Dai primi passi sul terreno della liberalizzazione del commercio europeo
al Trattato istitutivo della CEE del 1957, che è stato il primo tentativo di
unificazione economica del continente ed ha posto, con il suo successo, le basi
per la prosecuzione dell’opera di integrazione. Un successo che è stato l’artefice
anche di quella pace e di quella stabilità che il continente europeo andava
cercando ormai da tempo e che sembra aver trovato.
Lo scopo di questo lavoro è quello di ripercorrere questo decennio e di
esaminare da vicino come l’Italia ne sia stata parte, sia da attore che da artefice
vero e proprio. Si cercherà in particolare di descrivere il processo di
liberalizzazione commerciale così come venne visto a sua tempo da parte
italiana, considerando anche la direzione, che a questo processo il paese volle
imprimere. Dalla liberalizzazione all’integrazione economica europea: il passo fu
breve, ma carico di aspettative e di paura, tale da renderlo una decisione alquanto
tormentata per il paese, che scelse comunque la strada migliore.
La tesi quindi ripercorre il processo di avvicinamento al Trattato che
compì l’Italia, divisa, non solo a livello governativo ma anche sociale, sulla
decisione da prendere. Da una parte gli industriali, con i loro timori verso
l’apertura dei mercati europei ma anche con le loro speranze, e dall’altra i
sindacati, anch’essi divisi e incerti fino alla fine. I lunghi negoziati antecedenti
alla firma del Trattato sono ripercorsi a grandi linee per mettere in luce
l’atteggiamento italiano, che in definitiva è sempre stato all’altezza della
situazione. Infine poi si è cercato di spiegare gli effetti sul nostro commercio
internazionale, per capire, se l’Unione Doganale delineata nel Trattato abbia
giovato o meno all’economia nazionale.
Il primo capitolo descrive la politica commerciale italiana negli anni
Cinquanta, mossa nel complesso dalla volontà di dirigersi, insieme a quel
processo di liberalizzazione già avviato nel continente europeo, verso un’apertura
via via maggiore del commercio internazionale. Da ricordare senz’altro in questo
periodo il ruolo fondamentale di Ugo La Malfa, che da convinto sostenitore degli
effetti positivi della liberalizzazione del commercio, spinse il paese, con una serie
di misure, proprio verso questo processo. Ma anche il Piano presentato all’OECE
dal Ministro Pella nel 1950, con la sua proposta di riduzione daziaria automatica
tanto simile a quella del Trattato CEE, è interessante e dimostra in anticipo le
direzioni verso le quali l’Italia intendeva muoversi. Nella prima parte degli anni
Cinquanta la direzione del commercio italiano si spostò sempre di più verso
l’Europa occidentale ed in modo particolare verso i partner della CECA,
Germania Occidentale in testa. Inoltre le esportazioni italiane crebbero a un tasso
annuo notevole nel periodo considerato e avvenne anche una certa riconversione
qualitativa nelle esportazioni italiane, verso beni più sofisticati e a più alto valore
aggiunto.
Il secondo capitolo descrive il cambiamento nell’atteggiamento degli
industriali italiani verso il Mercato Comune, che passò da una fase di resistenza
all’integrazione a una di partecipazione convinta e quasi aggressiva. Grazie a una
serie di inchieste dell’epoca si è cercato anche di delineare in modo più preciso
l’atteggiamento delle singole categorie produttive, che prese nell’insieme, non
possono non trasmettere alla fine una chiave interpretativa ottimistica
dell’industria italiana verso l’Unione Doganale della CEE. Anche per quanto
riguarda i sindacati è possibile delineare un processo di cambiamento
nell’approccio verso l’integrazione europea, anche se CISL e UIL si dichiararono
subito a favore di questo processo, pur se non con molto entusiasmo quando si
delinearono le prime caratteristiche della Comunità. La CGIL invece, in aperta
opposizione per tutta la metà degli anni Cinquanta all’integrazione di stampo
occidentale passò ad una visione più ottimistica verso un processo, in fin dei
conti, sostanzialmente positivo, pur se con qualche squilibrio da correggere.
