2
seguito le critiche entusiastiche per l’operato dell’Accademia della Follia o della Compagnia
Pippo Delbono, solo per citare alcuni esempi.
Un’eccessiva spettacolarizzazione a mio parere rischia però di lasciare in ombra esperienze e
percorsi più strettamente collegati alla rielaborazione e guarigione delle sofferenze degli
utenti coinvolti nell’esperienza.
Il mio tentativo, imperfetto, perché esula da una didattica catalogazione, è quello di descrivere
qui di seguito le esperienze a mio giudizio più rilevanti, emerse sul territorio nazionale dal
1990 a oggi. A una prima panoramica generale del fenomeno italiano, quale quella delineata
nel presente capitolo, faranno seguito tre differenti sezioni in cui analizzerò nel dettaglio
metodologia e sviluppo di ‘Teatroterapia’ (terapia a mediazione teatrale, ideata dallo
psicoterapeuta Walter Orioli di Monza), drammaterapia (disciplina inglese che coniuga le
scienze della psiche e training attoriale, di recente diffusa e sperimentata anche in Italia) e
‘Gioco del Sintomo’ (metodo di approccio al disagio psichico, elaborato dagli attori Garzella
e Cassanelli di Cascina, Pisa). La fervida attività italiana, ascrivibile all’ambito dell’arte
teatrale applicata a contesti di disagio sociale e psicofisico, si può riscontrare anche nella
fioritura e realizzazione di molteplici e svariate iniziative performative e di incontro quali
festival, manifestazioni, giornate di studio, conferenze (cfr. appendice 4). L’iniziale difficoltà
nel reperire i materiali mi ha spinto a contattare un gruppo-campione di associazioni e
compagnie teatrali a cui ho distribuito un breve questionario, attraverso il quale poter
confrontare in modo critico e oggettivo i dati emersi
1
.
.2 Il teatro ricerca la follia: Accademia della Follia, Stalker Teatro
Prima di approfondire le esperienze italiane che vedono il mezzo teatrale impiegato con
dichiarate finalità terapeutiche per gli utenti fruitori del percorso artistico, è opportuno
ricordare che il binomio che lega il teatro (e l’arte in generale) al disagio e alla disabilità è
stato fonte d’ispirazione e momento di riflessione critica per gli stessi artisti e operatori
teatrali.
Per Claudio Misculin, attore e principale promotore del progetto “Accademia della Follia”,
l’incontro dell’arte teatrale con il disagio psichico prende forma nella decisione di creare
1
Ho ricevuto risposta alla griglia di analisi (che riporto nell’appendice 1) dai seguenti gruppi teatrali od operatori
teatrali: Art Neon, Fondazione Sipario Toscana (Teatro Politeama, Cascina), Giolli, Istituto Gestalt (Firenze),
Lenz Rifrazioni, Lo Spazio Vuoto, Sognando, Teatro Nucleo, Teatro Pirata, Teatro Viaggiante. I questionari
sono stati da me inviati (da agosto 2002 a maggio 2003) anche alle seguenti associazioni: Accademia della
Follia, Aldabra Teatro, Kismet Teatro, La Polena, Luna e l’altra, Teatro Aenigma, Teatro degli Affetti, Teatro la
Ribalta, Teatro Popolare di Ricerca (Padova), Teatro Reginald, Artea (Arteterapeuti associati).
3
spettacoli che parlano e mettono in scena la follia e l’eccesso e che sono recitati e agiti dagli
stessi folli e da chi di loro si prende cura (operatori psichiatrici, infermieri, etc.).
Misculin, in gioventù, a causa di esperienze di devianza e sofferenza psichica, incontrò nei
primi anni Settanta Franco Basaglia, all’interno dell’Ospedale Psichiatrico di Trieste. E’ qui
che il futuro attore, per sua stessa ammissione, iniziò, attraverso i primi rudimenti dell’arte
teatrale, a esprimersi in modo liberatorio e a lenire attraverso l’arte la sua sofferenza. A partire
dal 1975, si susseguirono svariati progetti teatrali (“Teatro Studio”, “Teatro Pirata”,
“Laboratorio di Artigianato Teatrale”), tutti creati e condotti dallo stesso Misculin all’interno
dell’Ospedale Psichiatrico di Trieste, con una compagnia formata da pazienti psichiatrici e
operatori
2
. L’oggetto della ricerca teatrale di Misculin fu da subito lo stesso disagio mentale e
l’eccesso a cui può portare la follia. Della propria produzione teatrale, l’attore triestino
affermerà più tardi che: “non nasce dal teatro ma dalla follia. Il teatro è uno strumento. Alla
base c’è proprio l’eccesso. E’ importante capire i matti nel loro territorio […] per noi
l’eccesso è un valore” (MINOIA 1999
b
, p. 106). Nel 1983, la compagnia teatrale “Laboratorio
di Artigianato Teatrale” cambia definitivamente nome in “Velemir Teatro”, in memoria di
Velemir Dugina, musicista e collaboratore della compagnia, morto nello stesso anno. Celebri
registi (Giuliano Scabia, Oddo Bracci) si alternarono a dirigere il gruppo teatrale sino al 1992,
anno in cui l’esperienza del “Velemir”, presentata al Festival dei Teatri di Sant’Arcangelo di
Romagna, acquistò rilievo nazionale. Nacque in quell’anno, con la collaborazione di attori e
operatori sanitari (tra i quali Cinzia Quintiliani, Iris Caffelli, attrici, e Angela Pianca,
psicologa), una rete di laboratori teatrali, operanti nell’ambito del disagio sociale, variamente
distribuiti sul territorio italiano (Trieste, Cremona, Milano, Rimini, Padova, Suzzara) e
raggruppati sotto la denominazione di “Accademia della Follia”.
Ogni accademia è formata al suo interno da gruppi misti di professionisti, operatori sanitari,
volontari, pazienti. Ogni gruppo, prima di intraprendere un percorso artistico, è sottoposto a
intenso training fisico. Il lavoro sul corpo è giustificato da Misculin, esponendo le seguenti
motivazioni:
“suggerisco, chiedo di utilizzare il corpo, sede della contraddizione, dell’azione e della negatività. Nel corpo si
evidenziano le difficoltà di tutti. E’ bene andare oltre il teatro di parola, di prosa e sviluppare un’analisi ‘vera’
attraverso un’introspezione psicofisica”
(ivi, p. 108)
2
Misculin, in un’intervista, esponendo il proprio metodo di conduzione attoriale, afferma: “Aggrego sempre
psicologi, dottori, infermieri insieme ai matti e li tratto tutti allo stesso modo”(MINOIA 1999
b
, pp. 107-108).
4
Dal training fisico, che rinsalda il gruppo livellando le differenze tra comportamenti ‘normali’
e non, e attraverso giochi d’improvvisazione, ecco emergere i vissuti individuali, emozioni,
eccessi e follie personali. Un successivo montaggio concorre alla creazione degli spettacoli
finali, tra i quali ricordiamo Matt-beth (1996), Crucifige e Storie di Augusta (1998), Matt-
atoio (2001), Ardito Giulio Romano Italico Muscolin (2002).
