 44 milioni di dollari.
Microsoft (che fa riferimento alla categoria “beni pensanti”) ha un fatturato di 15
milioni di dollari contro un valore di mercato uguale a 407 milioni di dollari
4
.
Questi dati ci fanno capire che siamo in una nuova era.
La produzione non consiste solo nella trasformazione delle materie prime in prodotti
finiti e servizi, ma è soprattutto condotta da coloro che convertono la conoscenza per
creare le strutture intangibili. Di conseguenza la produzione si manifesta non più
soltanto attraverso attività e prodotti tangibili ma in misura maggiore con attività e
prodotti intangibili (concetti, idee, software...).
I flussi della produzione sono guidati non dalle macchine con procedimenti sequenziali
ma dalle idee, dai processi cognitivi a volte caotici.
Il personale non è più considerato una fonte di costo ma una fonte strategica di reddito,
una risorsa da valorizzare nel tempo, la “lotta di potere” non si svolge più tra gli operai
e i “padroni” capitalisti, ma riguarda il rapporto tra i lavoratori della conoscenza e i
manager.
5
In questo nuovo contesto il compito del management cambia, non è più quello di
supervisionare i subordinati. Le classiche teorie manageriali partono dall’assunto che i
leader prendono le decisioni e il gruppo le esegue, che siano sempre meglio informati
rispetto allo staff subordinato, o lo possono facilmente diventarlo, perché essi
controllano il flusso delle informazioni. Inoltre il loro potere è direttamente
proporzionale al ruolo gerarchico che ricoprono.
Queste teorie nell’era della conoscenza non sono più valide: gli staff hanno una
migliore percezione del mercato perché sono direttamente a contatto con la clientela, si
4
D’Egidio op. cit. , 2001
da più valore all’approvazione da parte della comunità professionale piuttosto che a
quella dei propri capi. Il flusso delle informazioni non è più scarso e quindi la bilancia
del potere si è spostata verso coloro che trasformano le informazioni in conoscenza,
quindi l’informazione da mezzo di controllo diventa uno strumento di comunicazione e
risorsa.
La conoscenza da semplice “risorsa” diventa il focus dell’azienda.
Nelle organizzazioni basate sulla conoscenza i flussi del sapere sono importanti come
quelli finanziari. I manager non gestiscono più le persone e nemmeno la conoscenza,
ma lo spazio in cui essa viene creata, tale spazio è sia la cultura sia l’ambiente fisico di
lavoro. Il ruolo principale del manager orientati alla conoscenza è quello di supportare
i colleghi perché diventa essenziale condividere la conoscenza in quanto, al contrario
dei beni materiali, cresce quando è condivisa
6
.
Il mantenere per sé conoscenze e informazioni per far carriera è fortemente
disincentivato.
L'organizzazione centrata sulla conoscenza non sceglierà più i suoi clienti
focalizzandosi soltanto sul volume del fatturato, ma li valuterà secondo il loro apporto
totale alle entrate, sia in termini materiali che immateriali (ad esempio, si valuta
un’azienda positivamente se le “lamentele” sono costruttive e permettono di migliorare
i processi, oppure se l’azienda cliente è leader in un dato settore può aumentare
l’immagine dell’azienda). Di conseguenza, le relazioni con la clientela non sono più a
senso unico, ora si instaura un rapporto interattivo di lungo periodo. Si cerca, quindi, di
ottenere maggiori indicazioni sui prodotti o sui servizi elargiti per realizzare continui
miglioramenti, lo scopo finale che la conoscenza circoli in entrambe le direzioni
I valori azionari sono influenzati sia dagli assets tangibili ma soprattutto dalle risorse
intangibili.
La teoria dei rendimenti decrescenti non è più univoca. In qualsiasi attività produttiva
si arriva a un punto in cui ogni successivo investimento risulterà meno produttivo
5
“Benvenuti nell’Organizzazione basata sulla conoscenza” Karl-Erik Sveiby 1 Febbraio 1999.