Nel terzo capitolo vengono delineate le linee guida dell’atteggiamento
negoziale italiano dalla Conferenza di Messina del 1955 alla stipulazione dei
Trattati di Roma, che videro in estrema sintesi l’Italia, da una parte assecondare
l’apertura dei mercati per appoggiare l’espansione delle esportazioni e
consolidare ulteriormente le interdipendenze commerciali emerse negli anni
precedenti, e dall’altra negoziare meccanismi di compensazione e di
aggiustamento per favorire lo sviluppo del Meridione. Inoltre sono state
analizzate le disposizioni del Trattato CEE relative all’Unione Doganale, che
consistevano nell’abolizione dei dazi doganali e delle restrizioni quantitative tra
gli Stati membri e nella fissazione di una tariffa esterna comune che regolasse i
rapporti commerciali con gli Stati terzi.
Nel capitolo successivo si è cercato di descrivere il processo di attuazione
delle disposizioni del Trattato. La rimozione dei dazi e dei contingenti al
commercio interno della Comunità non provocò grandi difficoltà agli Stati
membri, che anzi terminarono il processo di smantellamento in anticipo rispetto
al calendario disposto dal Trattato. Qualche problema fu invece incontrato per la
creazione della tariffa esterna, che comunque alla fine vide la luce il 1° luglio
1968, dando inizio all’Unione Doganale tra i mercati nazionali dei paesi membri
della Comunità. In questa parte vengono anche considerati i rapporti tra la CEE
ed il GATT, che pur essendo caratterizzati da alcuni contrasti si risolsero sempre
in concessioni proficue per il commercio di ambedue le parti.
L’ultimo capitolo infine cerca di stabilire, tramite una serie di ricerche
pubblicate e con l’elaborazione di una serie di dati ISTAT, se l’Unione Doganale
abbia giovato alle esportazioni italiane e quindi allo sviluppo del paese.
Anticipando le conclusioni è possibile affermare che un «effetto-CEE» sul
commercio nazionale ci fu, ed anche di una entità piuttosto elevata, che contribuì
senza dubbio a trainare lo sviluppo del paese. Uno sviluppo a tratti dirompente
che dalla fine degli anni Cinquanta a circa il 1963 viene ricordato da tutti come il
miracolo economico italiano.
La tesi è basata su una serie di opere e di articoli e su documenti ufficiali
prodotti dalla Comunità Europea e da altre organizzazioni nazionali e
internazionali, nonché su una serie di dati statistici presenti in varie annate
dell’Annuario del commercio con l’estero dell’ISTAT, utilizzati per l’analisi del
commercio italiano con i paesi della Comunità.
CAPITOLO PRIMO
L’ITALIA E LA LIBERALIZZAZIONE DEL COMMERCIO EUROPEO
1. La liberalizzazione del commercio europeo e la politica commerciale italiana
dal dopoguerra al Trattato CEE
Per rendersi conto della notevole entità della liberalizzazione del
commercio avvenuta in Europa dopo la fine della Seconda guerra mondiale è
utile porla in relazione al regime commerciale maturato nel periodo tra le due
guerre, che era tutt’altro che liberale e anzi altamente restrittivo.
Il sistema degli scambi formatosi negli anni Trenta era essenzialmente
dominato dalle restrizioni quantitative: un vero labirinto di divieti e di esenzioni
e una miriade di accordi bilaterali di pagamento, di clearing e di compensazione
1
.
Gli accordi di clearing nacquero nei rapporti commerciali tra la Germania e la
Svizzera all’inizio degli anni Trenta. Essi stabilivano la costituzione di conti
centralizzati presso la banca centrale dove gli importatori versavano le somme
dovute ai venditori dell’altro paese e dai quali poi venivano prelevate le somme
destinate agli esportatori. I pagamenti venivano effettuati in ordine cronologico,
nei limiti della disponibilità esistente nel conto che era sempre in equilibrio: non
c’era credito né fiducia reciproca. Il passo successivo furono gli accordi di
pagamento, con i quali si ammetteva invece la possibilità di avere un deficit o un
surplus nei confronti del partner commerciale, quindi c’era un vero e proprio
credito reciproco fra Stati. Il limite di questi strumenti era la bilateralità, che
trasformava il commercio estero di un paese in un’insieme di linee parallele che
non s’incontravano mai
2
.