L’Accademia della Follia si propone al pubblico e al mondo dello spettacolo come compagnia
teatrale autonoma e sottoposta alle stesse leggi di mercato delle compagnie teatrali di tipo
tradizionale. Riserva però, agli attori coinvolti, libertà di partecipazione e rispetto per la
patologia o per il disagio in atto. L’esperienza teatrale che Misculin offre ai ‘matti’ contiene
in sé elementi terapeutici e apre nuove possibilità di recupero per i disagiati che vi
partecipano. Secondo l’attore, il teatro può far star meglio una persona perché:
“Il teatro è uno sfogo, mi fa capire un po’ chi sono, mi permette di analizzarmi fisicamente, comunico agli altri
attraverso la messa in scena, mi chiamano attore (il ruolo è una delle colonne della ricostruzione dell’uomo)”
(ivi, p. 107).
Un incontro voluto e ricercato, perché carico di valenze di riflessioni sulla società e sul
comportamento umano, con il mondo della follia è stato intrapreso più di venti anni fa anche
dallo Stalker Teatro, che ha sede a Torino.
Parte dell’attuale nucleo artistico si formò nel 1975 nel Collettivo dell’Accademia di Belle
Arti di Torino, per fondare l’anno successivo la Cooperativa “Compagnia del Bagatto”,
compagnia professionale di teatro per ragazzi. La cooperativa, che muta nel 1981 la
denominazione in “Gruppo di Ricerca Teatrale del Bagatto”, dal 1980 a oggi è coordinata e
diretta da Gabriele Boccaccini. Dall’inizio, l’arte, non solo teatrale ma anche visiva e
multimediale, si presentò come spazio libero “messo a disposizione per la diversità
dell’espressione” (BOCCACCINI 1999
a
, p. 101). La ricerca del gruppo si estende anche
all’ambito del disagio con l’avvio, nello stesso anno, di un progetto di collaborazione con l’ex
Ospedale Psichiatrico di Collegno e Grugliasco. Il rapporto con i residenti della struttura si
rivelò prezioso, non tanto per questi ultimi in un’ottica di recupero sociale e riabilitativo,
quanto come spunto di riflessione e confronto per il cammino artistico della compagnia. Il
pluriennale rapporto con emarginazione e follia, che continua a tutt’oggi, è così motivato da
Gabriele Boccaccini:
“La scelta di operare in un’istituzione totale non è poi così estranea dato che, a ben vedere, anche il mondo dello
spettacolo, cui il teatro e l’arte in genere sono costretti ad appartenere, può risultare estremamente limitativo e
coercitivo. Quindi l’identificazione dell’artista, più o meno represso, nell’utente, più o meno ribelle, o viceversa,
risulta possibile dato il malessere comune nei confronti dei ghetti in cui si trovano reclusi; sebbene, ovviamente
con diversi rapporti di forza”
5
(ivi, pp. 101-102).
Il lavoro all’interno dei laboratori si fonda principalmente sullo scambio d’esperienze e sulla
rielaborazione dei vissuti personali in forme espressive di tipo artistico. Per Boccaccini, lo
spazio dell’ospedale psichiatrico si configura come “cruda metafora di altri spazi mentali e
fisici presenti negli uomini, anche in quelli che si nascondono dietro a involucri precostituiti
di benessere e tranquillità: [intendiamo] conservare la memoria e risvegliare la
consapevolezza dell’esistenza della propria diversità, che tende instancabilmente verso gli
altri” (ivi, p. 102).
Nel 1986, la cooperativa cambiò definitivamente nome nell’attuale “Stalker Teatro”,
prendendo ispirazione dall’omonima figura, protagonista del film “Stalker” del regista russo
Andrej Tarkovskij (1979).
Nella pellicola, l’affascinante figura dello Stalker, assimilabile a un profeta, cerca di spingere
gli esseri umani, privati ormai dei valori dello spirito, verso la Zona, luogo di verità e
ritrovato idealismo. In questo senso, la ‘Zona’ dell’ex-O.P. di Collegno si presenta come
luogo dove “la sofferenza, invece di piegare l’uomo, può spingerlo a un’emblematica
rivoluzione” (ivi, p. 99). Si può affermare che l’arte contenga in sé stimoli preziosi al
mutamento e alla trasformazione, ma non che sia possibile fare terapia con l’arte. Secondo il
direttore artistico della compagnia, si può soltanto affermare che “facendo arte può anche
attivarsi un percorso terapeutico” (BOCCACCINI 2002, p. 3).
Attualmente, Stalker Teatro opera a Torino e promuove numerose iniziate collegate
all’incontro con le diversità. La compagnia ha creato e dirige a Torino la struttura “Caos”
(Officina per lo Spettacolo e l’Arte Contemporanea), uno spazio aperto a privati cittadini,
artisti emergenti, portatori di disagio, bambini, per scoprire nuove modalità di rapporto
instaurate attraverso la mediazione artistica. Infine, Stalker Teatro organizza ogni anno a
Biella il Festival Internazionale delle Arti “Differenti sensazioni” (cfr. BOCCACCINI 1999
a
),
giunto nel 2002 alla sua quindicesima edizione
3
.
.3 L’incontro tra teatro e carcere: la Compagnia della Fortezza di Volterra
Una trattazione esauriente e panoramica in merito all’impiego del mezzo teatrale in ambito
riabilitativo e terapeutico non può certamente esimere dal menzionare, seppur brevemente, le
esperienze di produzione artistica sorte con finalità di risocializzazione e integrazione
3
Per l’Accademia della Follia, cfr. ITALIA 2000, pp. 182-183, MINOIA 1999
c
, il sito internet
www.accademiadellafollia.it e il video Da vicino nessuno è normale. Per Stalker teatro, cfr. BOCCACCINI
1999
a
,
BOCCACCINI 1999
b
, BOCCACCINI 2002 e il sito web www.stalkerteatro.net.
6
all’interno dei luoghi di pena e detenzione. Secondo Monica Dragone, che recentemente ha
compiuto un’accurata ricerca sulla presenza del teatro nei luoghi di disagio sociale (cfr.
DRAGONE 2000), l’anno 1991 è da considerare data rappresentativa per l’avvio
dell’emergere di una sempre più numerosa e differenziata (per risultati artistici e metodologie)
proposta teatrale in ambito detentivo. Da quell’anno, in cui Armando Punzo e Annet
Henneman, facenti parte dell’associazione Carte Blanche, ricevettero il Premio Speciale Ubu
per il lavoro svolto all’interno del carcere di Volterra (Pisa), circa quaranta progetti teatrali
sono sorti su un totale di 280 istituti di pena italiani, come evidenziato dai dati esposti dalla
stessa studiosa (cfr. ivi, pp. 88-100).
Tra le numerose produzioni di quest’ultimo decennio, ricordiamo l’attività intrapresa nel 1989
dalla regista Donatella Massimilla e dall’attrice Olga Vinyalis con la sezione femminile del
carcere milanese di S. Vittore. Nel 1991, il gruppo teatrale debuttò con l’opera Il viaggio di
Alice e nel 1994 la sezione maschile dello stesso istituto fondò la compagnia teatrale “La nave
dei Folli”. Nello stesso 1994, il regista Gianfranco Pedullà formò la compagnia “Il
Gabbiano”, nata all’interno del carcere San Benedetto di Arezzo. Tra le più recenti
produzioni, ricordiamo Uccelli, una rivisitazione del testo di Aristofane, a cura dello stesso
Pedullà e di Donatella Volpi, e sorta nell’ambito del progetto Porto Franco della Regione
Toscana. Al di là della formazione di stabili compagnie teatrali, all’interno di carceri e istituti
possono essere attivati anche percorsi più brevi di tipo laboratoriale, quale, a esempio, citiamo
il laboratorio all’interno del carcere di alta sorveglianza di La Spezia che coinvolse per due
anni (1997-1998) i detenuti, guidati da operatrici del Teatro degli Affetti di Giulio Nava (cfr.