(Disponibile sul sito: http://www.sveiby.com/articles/K-era_it.htm)
6
Uno studio condotto da Conference Board nel 2000 su 158 multinazionali ha dimostrato che le
politiche volte a incoraggiare la condivisione della conoscenza favoriscono la riduzione dei costi e il
miglioramento delle performance. Ad esempio BP Amoco e la società automobilistica Ford hanno
risparmiato più di 600 milioni di dollari attraverso i loro programmi di Knowledge management.
rispetto a quello precedente. Il comportamento nell’economia della conoscenza è
invece caratterizzato soprattutto da rendimenti crescenti. Per capirne l’importanza, il
tipico esempio è dato dalle società che operano nel settore dei software. Queste
imprese sono caratterizzate da forti investimenti in ricerca e sviluppo, tuttavia i costi
unitari di produzione diminuiscono quando il prodotto entra in commercio. Inoltre la
diffusione crescente del prodotto porta ad un aumento dei ricavi. Tutto questo
contraddice il principio classico secondo il quale esiste una riduzione del profitto
unitario all’aumentare della produzione
7
.
Dagli anni Novanta si è entrati, dunque, nell’era della conoscenza in cui la principale
fonte di ricchezza è il sapere e sono gli individui che lo controllano che avranno
successo. A tale proposito Peter Drucker
8
afferma che la conoscenza è diventata “la”
piuttuosto che “una” risorsa, quindi diventa importante riuscire a sfruttarla al meglio.
Per riuscire in questa impresa è essenziale analizzarla e conoscerla bene.
Infatti è bene comprendere la distinzione tra dati, informazioni e conoscenza
9
.
I dati sono dei fatti oggettivi che descrivono delle situazioni o degli eventi senza darne
alcuna interpretazione degli stessi. Le informazioni danno invece un senso ai dati, ne
determinano la rilevanza e lo scopo fornendo così una base per potere capire
determinate azioni. La conoscenza, invece, è un qualcosa in più, comprende anche il
contributo umano e ha come esito un valore creato molto più ampio. Può essere
definita come “un misto di esperienza, valori, informazioni contestuali e giudizio degli
esperti che fornisce un quadro all’interno del quale valutare e incorporare nuove
esperienze ed informazioni. Ha origine ed è applicata nella testa delle persone. Nelle
organizzazioni, spesso è contenuta non solo nei documenti o nei database ma anche
nelle routine, nei processi, nelle pratiche, nelle forme”
10
La conoscenza può essere sia esplicita sia tacita (Figura 1.2).
7
Karl-Erik Sveiby 1 Febbraio 1999. op. cit.
8
“Le sfide di management del XXI secolo” Peter F. Drucker 1999.
9
“Il knowledge management: approcci, soluzioni ,casi” Roberta Morici. Sistemi & impresa n. 2, Marzo
2000.
10
“Working knowledge: how organizations manage what they know.” Davenport, Thomas H., Boston,
Mass: Harvard Business School Press, 1998.
Quella esplicita viene trasmessa in forme definite e organizzate in quanto può essere
espressa in parole e numeri e distribuita sotto forma di dati, formule scientifiche,
descrizioni dei prodotti, manuali, principi fondamentali e così via.
La conoscenza tacita è altamente personale e difficile da delineare, il che rende
difficoltoso riuscire a comunicarla e a condividerla. Percezioni soggettive, intuizioni e
previsioni fanno parte di questo tipo di conoscenza, che risulta essere profondamente
radicata nelle azioni e nelle esperienze di un individuo, come del resto gli ideali, i
valori e le emozioni che gli appartengono.
Inoltre si dovrebbe distinguere tra due dimensioni diverse di conoscenza tacita. La
prima è la dimensione "tecnica", che comprende il genere di abilità e i così detti
"trucchi del mestiere" difficili da definire e spesso compresi nel termine "know-how".
Gli artigiani esperti, per esempio, sviluppano un’elevata abilità manuale dopo anni
d’esperienza, ma quasi sempre trovano difficile esprimere i principi tecnici e scientifici
su cui la loro conoscenza si basa.
Le percezioni molto soggettive, le intuizioni, le previsioni e le ispirazioni provenienti
dall’esperienza corporea appartengono a questa dimensione.
La conoscenza tacita contiene anche un’importante dimensione cognitiva. Essa
consiste nelle convinzioni, nelle sensazioni, negli ideali, nelle emozioni e nei modelli
mentali così radicati in noi da indurci a darli per sicuri. Sebbene essi non possano
essere facilmente espressi, questa dimensione della conoscenza tacita delinea il nostro
modo di interpretare il mondo che ci circonda
11
.
11
“ Al di là del Knowledge Management: Lezioni dal Giappone” giugno 1998 Hirotaka Takeuchi
disponibile in linea www.sveiby.com.au (visitato in gennaio 2002)