Un sistema nato dall’esigenza di ogni paese di rendere la propria politica
economica autonoma da qualsiasi disciplina esterna. Tutte le liberalizzazioni
avvenute negli anni Quaranta furono tutt’altro che realmente efficaci, essendo di
1
R. Ranieri, L’integrazione europea e gli ambienti economici italiani, in Storia dell’integrazione europea.
Volume I° - L’integrazione europea dalle origini alla nascita della CEE, a cura di R. H. Rainero,
Marzorati, Roma 1997.
2
G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana, Laterza, Bari 1993.
natura esclusivamente parziale e revocabile. Per trovare quindi le prime misure
utili in qualche modo alla liberalizzazione effettiva del commercio internazionale
bisogna aspettare fino agli inizi degli anni Cinquanta.
L’Europa postbellica si trovò dunque a dover affrontare il problema dei
dazi e dei contingentamenti. Questi ultimi furono la causa principale
dell’aumento delle barriere commerciali del dopoguerra, in quanto limitavano in
modo assoluto la quantità di merci che si potevano importare. I dazi erano di
importanza secondaria fintanto che, tramite i contingentamenti, i paesi potevano
determinare la quantità massima importabile di un prodotto e la sua provenienza.
La liberalizzazione fu, per certi versi, una via obbligata per l’Italia.
L’Italia è caratterizzata da una tradizionale povertà di materie prime: tutti i
prodotti naturali alla base dello sviluppo industriale di qualsiasi paese, come il
carbone, il ferro, il petrolio, ecc. sono assenti nella penisola. Perché l’industria si
sviluppi si devono per forza sviluppare le importazioni di materie prime,
dovendo necessariamente l’industria alimentarsi di esse. A sua volta lo sviluppo
delle importazioni esige quello delle esportazioni e quindi un’apertura
commerciale via via maggiore.
L’Italia decise di aprire la sua economia verso i paesi europei, e questa fu
quasi una scelta forzata di fronte a scarse alternative. Nel bacino del
Mediterraneo, se escludiamo i paesi balcanici entrati a far parte della zona
d’influenza sovietica, tutti i paesi erano sotto l’influsso economico e politico
francese o britannico. L’altra opportunità rappresentata dall’America Latina era
difficile da seguire a causa dei legami sempre più stretti che la univano agli Stati
Uniti. Proprio gli Stati Uniti, che vedevano con favore l’inserimento
dell’economia italiana in un blocco europeo coeso sia politicamente che
economicamente, si fecero promotori, alla fine del conflitto, della ripresa degli
scambi commerciali europei
3
. Spettò all’Organizzazione Europea di
Cooperazione Economica (OECE), dopo alcune pressioni ed insistenze
americane, e in particolare esercitate dall’Economic Cooperation Administration
(ECA), muovere i primi passi verso la liberalizzazione del commercio tramite la
3
A. Graziani, a cura di, L’economia italiana dal 1945 a oggi, Il Mulino, Bologna 1989.
riduzione dei contingenti all’importazione
4
.
L’OECE, creata nel 1948, definì una tabella di marcia, secondo cui
ciascun paese membro si impegnava a eliminare, entro determinate scadenze, i
contingenti su quote crescenti e prestabilite di importazioni dagli altri Stati
membri dell’organizzazione
5
. Così la prima tappa, stabilita dal Consiglio
dell’OECE nel novembre 1949, prevedeva che ciascun paese rimuovesse entro
un mese e mezzo i contingenti su un quantitativo di importazioni pari al 50% del
totale importato all’interno dell’area nel 1948. La liberalizzazione doveva
riguardare in modo equivalente le materie prime, i prodotti agricoli ed i prodotti
finiti. Ciò nonostante, solo nella primavera del 1951, l’OECE constatò qualche
progresso nella rimozione dei contingenti.