§ 5). Nello stesso 1997, e per tutto il 1998, il Teatro Kismet OperA di Bari (cfr. § 4)
organizzò un laboratorio tecnico teatrale dal titolo “Verso una casa del teatro”, presso
l’istituto minorile “N. Fornelli” di Bari.
Ricordiamo infine l’esperienza di Annagioia Trasacco, artista ed educatrice, che nel 1995
fondò l’associazione “Insania Teatro” ad Aversa (Napoli). Detta associazione, tuttora
esistente, riunisce al suo interno artisti ed educatori, con lo scopo di offrire una modalità
espressiva a mediazione teatrale agli ex-degenti dei dismessi Ospedale Psichiatrico
Giudiziario “Filippo Saporito”, attivi dal 1997 con lo spettacolo Totale e O.P. “Santa Maria
Maddalena”.
Dopo aver accennato ad alcune esperienze esemplificative, desidero soffermarmi sul percorso
della Compagnia della Fortezza di Volterra che negli anni ha superato istanze di tipo
riabilitativo ed ha raggiunto alti gradi di professionalità, pur restando immutate limitazioni
(fisiche, giuridiche) e problematiche (evasioni) dei detenuti-attori.
7
Nel 1988, dopo la conclusione dell’esperienza del “Gruppo Internazionale L’Avventura”,
legata alla metodologia dell’ISTA di Eugenio Barba, il regista Armando Punzo aveva
intenzione di mettere in scena una performance corale, coinvolgendo un gran numero di attori.
Proprio in quel periodo, il comune di Volterra mise a disposizione un finanziamento per un
progetto da realizzarsi nel carcere locale. Punzo accettò la sfida, varcando la soglia del carcere
“per fare teatro e non per educare” (BERNAZZA 1998, p. 24). Al suo fianco troviamo, sino al
1994, la regista e attrice olandese Annet Henneman, con cui avevano costituito nel 1987
l’associazione culturale Carte Blanche, tuttora esistente.
Nel 1989 avvenne il primo debutto della neonata Compagnia della Fortezza, La Gatta
Cenerentola, a cui seguirono i più noti Marat-Sade (1993) da Peter Weiss, La Prigione (1994)
da Kenneth Brown, I Negri (1996) da Jean Genet, Macbeth (2000, cfr. anche CARETTI 2000)
da William Shakespeare. Nel luglio 2002, durante la XVI edizione del Festival Volterra
Teatro, la Compagnia della Fortezza ha presentato L’opera da tre soldi di Bertolt Brecht.
Il metodo di lavoro di Armando Punzo si caratterizza per l’assenza di un training preparatorio
e di insegnamenti degli elementari rudimenti teatrali. Al contrario, il regista afferma che
preferisce “lavorare con gli attori direttamente sullo spettacolo da allestire e dare loro delle
spiegazioni sul training soltanto nel momento in cui, durante le prove, si confrontano con
delle difficoltà oggettive” (ivi, p. 38).
La scelta di spazi chiusi, claustrofobici, per l’allestimento degli spettacoli pone l’accento con
forza sulla condizione dei detenuti e sull’impossibilità stessa del fare teatro all’interno di
strutture eccessivamente repressive (cfr. ivi, p. 85-106). Sulle motivazioni, che spingono con
tanto impegno e passione i detenuti a recitare, Armando Punzo sottolinea invece il fatto di
fare teatro per “il bisogno di comunicare, varcare la soglia, reale e metaforica dell’isolamento,
affrontare il rischio del contatto con l’esterno, esponendo la propria diversità, quella di essere
una compagnia di detenuti attori” (ivi, p. 8)
4
.
4
Cfr. DRAGONE 2000 pp. 88-100, VALOROSO 1999. Per la Compagnia della Fortezza, cfr. BERNAZZA
1998, CARETTI 2000, il sito web www.compagniadellafortezza.org e il video I Negri.
8
3. Terapia a teatro: l’esperienza del Gioco del
Sintomo
“Ciò che è davvero significativo nei rapporti di un essere umano con un altro essere ha a che fare con la sostanza delle sue emozioni e ogni
cambiamento emozionale è in grado di modificare il corpo e i suoi comportamenti. In sintesi, ogni cambiamento e apprendimento ha origine nelle
emozioni e dal loro incontro con l’esperienza del mondo circostante. L’obiettivo […] è quello di stimolare-provocare, nella persona, la ricerca di
nuovi atteggiamenti psicofisici, che si oppongano a quelli scaduti nella rigida maschera generata dalle abitudini”
(CASSANELLI-GARZELLA 2002, p. 12)
Introduzione
L’approccio teatrale con finalità terapeutiche elaborato dagli attori e registi Fabrizio
Cassanelli e Alessandro Garzella nel corso dei laboratori espressivi, presso il Teatro
Politeama di Cascina (Pisa), si distingue, a differenza dell’esperienza di drammaterapia (cfr. i
capitoli 4-7) e teatroterapia (cfr. cap. 2), per un’ancora più stretta derivazione dall’arte teatrale
e dal training attoriale. Il consueto e ormai consolidato percorso attoriale elaborato,
sperimentato e consolidato nel sistema denominato ‘delle coppie d’opposti’ fu
opportunamente modificato, nel 1992, da Alessandro Garzella, per essere adeguato alle
esigenze e possibilità dei partecipanti al primo laboratorio con utenti psichiatrici che si tenne
quell’anno.
L’approccio che contraddistingue l’efficacia terapeutica del ‘Gioco del sintomo’ nacque, per
stessa ammissione di Garzella, da una sua feconda intuizione successivamente sviluppata nei
due anni successivi. La riflessione psicologica, in quest’esperienza italiana che coniuga
sapientemente teatro e terapia, appare collocata sullo sfondo, come coadiuvante e supporto
tecnico e scientifico di una metodologia a sé stante.
Rispetto alle discipline di drammaterapia e teatroterapia, gli obiettivi che il ‘Gioco del
sintomo’ si pone nei confronti del disagio sociale sono diversi. Il meccanismo, raffinato e
semplice allo stesso tempo, si propone quasi alla stregua di una tecnica di profonda
autoanalisi volta più alla presa di coscienza di cosa il sintomo
5
e la malattia significhino e
comportino per il paziente, più che rivolgersi direttamente a una cessazione del sintomo e del
disagio stesso.
L’associazione Politeama e percorsi formativi dei conduttori
La struttura
Il luogo, all’interno della quale avvengono solitamente i laboratori sul disagio, è lo stesso
Teatro Politeama. La Fondazione Sipario Toscana Villaggio Politeama è una struttura
5
Cfr. § 9 di questo capitolo.