Alla fine del conflitto un’altra barriera al libero commercio era
rappresentata dall’inconvertibilità delle monete europee. Il commercio europeo
regredì a forme di baratto bilaterali mitigate dalla disponibilità di alcuni paesi a
concedere crediti e da un uso limitato di oro e di dollari per pagare i debiti
commerciali. In tutta Europa vennero conclusi numerosi accordi bilaterali di
pagamento, che tuttavia non riuscirono a risollevare il commercio europeo dalla
difficile situazione in cui si trovava. Con l’Unione Europea dei Pagamenti (UEP),
negoziata fra i membri dell’OECE e sottoscritta nel settembre 1950, si istituiva
un meccanismo di pagamenti multilaterale che assicurava la piena convertibilità
delle valute europee. Il meccanismo prevedeva fra i paesi membri l’estensione di
un volume di crediti reciproci, sufficiente a incoraggiare lo sviluppo degli
scambi. Ciascun paese membro si vedeva assegnata una quota iniziale, stabilita
in base al volume dei propri scambi con l’area. All’interno di essa era abilitato a
raggiungere un determinato passivo, generato dalle importazioni di merci,
regolabile tramite valuta nazionale o valute «soft». Se questo passivo fosse stato
superato il paese avrebbe dovuto saldare il debito con dollari o oro
6
.
4
C. Spagnolo, La stabilizzazione incompiuta : il piano Marshall in Italia (1947-1952), Carocci, Roma
2001; D. W. Ellwood, L' Europa ricostruita : politica ed economia tra Stati Uniti ed Europa occidentale
(1945-1955), Il Mulino, Bologna 1998.
5
R. Ranieri, L’integrazione europea…., op. cit.
6
F. Fauri, L’Italia e l’integrazione economica europea 1947-2000, Il Mulino, Bologna 2001; A. S.
Milward, The reconstruction of Western Europe (1945-1951), Routledge, London 1992.
1.1. La politica commerciale italiana dal 1947 al 1957
Per quanto riguarda l’Italia il processo di liberalizzazione commerciale
ebbe un rilevante ed immediato effetto positivo sulle esportazioni, specialmente
di quelle verso l’area OECE, che salirono dal 38,7% del totale nel 1948 a oltre il
50% del 1950 e del 1951. I principali mercati dell’area OECE per l’Italia erano
Francia, Gran Bretagna, Germania e Svizzera; del totale delle esportazioni circa i
tre quarti era composto da prodotti alimentari e tessili.
Man mano che il processo di rimozione dei contingenti avanzava, si creò
in Italia una spaccatura tra coloro che si dimostravano contrariati da tale processo
e coloro che invece si dimostravano pronti ad assecondarlo, riservandosi di
chiedere al governo contropartite sul terreno doganale. Tra le categorie più
protezioniste vi erano la gran parte dei produttori agricoli, la chimica, l’industria
automobilistica e gran parte della siderurgia. Tra le categorie più liberiste si
trovarono invece quelle tradizionalmente rivolte all’esportazione quali i tessili,
l’abbigliamento e la meccanica fine
7
.
Nel luglio 1950 venne introdotta la nuova tariffa doganale italiana,
articolata in modo da seguire da vicino il progetto di nomenclatura comune
elaborato a Bruxelles dal Bureau Tariffaire del Gruppo di Studi per l’Unione
Doganale Europea. La struttura tariffaria era basata sui dazi ad valorem e
sostituiva radicalmente quella precedente, sostanzialmente invariata dal 1921,
fondata principalmente sui dazi specifici resi ormai obsoleti dall’inflazione
8
. La
nuova tariffa era il risultato di una lunga mediazione fra i dazi proposti dalle
categorie, gli organi governativi e parlamentari. La sua incidenza media era
elevata e l’opinione diffusa era che la tariffa fosse stata concepita come
strumento di negoziazione e quindi come tetto massimo.
Prima ancora dell’entrata in vigore della nuova tariffa doganale, il governo
si affrettò a varare una tariffa temporanea della durata di un anno che prevedeva
7
R. Ranieri, L’integrazione europea…., op. cit.
8
C. M. Pierucci – A. Ulizzi, Evoluzione delle tariffe doganali italiane dei prodotti manufatti nel quadro
della integrazione economica europea, in Contributi alla Ricerca Economica n°3, Servizio studi della
Banca d’Italia, Roma 1973.
la riduzione automatica di tutti i dazi superiori all’11% da calcolarsi sulla base di
una formula empirica detta «formula Vanoni»: più il dazio era elevato, più il
taglio era forte. Con questo provvedimento l’incidenza media della tariffa legale
veniva così ridotta dal 24,4 al 17,6% della nuova tariffa d’uso
9
. Un valore questo
che posizionava la tariffa doganale, sia pure con poca differenza da quella della
Francia, al posto più alto tra quelle dei sei futuri paesi fondatori delle Comunità
Europee
10
. La tariffa d’uso venne successivamente rinnovata di anno in anno.
Il Piano presentato dal Ministro del Tesoro Pella al Consiglio dell’OECE
di Parigi nel luglio 1950 fissava i punti essenziali della strategia italiana a fronte
del processo di liberalizzazione. La parte interessante di tale progetto era quella
che invocava la creazione di un’area commerciale preferenziale istituita tramite
una riduzione automatica dei dazi (riduzione massima del 15% allo scadere del
terzo e del sesto anno dell’unione
11
) e una eliminazione delle restrizioni
quantitative da effettuare in circa dieci anni, in modo da raggiungere alla fine del
processo l’obiettivo di una zona di libero scambio, senza escludere una eventuale
unione doganale
12
.
Un Piano del genere era chiaramente influenzato dai vantaggi
all’esportazione che, in quel periodo, l’Italia otteneva dalla crescente
interdipendenza commerciale dell’area OECE. Inoltre optava per un metodo di
integrazione prettamente «orizzontale», rispetto ad altre esperienze di
integrazione di settore, come quella presente nel Piano del ministro degli Esteri
francese Schuman, verso cui sia l’industria che il governo italiano nutrivano
molta diffidenza. In effetti più che a un processo di integrazione si pensava a una
cauta cooperazione fra governi.
Il Piano Pella, presentato con il nome di Memorandum italiano per
l’integrazione economica europea, fu portato davanti al Consiglio dell’OECE
come risposta al Piano Strikker del giugno precedente, dal nome del Ministro
degli Esteri olandese, a favore di un’integrazione europea fondata sull’abolizione
9
F. Fauri, L’Italia e…., op. cit.
10
R. Ranieri, L’integrazione europea…., op. cit.
11
F. Fauri, L’Italia e…., op. cit.
12
R. Petri, Dalla ricostruzione al miracolo economico, in Storia d’Italia, a cura di G. Sabbatucci - V.
Vidotto, Laterza, Roma-Bari
«per settori» di dazi e contingentamenti, da attuare a turno a un settore industriale
dopo l’altro. E’ doveroso citare inoltre il terzo piano presentato all’OECE, e cioè
il Piano Petsche del ministro delle Finanze francese che mirava in pratica
all’abolizione delle restrizioni quantitative sui movimenti di capitale, lavoro e
merci. Il Consiglio dell’OECE prese in considerazione tutti e tre i piani per
ricavarne un eventuale progetto comune di integrazione europea; tuttavia,
nessuna di queste tre proposte andò oltre lo stadio di discussione e con l’autunno
del 1951 vennero lasciate definitivamente cadere. La fatica di chi aveva lavorato
a questi progetti non andò comunque del tutto sprecata dato che alcune proposte
vennero riprese in seguito per il Trattato CEE. Dal Piano Pella, ad esempio verrà
ripreso l’elemento innovatore dell’automaticità delle riduzioni daziarie che ha
garantito l’irreversibilità del cammino verso l’unione doganale in seno alla CEE.
Oltre ai tre suddetti piani anche il progetto di unione doganale italo-
francese e le successive trattative Fritalux-Finibel sulla creazione di un’unione
economica europea non ebbero successo. Ciononostante, il Trattato CEE non è
poi così lontano da quel progetto di cooperazione e integrazione economica
europea frutto delle varie proposte elaborate dai paesi coinvolti in questi
negoziati. Molte delle proposte erano semplici dichiarazioni di buone intenzioni,
dato che esistevano ancora delle forti riserve, riconducibili per l’Italia alla
riduzione drastica dei dazi e per la Francia alla minaccia economica tedesca in
un’eventuale unione europea con la Germania. Solo un progetto di unione più
limitato e settoriale riuscì di lì a poco a vincere gli scetticismi e finalmente ad
unire i sei paesi in un disegno meno ambizioso ma pur sempre fondamentale nel
processo dell’integrazione europea. Era il 18 aprile 1951 e i rappresentanti di
Francia, Germania Occidentale, Italia e paesi del Benelux firmarono il Trattato di
Parigi che istituiva la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA)
13
.