9
polivalente di cinquemila metri quadrati alla quale possono accedere sino a settecento
spettatori. E’ dotata di auditorium, ridotto, aule formative, sale di registrazione, ristorante,
pub. Il complesso è stato inoltre individuato dalla Regione Toscana come polo regionale per
“la produzione di spettacoli per le nuove generazioni” (D’INCÁ 2002, p. 43). Ne è direttore
artistico Alessandro Garzella, affiancato nel suo operato dalla drammaturga Donatella
Diamanti e dagli attori Fabrizio Cassanelli e Letizia Pardi. Di seguito esporrò brevemente
biografia e percorso artistico che i due conduttori hanno affrontato prima di pervenire,
attraverso l’arte teatrale, all’incontro con il disagio.
Alessandro Garzella
Negli anni Settanta, dopo la formazione al DAMS di Bologna e nell’ambiente universitario e
letterario pisano, Garzella fondò (assieme a Roberto Bacci, Ugo Chiti, Dario Marconcini e Marco
Mattolini) l’Arteb, un’associazione di gruppi teatrali di base aderenti all’ARCI. In quegli anni il suo
interesse era concentrato verso forme di teatro politico e di strada, oltre che il Teatro Circo. Alla
fine degli anni Settanta, su sua iniziativa nacque la cooperativa Teatro delle Pulci, dove Garzella si
qualificò come autore e regista teatrale rivolto alla ricerca sul teatro popolare. Dal 1987, come
direttore della cooperativa Teatro delle Pulci, si trasferì a Cascina dove lo stesso teatro, avendo
ottenuto dal Ministero del Turismo e dello Spettacolo il riconoscimento di “Centro Nazionale di
Produzione e Promozione del Teatro rivolto alle Nuove Generazioni”, assunse il nome di Sipario
Stregato. Qui Garzella diresse il percorso di lavoro che condurrà alla nascita della “Fondazione
Sipario Toscana”.
Dal 1993 Alessandro Garzella dirige il Politeama Villaggio di Produzione della Cultura
Giovanile nell'ambito del quale svolge attività di regia, produzione e formazione.
Oltre a competenze teatrali acquisite nel tempo, anche attraverso collaborazioni con Kantor,
Scabia, Soleri, Fo, Garzella ha compiuto studi di psicosomatica
6
. Da sempre è stato attratto
dall’arte attoriale e dal rapporto con l’attore, a scapito di forme più tradizionali di regia.
La storia privata e personale di Garzella lo ha portato, a causa di un handicap fisico che gli
preclude la possibilità di calcare le scene, a sviluppare “un’attitudine innata […] a osservare
una relazione con l’interiorità dell’attore e con la corporeità” (D’INCÁ 2002, p. 30). La
capacità di mettersi in relazione con gli attori si riferisce a una sensibilità corporea intuitiva ed
emozionale che lo stesso Garzella sembra aver sostituito a una sensibilità tattile e muscolare
preclusa e/o compromessa ai suoi sensi. Tale sensibilità sviluppata nel tempo costituisce nel
momento dell’esperienza teatrale di Garzella, un collegamento, “un canale acceso” (ivi) tra il
6
Cfr. JORES 1965. La medicina psicosomatica si propone, nel trattare i disturbi fisiologici, di prendere in
considerazione anche dati di natura psicologica, assumendo che i due sistemi (somatico e psichico) facciano
parte di un’unica unità vitale. Arthur Jores, medico studioso di psicosomatica, sintetizza: “Io non posso sapere
quale sia la realtà delle cose che stanno al di fuori della mia coscienza. L’unica cosa che io veramente sono in
grado di comprendere, sono i rapporti degli oggetti tra loro. […] non appena si partirà dal presupposto che
l’unica realtà conoscibile sono le relazioni delle cose tra di loro, e che inoltre l’esistenza del mondo è un evento
unico e unitario, si potrà intendere il rapporto tra le cosiddette realtà, somatica e psichica, come una semplice
modalità differenziatrice di determinati sistemi interrelazionali” (JORES 1965, p. 6).
10
corpo dello stesso conduttore e quello degli attori che a lui facevano riferimento. Per Garzella,
l’incontro con il disagio avviene nel contesto di una sfida e di una ricerca personale, nel
momento in cui questa sua naturale capacità empatica si perde e svanisce. Le ‘maschere’ del
dolore, che ai partecipanti ai laboratori teatrali volta dopo volta si cercava di strappare,
scatenano nel regista e attore una subitanea immedesimazione. Il “sentimento di leggera
derisione” (ivi) che scaturisce in Garzella a corollario dell’accordo empatico succitato sarà
alla base dell’intuizione terapeutica contenuta nel meccanismo del ‘Gioco del sintomo’.
Fabrizio Cassanelli
Dopo gli studi all'Accademia d'arte drammatica di Bologna e la formazione a Parigi nella
scuola di Jacques Lecoq, Fabrizio Cassanelli (n. 1955) affiancò al lavoro d'attore un’intensa
attività di studio connessa al mondo dell'educazione, al disagio giovanile, alla cultura
popolare e al teatro politico. Alla fine degli anni Ottanta, fonda insieme agli artisti del Teatro
Evento di Bologna “Il Centro di Ricerca sull'Immaginario Giovanile”.
Nel 1994 inizia ad affiancare Garzella nella conduzione del terzo anno dell’esperienza
laboratoriale nata in collaborazione con l’USL 5 di Pisa. Il tema del disagio e dell’educazione,
frequentemente al centro della sua riflessione teorica, lo ha portato a sviluppare feconde
collaborazioni con Don Ciotti (gruppo Abele di Torino) e con la comunità Logos di Bergamo,
diretta da Piero Lucchini
7
. In questo momento, Cassanelli affianca, oltre alla supervisione dei
laboratori teatrali, una presenza attiva e costante in alcune esperienze terapeutiche, la cui
metodologia si presenta per certi aspetti innovativa e strutturalmente diversa dal tradizionale
‘Gioco del sintomo’ che sarà descritto più oltre
8
.
Lo schema operativo del ‘Gioco del sintomo’
Renzia D’Incà, giornalista, nell’anno 2000 frequentò i laboratori teatrali con gli utenti
dell’USL pisana in qualità di testimone del percorso svolto quell’anno
9
. Ella ha individuato in
collaborazione con i conduttori uno schema operativo del ‘Gioco del sintomo’. Il
procedimento, apparentemente semplice nei suoi assunti di base ma efficace nella pratica, può
essere suddiviso in quattro passaggi.
1) Individuazione (ipotetica) dell’evidenza di un sintomo.
2) Assunzione del sintomo su di sé da parte del conduttore, alla stregua di una maschera da
indossare e imitare sino al parossismo. L’imitato percepisce il tentativo di parodizzazione del
7
Cfr. § 8.
8
Cfr. § 3-6.
9
Dall’esperienza, la stessa D’Incà trasse i materiali del volume D’INCÁ 2002.
11
proprio male e capisce che ciò che ha di fronte non è più il conduttore-regista ma che egli, in
un gioco di rispecchiamento, si trova di fronte al “proprio doppio” (D’INCÁ 2002, p. 88). In
questo passaggio, il lavoro d’improvvisazione è svolto esclusivamente dal conduttore
imitatore. L’abilità del conduttore risiede nel compiere una sorta di ‘spostamento’ di
prospettiva: egli, da un’iniziale posizione egocentrica, deve saper “entrare nell’altro per
conoscerlo, ascoltarlo e osservarlo” (CASSANELLI-GARZELLA 1995, p. 190).