L’espansione collegata al «ciclo coreano», che ebbe inizio verso la metà
del 1950, vivacizzò le attività economiche dirette alla crescente domanda estera,
ed in particolare le esportazioni meccaniche italiane, che si andarono ad
13
F. Fauri, L’Italia e…., op. cit.; D. Spierenburg and R. Poidevin, The history of the high authority of the
European coal and steel community : supranationality in operation, Weidenfeld and Nicolson, London
1994.
affiancare a quelle già sostenute di prodotti tessili ed alimentari verso i mercati
europei. Si registrò, inoltre, anche un forte aumento delle importazioni di beni di
investimento, come materie prime e beni strumentali, in quanto giungevano al
termine iniziative di spesa pubblica di una certa entità.
La crescente corrente di esportazioni italiane in Europa ebbe l’effetto di
creare un avanzo della bilancia commerciale, che si tradusse in credito nei
confronti dell’Unione Europea dei Pagamenti, solo in parte realizzabile in
moneta forte. Con l’esaurirsi del boom, nel corso dell’anno successivo, a questo
attivo si affiancò un deficit crescente verso l’area del dollaro, dato che la maggior
parte delle importazioni italiane veniva fatturata in questa moneta. Una
situazione, questa, che mise in allarme le autorità monetarie
14
.
Fu l’allora Ministro del Commercio Estero La Malfa
15
a prendere una
serie di provvedimenti, nel novembre 1951, volti al superamento di quella
scomoda situazione. La Malfa divenne ministro del Commercio Estero nel 1951
ed era un convinto sostenitore degli effetti positivi della liberalizzazione del
commercio sul sistema economico. Inoltre credeva che la liberalizzazione
dovesse essere raggiunta senza soggiacere alle interferenze di alcuni settori
economici, che fino ad allora erano stati protetti da alte tariffe doganali. La
soluzione più ovvia e tradizionale per limitare gli attivi nella bilancia
commerciale italiana nei confronti dell’UEP sarebbe stata quella di reintrodurre
provvedimenti restrittivi delle esportazioni. La Malfa invece, scelse
coraggiosamente la strada opposta e con decisione unilaterale, senza negoziare
quindi condizioni di reciprocità con i vari partner commerciali, portò la
percentuale di liberalizzazione delle importazioni dall’area OECE fino al 99,7%,
e nel contempo decretò una riduzione generalizzata del 10% dei dazi doganali
che ridusse l’incidenza media della tariffa generale dal 24,4 al 14,5% della tariffa
d’uso
16
. In questo modo l’aggiustamento sarebbe avvenuto con un aumento delle
14
R. Ranieri, L’integrazione europea…., op. cit.
15
P. J. Cook, Ugo La Malfa, Il Mulino, Bologna 1999; L. Mechi, L'inizio dell’integrazione economica
europea: Ugo La Malfa e la liberalizzazione degli scambi del 1951, in Annali dell’Istituto Ugo La Malfa,
vol. XIV, 1999; L. Mechi, La politica europea di Ugo La Malfa Ministro del primo centrosinistra, in
Annali dell’Istituto Ugo La Malfa, vol. XV, 2000; L. Mechi, L’Europa di Ugo La Malfa. La via italiana
alla modernizzazione (1942-1979), Franco Angeli, Milano 2003.
16
F. Fauri, L’Italia e…., op. cit.
importazioni senza passare per una riduzione della capacità esportativa del paese,
che avrebbe ridimensionato il vigore delle industrie. Era una strada rischiosa
17
.
Successivamente decreti amministrativi continuarono a prolungare la validità
della tariffa d’uso fino all’istituzione del Mercato Comune Europeo. Fra i
prodotti liberalizzati vi furono molti prodotti tessili e meccanici di notevole
importanza, che fino a quel momento rappresentavano le roccaforti
protezionistiche per eccellenza. Vennero, contemporaneamente, aumentati i
finanziamenti per l’accumulazione di scorte di generi alimentari e materie prime
da effettuarsi prevalentemente nell’area della sterlina
18
.
Lo 0,3% di importazioni private ancora condizionate dai contingentamenti
era rappresentato da un gruppo eterogeneo di prodotti che il governo era deciso a
continuare a proteggere. Le restrizioni riguardavano la seguente produzione: latte
e crema di latte, vino e mosto, frumento e farina di frumento, sale, zolfo, acido
citrico, suoi sali ed esteri, penicillina e specialità medicinali contenenti
penicillina, sughero naturale, macchine per la stampa e infine automobili e
carrozzerie di automobili e motocicli (fino a 190 kg di peso). Queste merci
potevano essere importate solo su autorizzazione del Ministero del Commercio
Estero che rilasciava speciali licenze nei limiti dei contingentamenti fissati
bilateralmente con i vari paesi dell’OECE. Tra questi, forse il caso più
significativo è quello degli autoveicoli, protetti da alti dazi e pesanti restrizioni
quantitative, in modo da far rimanere il mercato interno prerogativa della
produzione nazionale
19
.
Con tali manovre La Malfa voleva accelerare la crescita
dell’interdipendenza dell’Italia rispetto all’area europea occidentale e
incoraggiare una riconversione delle importazioni dall’area del dollaro ai mercati
europei occidentali. Nonostante il permanere di una cospicua lista di prodotti
soggetti a licenze per l’importazione, frutto in parte di concessioni alle pressioni
di singole categorie produttive, le misure di liberalizzazione non furono ben viste
dalla gran parte del mondo economico e anche da alcuni esponenti del governo.
17
G. Carli, Cinquant’anni di…., op. cit.
18
R. Ranieri, L’integrazione europea…., op. cit.
19
F. Fauri, L’Italia e…., op. cit.
Gli industriali criticavano, in sostanza, il carattere unilaterale che sottostava alla
rimozione dei contingenti e alla riduzione tariffaria, contraddicendo
l’impostazione più prudente del Piano Pella
20
.
Gli effetti della liberalizzazione furono concreti, dato che aumentarono
cospicuamente le importazioni dei beni liberati, la grande maggioranza delle
quali era di beni industriali. Il processo si innestò, inoltre, sulla ripresa da parte
dell’economia tedesca della posizione di prima fornitrice di beni d’investimento
a scapito degli Stati Uniti d’America. Le esportazioni invece calarono in maniera
vistosa; il calo era da imputare principalmente alla sospensione delle
liberalizzazioni in Francia, in Inghilterra e nell’area della sterlina, decise a causa
dei crescenti deficit di bilancio. Nel caso francese, in particolare, per la gravità
della crisi, le restrizioni furono particolarmente prolungate ed ebbero rilevanti
effetti di lungo periodo. Questi sviluppi del commercio estero erosero
velocemente il credito che l’Italia vantava nell’Unione Europea dei Pagamenti,
tanto che fu seguito, altrettanto celermente, da un passivo ingente quasi
esclusivamente nei confronti del franco e della sterlina, che si sommava al
persistente deficit verso l’area del dollaro. Fu solo a partire dal 1953 che la
situazione cominciò a migliorare, grazie anche al ripristino delle misure di
liberalizzazione da parte di Francia ed Inghilterra, oltre che a un netto calo delle
importazioni dall’area del dollaro. Successivamente la situazione migliorò
ancora, grazie a una crescita sostenuta degli scambi fra i paesi europei occidentali
e a una forte ripresa delle esportazioni italiane che raggiunsero livelli mai toccati
in precedenza
21
.