3) Instaurazione di una relazione: in questo momento l’imitato entra in relazione con il
conduttore e partecipa all’improvvisazione guidata. Il sintomo diviene l’oggetto della messa
in scena in forma caricaturale e parodistica. Esso “viene espulso, osservato, oggettivato,
riconosciuto, ridicolizzato, fatto diventare altro da sé” (ivi). La fissità della patologia a questo
punto scompare per lasciare il posto a una malleabilità e a una certa plasticità del sintomo
stesso. Nello spazio teatrale, che altera e annulla le consuete coordinate di tempo e spazio, il
sintomo acquista una “plusvalenza simbolica”.
4) Accettazione da parte del paziente della ridicolizzazione del proprio sintomo. Durante la
messa in scena del sintomo, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, il/la paziente
accetta, talvolta con divertimento, più spesso con curiosità e stupore, la rappresentazione degli
effetti di automatismo e fissità che comporta la propria sofferenza psichica.
Ma perché il paziente accetta una rappresentazione che a rigor di logica dovrebbe farlo
soffrire? D’Incà formula in tal proposito svariate ipotesi. Anzitutto rileva l’importanza della
relazione di fiducia e abbandono che l’utente instaura con il conduttore, e ipotizza che in
questo binomio si instauri “qualcosa che ha a vedere con il fenomeno della catarsi” (ivi) Il
paziente arriverebbe allora ad accettare la rappresentazione proprio in virtù dello
‘spiazzamento’ che essa comporta: in un luogo come il teatro, dove governano le regole della
finzione e del gioco, per un meccanismo paradossale appare la verità intorno alla vera natura
di fissità della patologia
10
.
10
Per approfondire vedi il diario dell’esperienza, D’INCÁ 2002, pp. 65-82, inoltre ivi, pp. 83-85, pp. 87-106, pp.
111-117 e il saggio BRECCIA 2002
a
.
12
4. Concetti e pratica della drammaterapia
“The overriding principle behind art therapies generally and dramatherapy in particular,
is that the arts have always existed to communicate those things which otherwise cannot be expressed.
Therefore art therapies function in the same way for those people
where the arts in themselves do not provide enough possibility for change”
11
(JENNINGS 1992 p. 1)
Introduzione
In questo capitolo cercherò di delineare brevemente il complesso e variegato panorama della
Drammaterapia, esponendo i suoi i principi costitutivi, la sua diffusione in Europa e all’estero
e il ricco sistema di scuole in cui è impartito l’insegnamento della disciplina. Infine, in un
successivo capitolo, sarà mia cura esporre sinteticamente la situazione in merito alla
diffusione italiana di tale disciplina e alle scuole e ai centri a essa correlati, nonché la
legislazione vigente in Italia per questo tipo di arteterapia a mediazione teatrale (cfr. cap. 7).
All’interno della disciplina stessa, come descriverò diffusamente in seguito (cfr. cap. 5), si
delineano perlomeno sei differenti orientamenti terapeutici. Tali apparenti differenze sono
riconducibili, a mio avviso, alla diversa prospettiva adottata nei confronti dei numerosi
strumenti che l’arte teatrale o, per meglio definire il campo a cui attinge la drammaterapia per
trarne strumenti terapeutici, la drammatizzazione (in tutte le sue variegate forme quali
recitazione, improvvisazione, mimo, ma anche drammatizzazione di racconti, fiabe, miti,
sogni, gioco con burattini, gioco con pupazzi etc.) da sempre fornisce. Il modello teatrale
proposto dalla Dr. Sue Jennings, attrice e drammaterapeuta da oltre trent’anni, si presenta da
subito come il più indirizzato nel ricercare i propri strumenti terapeutici verso l’arte teatrale
più propriamente detta, tralasciando in parte o ponendo in secondo piano metodi e procedure
derivanti dal meno specificatamente teatrale campo della drammatizzazione.
Nel corso della mia esposizione darò particolare rilievo alla descrizione di questo modello.
Ritengo infatti che, chiunque si avvicini, in modo più o meno approfondito, allo studio
dell’arte teatrale saprà trovare nel pensiero di Sue Jennings fecondi suggerimenti e preziose
suggestioni per comprendere e approfondire ulteriormente, anche da un punto di vista non
strettamente artistico, i meccanismi sottesi al processo artistico in ambito teatrale.
La dott.essa Jennings si è a lungo occupata, in qualità di ricercatrice nel campo antropologico,
della funzione del gioco nell’infanzia quale elemento primario nella formazione di un corretto
principio di realtà e relazione con il mondo esterno nel bambino/a. Ha inoltre così
approfondito le connessioni tra costituzione delle regole sociali e istituzione di riti all’interno
11
“Il principio più importante sotteso alle artiterapie in generale, e alla drammaterapia in particolare, è che l’arte
esiste da sempre proprio per comunicare quelle cose che altrimenti non possono essere espresse. Per questo le
artiterapie funzionano nello stesso modo per quelle persone per cui l’arte da sola non procura abbastanza
possibilità di cambiamento” (traduzione di chi scrive). Di qui in avanti, dove non diversamente indicato, sarà da
intendersi che le traduzioni dall’inglese sono a cura di chi scrive.
13
di una società tradizionale malasiana, indagando l’emergere dell’elemento teatrale da quello
rituale e le possibili connessioni tra i due (cfr. i risultati dell’intera ricerca in JENNINGS
1995
b
).
Nello sviluppare un modello drammaterapeutico personale ha adottato, nella descrizione del
processo terapeutico, una particolare evoluzione dell’intero processo contraddistinta da tre
fasi (processo EPR) rilevabili, secondo l’autrice, anche nella costituzione del principio di
realtà del bambino/a nel corso della primissima infanzia.
Da quest’affermazione discende, come si vedrà in seguito, la recente e suggestiva teoria della
stessa Jennings, secondo cui la mente costruisce un corretto rapporto con la realtà circostante
tramite una struttura interna alla mente stessa, struttura che possiamo definire drammatica.
La definizione
Il primo uso documentato del termine drammaterapia nel Regno Unito, stato che si considera
tra i primi ad adottare e formalizzare la pratica dell’arteterapia a mediazione teatrale, appare
nel 1939 in una conferenza tenuta da Peter Slade
12
presso la British Medical Association.
All’epoca Slade, coadiuvato da un analista junghiano, il dottor Kraemer, stava lavorando sul
concetto di proiezione in ambito drammatico
13
. Negli Stati Uniti, il termine, riferito alle prime
pratiche della disciplina, compare alcuni anni più tardi (1946), in un saggio presentato
all’American Occupational Therapy Association, per opera del terapeuta Florsheim (cfr.
JONES 2000, p. 44).
La dizione drammaterapia (dramatherapy) fu preferita a quella pur plausibile, trattandosi di
introdurre tecniche teatrali all’interno del processo terapeutico, di teatroterapia
(theatretherapy). Secondo Phil Jones, insegnante e direttore del corso post-laurea in
‘Dramatherapy’ all’Università di Hertfordshire, esiste però un’importante differenza tra i due
termini, differenza che egli così definisce:
“Teatro è la produzione di uno spettacolo, dramma è l’ingresso in una condizione speciale in cui gli individui, lo
spazio che usano e le cose che fanno esistono in una realtà fittizia”
(JONES 2000, p. 13, cit. anche in CAVALLO 1999, p. 11).
12
L’inglese Peter Slade può essere giustamente considerato uno dei pionieri nel campo dell’introduzione del
mezzo teatrale nell’ambito dell’educazione. Dopo la succitata conferenza del 1939, formalizza il suo pensiero
nel volume Child Drama (1954). Slade trae ispirazione per l’uso delle tecniche drammatiche come terapia dai
cosiddetti ‘giochi spontanei’ dei bambini, utilizzando e modificando in parte il concetto junghiano di
‘immaginazione attiva’. Per un approfondimento dell’operato di Slade, cfr. JONES 2000, pp. 83-86.
13
“la proiezione coinvolge il giocare con cose su cui si proietta il proprio dramma dentro, sopra e intorno,
oggetti esterni a se stessi” (JONES 2000, p. 84). Essa si configura come leggermente diversa dalla proiezione
così come tratteggiata dal pensiero psicanalitico, secondo il quale la proiezione consiste nello spostamento di
sentimenti negativi da un oggetto a un altro. In particolare, con il termine proiezione s’intende una “operazione
con cui il soggetto espelle da sé e localizza nell’altro, persona o cosa, delle qualità, dei sentimenti, e perfino degli
‘oggetti’, che egli non riconosce o rifiuta di sé” (LAPLANCHE-PONTALIS 2003, p. 439).
14
Da questa definizione è possibile arguire come, con l’utilizzo del termine dramma, si desideri
sottolineare un processo che ha dichiarata finalità terapeutica, piuttosto che la realizzazione di
un prodotto finale al termine dello stesso (cfr. § 6). Michele Cavallo, psicologo e
drammaterapeuta italiano, aggiunge a tale motivazione quella di carattere più pratico secondo
la quale i drammaterapeuti, nell’orientarsi verso la scelta del termine, tendono a distinguersi
dalla ‘Teatroterapia’, disciplina teorizzata dal russo Evreinov all’inizio del secolo scorso (cfr.
CAVALLO 1999, p. 11 e per Evreinov il cap. 6, § 1).
La definizione più recente contiene tutti i caratteri finora evidenziati: utilizzo delle tecniche
teatrali o per meglio dire di drammatizzazione, finalizzato al raggiungimento di obiettivi
terapeutici. Nelle parole redatte dall’Associazione Nazionale per la Drammaterapia (Nadt),
che riunisce al suo interno i drammaterapeuti americani,
“Drama therapy is the intentional use of drama and/or theatre processes to achieve therapeutic goals. Drama
therapy is active and experiential. This approach can provide the context for participants to tell their stories, set
goals and solve problems, express feelings, or achieve catharsis.
14
”
(www.nadt.org, in rete il 9 febbraio 2003).
Condividendo tale prospettiva, Phil Jones sinteticamente riassume:
“Dramatherapy is involvement in drama with a healing intention”
15
(JONES 2000, p. 6).
La drammaterapia si configura dunque come una disciplina appartenente alla grande famiglia
delle arti terapie che utilizza processi teatrali e di drammatizzazione con finalità terapeutica,
all’interno di piccoli gruppi o nell’ambito di terapie individuali. Tra i suoi obiettivi, come si
evince dalla succitata definizione, c’è la creazione di un contesto confortevole e sicuro in cui i
partecipanti (o il/la partecipante, nel caso di terapie individuali) possano, secondo il professor
Mangan
16
, “esaminare, ri-esaminare ed esplorare problematiche personali e interpersonali,
individuali e di gruppo” (www.aber.ac.uk in rete il 3 febbraio 2003).
La drammaterapia attraverso l’uso di tecniche quali l’improvvisazione, la recitazione di uno
specifico ruolo, il mimo, la narrazione, esercizi di movimento e di scrittura, l’utilizzo di
maschere, rituali, burattini, alcuni esercizi di chiara matrice teatrale, si propone di rendere i
14
“La drammaterapia è l’uso intenzionale dei processi drammatici e teatrali per conseguire scopi terapeutici. La
drammaterapia è un procedimento attivo ed esperienziale. Quest’approccio può fornire lo spazio ai partecipanti
per raccontare le loro storie, stabilire obiettivi e risolvere problemi, esprimere sentimenti e raggiungere la
catarsi”. Sull’utilizzo del termine ‘catarsi’ in drammaterapia si rinvia al § 9 di questo scritto.
15
“La drammaterapia è coinvolgimento drammatico con un intento curativo”.
16
Il professor Mick Mangan attualmente svolge l’incarico di docente di Teatro presso l’Università di
Aberystwyth, in Galles.
15
partecipanti in grado di “esprimere e rapportarsi con i problemi che incontreranno o per
mantenere il benessere e la salute del cliente” (JONES 2000, p. 6). La disciplina si presenta
quindi, attraverso l’utilizzo di tecniche verbali e non-verbali, come valido approccio nella
costituzione di una sana identità individuale, un importante metodo di “gioco e lavoro che
utilizza metodi attivi per facilitare la creatività, l’immaginazione, l’apprendimento, intuizione
e crescita”
17
, secondo una recente definizione della BADth, l’associazione britannica che
rappresenta i drammaterapeuti e disciplina le loro pratiche professionali.
In realtà, non è facile impresa dare una corretta e sintetica definizione di una disciplina che sin
dall’inizio si caratterizza per il suo estremo eclettismo, sia per quanto riguarda le fonti di
riferimento, che coinvolgono entrambi gli ambiti teatrali e terapeutici, sia gli strumenti usati,
che spaziano dall’ambito teatrale a quello, più sfuggente e indefinito, della drammatizzazione.
Minimi spostamenti di prospettiva paiono dare slittamenti di senso e definizioni diverse. Il
drammaterapeuta italiano Salvo Pitruzzella, ad esempio, descrive la drammaterapia come:
“una terapia creativa, centrata sull’uso artistico dell’immaginazione e sull’uso espressivo del
corpo” (PITRUZZELLA 2000, p. 196), centrando apparentemente l’attenzione sul processo
artistico più che sul risultato terapeutico. Altri drammaterapeuti, pur tornando a sottolineare
l’intento curativo della disciplina, attribuiscono gran parte della bontà terapeutica della stessa
non tanto agli strumenti a mediazione psicoterapeutica, quanto al “potenziale ‘terapeutico’
che ogni cultura ha riconosciuto ai processi e alle tecniche e drammaturgiche” (CAVALLO
2001, p. 127).
Il dibattito e lo scambio di opinioni su un’uniforme definizione del termine prosegue tuttora
assai vivacemente. La causa può essere parzialmente ricercata nella continua evoluzione della
disciplina e della sua pratica e dunque delle definizioni a essa correlate. Ma soprattutto, come
nota Meldrum, drammaterapeuta inglese, la discordanza tra differenti versioni può essere
ricondotta a una frattura interna al pensiero attorno alla disciplina, causata sai
drammaterapeuti stessi. Poiché, come afferma l’autrice stessa,
“Some want dramatherapy to declare itself as a therapy based on theatre art; others wish to declare dramatherapy
to be a form of psychotherapy”
18
(MELDRUM 1994, p. 18).
Una differenza di prospettive che non porta, nella mia opinione, a una netta separazione
metodologica tra le diverse ottiche adottate quanto piuttosto a una diversa focalizzazione in
17
Citazione tratta dalle informazioni contenute nel sito web www.dramatherapy.gr aggiornato al 3 gennaio 2003.