Nel periodo che intercorre tra la fine del 1949 e la fine del 1953 le
importazioni italiane aumentarono del 253%, mentre le esportazioni si erano
accresciute del 131%. La nostra presenza nel commercio tra i Paesi dell’Unione
era salita del 188%. Certo la posizione italiana presentava dei disavanzi, ma
aveva allargato il suo mercato di sbocco in una misura eccezionale, che rese poi
20
F. Romero e L. Segreto, a cura di, Italia, Europa, America. L’integrazione internazionale dell’economia
italiana (1945-1963), in Studi storici, a. 1996, n. 1.
21
R. Ranieri, L’integrazione europea…., op. cit.
possibile la grande esplosione produttiva della fine degli anni Cinquanta
22
.
La scommessa delle misure di La Malfa, su un crescente livello di
interdipendenza europea, ebbe quindi successo. Con la Conferenza di Messina
del 1955 l’Italia si rese disponibile a compiere un ulteriore passo sulla strada
tracciata dall’interdipendenza europea: quello cioè verso forme di integrazione
vincolanti. La Conferenza di Messina segna quindi in qualche modo il passaggio
da una forma più lieve ad una più decisa di integrazione, da quella
dell’interdipendenza confermata dalle stesse misure di La Malfa del 1951 alla
volontà di consolidare questo processo in una scelta di integrazione dai contorni
molto più netti e decisi.
Le critiche ai provvedimenti di liberalizzazione, che avevano raggiunto il
culmine tra il 1952 e il 1953, lentamente si dileguarono, grazie soprattutto al fatto
che il meccanismo dell’Unione Europea dei Pagamenti finanziava abbastanza
generosamente la posizione debitrice dell’Italia. Nel periodo tra il 1952 e il 1955,
i passivi italiani aumentarono sempre di più, di modo che l’Italia riuscì a
beneficiare, tramite i crediti aperti dall’UEP per gli scambi commerciali, di una
sorta di finanziamento internazionale molto conveniente
23
.
L’apertura del commercio realizzata con le misure del 1951, che aveva
reso l’Italia il paese in assoluto con il più basso grado di protezionismo esterno,
venne mantenuta e divenne per l’Italia un argomento di valore da utilizzare nelle
trattative commerciali con i partner dell’OECE. Bisogna comunque sottolineare
che i progressi raggiunti dall’Italia nel campo della liberalizzazione non vennero
eguagliati da nessun altro paese membro dell’organizzazione
24
, che soffriva nel
raggiungere risultati soddisfacenti a causa della sua impostazione rivolta solo ad
eliminare le barriere quantitative. Era sempre più evidente inoltre che la quota
residua dei contingenti da rimuovere rappresentava per molti paesi una serie di
prodotti non competitivi o collocabili in una sfera di interessi privati tutt’altro
che deboli: per prodotti del genere era difficile intaccare i diritti acquisiti.
22
G. Carli, Cinquant’anni di…., op. cit.
23
R. Ranieri, L’integrazione europea…., op. cit.
24
F. Fauri, L’Italia e…., op. cit.
Tabella 1 – Percentuale di importazioni esenti da restrizioni quantitative nei futuri membri della
CEE
1955
1952 1953
Prodotti
agricoli
Materie
prime
Prodotti
finiti
Italia 99,7 99,7 99,8 100,0 99,0
Olanda 75,0 92,6 85,6 99,5 89,2
Germania 81,0 90,1 79,4 97,8 93,7
Belgio-
Lussemburgo
75,0 87,2 61,3 100,0 92,0
Francia 0,0 17,9 61,6 93,5 61,0
Fonte: F. Fauri, L’Italia e…., op. cit., Tab. 2.1.
1.2. L’Italia e i round del GATT
L’Italia, come abbiamo visto, abbracciò completamente la politica di
liberalizzazione dell’OECE, ma fece più fatica a discostarsi dall’uso tradizionale
della protezione tariffaria. Le riduzioni daziarie multilaterali erano oggetto di
negoziati, o round, sotto l’egida dell’Accordo Generale sulle Tariffe e sul
Commercio (GATT), istituito a Ginevra nel 1947. A Ginevra i 23 paesi membri
del GATT si impegnarono a ridurre i dazi sulla base di negoziati bilaterali e
multilaterali, tra cui i primi furono le Conferenze di Annecy nel 1949, di Torquay
nel 1950-1951 e di Ginevra nel 1955-1956.