18
“Alcuni vogliono che la drammaterapia si dichiari come una terapia basata sull’arte teatrale, altri vorrebbero
indicare nella drammaterapia una forma di psicoterapia”. Per approfondire i termini del dibattito, cfr. “Historical
background and overview of dramatherapy” di Brenda Meldrum in JENNINGS 1994
b
, (pp. 12-27), in particolare
alle pp. 16-19.
16
merito agli elementi costituenti il processo terapeutico e i mezzi da essa utilizzati per
conseguirlo. Come si vedrà in seguito, accanto a un orientamento che individua nel processo
teatrale e nelle tecniche da esso derivate il nodo centrale del processo di cura (Jennings, Jones,
Cavallo), ne esistono altri che privilegiano l’attività terapeutica attraverso processi di
drammatizzazione di fiabe o miti (Gersie, Lahad) o attività di recitazione che siano
strettamente correlate all’interpretazione di ruoli precedentemente stabiliti ed inventariati
(Landy). In ogni orientamento è però dato ampio rilievo all’utilizzo di strumenti verbali e
non-verbali, agenti su corpo, voce, immaginazione e creatività, di tipo drammatico. Ciò mi fa
ritenere possibile affermare che, al di là delle inevitabili differenze superficiali, il processo
drammaterapeutico si costituisca prendendo spunto da una base comune, e che tali differenze
possano essere viste nell’ottica di una ricchezza ed eterogeneità di cui un metodo, che si
propone di sviluppare “immaginazione, spontaneità, sicurezza e percezione dei sensi”
(www.aber.ac.uk in rete il 10 gennaio 2003), deve sicuramente sapersi avvalere
19
.
Breve storia della drammaterapia
La diffusione e la conoscenza della professione e della drammaterapia stessa è recente. Il suo
lento emergere dal panorama delle altre arti terapie prende l’avvio negli anni Sessanta in Gran
Bretagna dall’introduzione delle tecniche e pratiche teatrali nell’ambito dell’educazione e
dall’impiego curativo e terapeutico del teatro nell’ambito della disciplina chiamata remedial
drama (letteralmente ‘teatro curativo’).
Brenda Meldrum, drammaterapeuta inglese nonché insegnante della medesima disciplina
presso l’Institute of Dramatherapy di Londra, cita parimenti, tra le influenze che fornirono
spunti fecondi per la nascita della drammaterapia, educatori e registi teatrali.
Secondo la Meldrum, in quegli anni fu decisivo l’apporto di novità dato da Peter Brook nel
campo della regia (cfr. BROOK 1998) e quello di Jerzy Grotowski nel campo della
formazione attoriale. E’ proprio in questi anni infatti che il grande maestro polacco delinea i
principi del teatro-laboratorio, in cui sperimenta un training che è per l’attore/trice “una forma
di analisi, di terapia per loro e per lo spettatore” (MELDRUM 1994, p. 13). Ritroviamo
quest’ultimo pensiero nelle stesse parole di Grotowski, in cui quanto detto sopra trova
conferma:
“Sto parlando del metodo, intendo il superamento dei limiti, un confronto, un processo di autoconoscenza e, in
un certo senso, una terapia Tale metodo deve rimanere aperto […]e variare a seconda delle persone”
(GROTOWSKI 1970, p. 152, corsivo di chi scrive).
19
Per un approfondimento delle tematiche di questo paragrafo, cfr. JENNINGS 1994
b
, pp. 166-186, con
interviste a Gordon Wiseman, Robert Landy, Mooli Lahad e Pamela Mond.
17
Sul versante terapeutico ed educativo, le influenze più profonde per la nascita della
drammaterapia sono rilevabili nelle teorie e nel lavoro di Peter Slade
20
, e dell’educatrice
Dorothy Heatcote.
Entrambi, lavorando con i bambini, incoraggiarono gli stessi a esprimersi attraverso tecniche
non-verbali ed immaginative, volte a uno sviluppo sano e controllato della creatività.
L’operato di Heatcote si distingue in modo particolare per lo sviluppo della disciplina, in
quanto l’approccio dell’educatrice al gruppo di lavoro valorizzava appieno l’apporto dato dai
componenti stessi, a scapito della presunta superiorità dell’educatore nei loro confronti. La
fondamentale innovazione di Heatcote fu di introdurre l’educatore stesso all’interno del
dramma, facendogli assumere un ruolo invece di dirigere scene e attori a distanza.
Questi innovativi approcci all’arte drammatica e all’educazione influenzarono Sue Jennings
che aveva iniziato la sua carriera come attrice e, negli anni, aveva però sviluppato, per
interesse ed esperienza personale, l’intuizione che il teatro contenesse al suo interno proprietà
terapeutiche
21
.
Nel 1962 Jennings, assieme a Gordon Wiseman, quest’ultimo pioniere dell’introduzione del
teatro nell’educazione e nelle scuole in quegli anni, fondò a Londra il Remedial Drama
Group, il primo centro specializzato nel training e nella pratica del processo teatrale
sviluppato in senso creativo ed espressivo. Gli utenti interessati all’innovativo approccio sono
“adulti e bambini con bisogni speciali” (MELDRUM 1994, p. 13). Il gruppo organizza
tournee in Germania, Belgio e Olanda per mostrare pratica e teoria del processo fino alla fine
degli anni Sessanta. Dopo la nascita del Remedial Drama Centre, attivo dal 1967 al 1971, il
centro si sceglie il nome di ‘Dramatherapy Centre’ nel 1970, e dal 1972 organizza
ufficialmente training e gruppi di lavoro con adulti e bambini.
Oltre alla costituzione del Remedial Drama Group, del centro omonimo e infine del
Dramatherapy Centre, Sue Jennings è impegnata nello sviluppo di numerosi progetti, tra cui
l’avvio di un corso di drammaterapia presso il St. Albans College of Arts and Design
(Università di Hertfordshire) e la pubblicazione del libro Remedial Drama nel 1973.
Nel 1964 Marian Billy Lindqvist, in precedenza membro della Religious Drama Society,
fonda a Londra l’associazione Sesame. Le prime esperienze di tipo formativo da lei
organizzate prevedevano attività all’interno d’ospedali e centri di cura, brevi corsi (per lo più
intensivi) di drammaterapia o più strettamente collegati al teatro o alla terapia. In seguito,
20
Cfr. nota 123.
21
La stessa Jennings, in un’intervista a Phil Jones (JONES 2000, p. 90) afferma che “in qualche parte di me,
c’era la convinzione che nella prima parte della mia carriera teatrale, il processo drammatico fosse stato
realmente terapeutico per me. Mi aveva curato da un sacco di traumi infantili”.
18
tramite una collaborazione con il Kingsway College, l’associazione avvia e organizza un
programma, tuttora esistente, specificatamente dedicato a ‘dramma e movimento’ (Drama and
Movement), presso il Central School of Speech and Drama.
A partire dai primissimi anni Ottanta, la drammaterapia è riconosciuta in tutto il mondo come
un’alternativa allo psicodramma e dal 1977 l’Università di Hertfordshire decide di includere,
nella sua divisione di Arte e Psicologia, un piccolo gruppo di studenti di drammaterapia.
L’anno successivo, anche all’University College of Ripon and York St John prende avvio un
corso di drammaterapia e un terzo corso di diploma è istituito al South Devon Technical
College nel 1980. Nel 1988 il neo-nato ‘Institute of Dramatherapy’ di Londra istituisce un
diploma in drammaterapia che dà particolare rilievo alla disciplina teatrale.
Oltre alle succitate scuole (University of Hertfordshire, University College of Ripon and York
St John, South Devon College, The Institute of Dramatherapy at Roehampton, Central School
of Speech and Drama
22
), si sono aggiunti nel tempo i corsi organizzati dalle Università of
Exeter University di Aberystwyth e l’Ulster School of Speech and Drama, nonché
l’associazione nazionale dei drammaterapeuti inglesi
23
(cfr. www.aber.ac.uk e
www.badth.ision.co.uk).
Per quanto riguarda il resto d’Europa, l’Olanda ha da lungo tempo interesse nelle artiterapie e
nella stessa drammaterapia, ma la nazione europea che risulta più interessata dal connubio tra
arte teatrale e terapia risulta essere la Grecia che dal 1989 ha istituito uno specifico
programma di training in drammaterapia all’Art and Therapy Centre di Atene, in
collaborazione con i drammaterapeuti inglesi. Poco dopo, uno specifico corso è stato attivato
anche all’Istituto di Drammaterapia a Cipro
24
.
Negli anni Novanta, il panorama della drammaterapia, disciplina sempre più apprezzata,
conosciuta, utilizzata, si è arricchito con l’impiego di drammaterapeuti soprattutto in
situazioni di supporto psicologico in territori a forte tensione sociale, quali l’Irlanda del
22
Per un riepilogo di questi corsi e di quelli citati poco dopo, a livello europeo ed anche extra-europeo, e per
indirizzi ed ulteriori informazioni in merito agli stessi si rinvia all’indirizzario, contenuto nell’appendice 3.
23
Nel Regno Unito, a fianco a specifici programmi scolastici per la drammaterapia, esiste dalla fine degli anni
Settanta anche ‘The British Association for Dramatherapists’, l’organismo ufficiale che rappresenta i
drammaterapeuti e le loro pratiche professionali, impegnandosi a diffondere e tutelare la pratica con le autorità,
altre associazioni, stampa e media (vedi il sito web www.badth.ision.co.uk). Esso ammette al suo interno quattro
diverse categorie di soci, dagli associati (arteterapeuti, psicologi e psicoterapeuti interessati alla disciplina) agli
studenti.
24
Cfr. il saggio di Demys Kyriacou “The rainbow bridge and the divided space” in JENNINGS 1997, pp. 263-
268, in cui l’autore descrive le pratiche drammaterapeutiche utilizzate per favorire l’integrazione tra Greci
Ciprioti e Turchi Ciprioti.
19
Nord
25
o nello stato di Israele, dove tra l’altro è stato attivato un corso di diploma in
drammaterapia
26
.
Oltreoceano, secondo quanto riportato da Phil Jones (cfr. JONES 2000, pp. 93-94) nel 1971 i
primi corsi brevi in Drammaterapia iniziarono alla Turtle Bay Music School a New York.
Importante per l’emergere della disciplina e per l’avvio di corsi scolastici fu il lavoro e il
pensiero di Gertrude Schattner. Inizialmente la Schattner, coadiuvata da un drammaturgo,
adottò nel lavoro terapeutico le tecniche drammatiche e creò rappresentazioni con alcuni
sopravvissuti dai campi di concentramento nazisti. Parallelamente, come altri pionieri in
questo campo (si pensi all’operato di Slade, Lindqvist e della stessa Jennings) inizia
un’attività anche con un gruppo di bambini al Lincoln Square Neighborhood Centre a New
York. Nella stessa città, negli anni Settanta, fu coinvolta nell’allestimento dei primi corsi
presso la Turtle Bay. Infine, nel 1979 fu fondata l’associazione americana di Drammaterapia
27
e questo periodo vide la fondazione due programmi di Master in US: un MA in Psicologia con
un indirizzamento particolare verso la drammaterapia all’Antioch University a San Francisco
e un MA in Drama Therapy all’università di New York. Attualmente tengono corsi
riconosciuti le università di New York (qui opera e insegna il dott. Robert Landy), il
California Institute of Integral Studies (CIIS) e la Concordia University in Canada (cfr.
www.nadt.org)
28
.
25
Per l’operato dei drammaterapeuti nell’Irlanda del Nord, cfr. i tre saggi, tutti contenuti in JENNINGS 1997, di
Dan Baron Cohen e James King (“Dramatherapy: radical intervention or counter-insurgency ?”, pp. 269-283),
Tom Magill e Rosin Muldoon (“Making the law-breaking the law”, pp. 284-303), Crissiie Poulter (“Children of
the Troubles”, pp. 304-314), in cui i cinque saggisti non esitano ad affermare che la finalità terapeutica dei
progetti di tipo drammaterapeutico (soprattutto in progetti rivolti agli adolescenti e alla riduzione della micro-
criminalità) in Irlanda del Nord non può rescindere dall’attuale situazione politica dello stesso Stato.
26
Per l’operato in questi territori, si consiglia di approfondire con l’interveto di Mahnoor Yar Khan “The drama
has just begun”, contenuto in JENNINGS 1997, pp. 315-329, dove il terapeuta descrive il suo operato con un
gruppo di adolescenti, nell’ambito di un’attività scolastica.
27
L’associazione NADT fu costituita per stabilire e controllare gli standard di competenza professionale
dell’operato del drammaterapeuta. Quando essi sono riscontrati, il terapeuta si avvale della sigla RDT (registered
drama therapist). Esistono varie modalità associative, che vanno dall’affiliazione come studenti a quella di
membri qualificati per l’insegnamento (BCT). Nel dettaglio, è possibile associarsi, nell’ordine, in qualità di
semplice membro (member) qualora si sia conseguito un diploma in drammaterapia o in materie del campo
teatrale che stiano usando il mezzo teatrale con finalità terapeutiche; studente (student) qualora si stia seguendo
un corso universitario tra quelli riconosciuti dall’associazione; drammaterapeuta professionista e registrato
(professional RDT, Registered drama therapists) per quanti siano in possesso di un MA in drammaterapia, teatro
o scienze sociali, un training nell’ambito della disciplina e un’esperienza prolungata nel campo
drammaterapeutico; insegnante (BCT, Board Certified as a Teacher/Trainer/Mentor) per coloro che, dopo
cinque anni di presenza nell’associazione in qualità di RTD, abbiano conseguito la licenza all’insegnamento;
alleato professionale (allied professional) per quanti, pur provenendo da altre discipline, sono interessati all’uso
terapeutico del mezzo teatrale. Esiste infine un’affiliazione speciale per scuole, teatri e organizzazioni che
utilizzino il teatro per scopi educativi e terapeutici. Per ulteriori approfondimenti, vedi il sito web www.nadt.org.
28
Per approfondimenti in merito a questo paragrafo e per le informazioni ivi contenute, si rimanda a
MELDRUM 1994, JONES 2000, pp. 71-95 e che contiene interviste a Slade, Lindqvist e Jennings alle pp. 83-92,
nonché a JENNINGS 1994
a
, pp. XV-XX. Per la situazione della drammaterapia in Italia, qui non citata, cfr. il
cap. 7.