INTRODUZIONE
Come viene percepito il lavoro nel corso della storia? Qual è il suo
significato? Tausky individua due scuole di pensiero che hanno visioni opposte
circa la concezione del lavoro. Per alcuni autori - come Marx e, in misura
maggiore, Erikson - il lavoro è un’attività fortemente desiderabile, è la libera
espressione dell’uomo; la molla che spinge l’uomo a lavorare è la soddisfazione
intrinseca, e il lavoro è dunque fine a se stesso (optimistic perspective). «Human
beings are, quite literally, made for work […] working is in our bones, in the very
tissues of our being […] Is necessary for humans to fulfill their true nature»
(Erikson, 1990, pp.20-21)
1
. Per altri autori invece - primo fra tutti Freud - il lavoro
determina inevitabilmente l’infelicità dell’uomo: gli individui lavorano solo per
necessità, ma se potessero non lo farebbero, poiché l’uomo non è naturalmente
predisposto alla fatica. In tale prospettiva l’unico stimolo a lavorare è
rappresentato da un incentivo, da una ricompensa esterna che può essere di natura
economica o sociale (pessimistic perspective). Marx, come si vedrà nel nostro
primo capitolo, percepisce nella natura umana un’inclinazione al lavoro del tutto
naturale; con la nascita del capitalismo, tuttavia, l’individuo inizia a perdere il
senso dell’attività lavorativa. Questi, vendendo la propria forza-lavoro ad altri,
viene infatti espropriato del prodotto della sua fatica; i ritmi lavorativi dettati
dall’esterno generano sentimenti di frustrazione e disaffezione, espressione di un
lavoro in tal senso “alienato”. Proponiamo, a questo proposito, due contributi del
citato Tausky:
1
«Gli esseri umani sono fatti propriamente per il lavoro […] il lavoro è nelle nostre ossa, nei
tessuti del nostro essere […] E’ indispensabile per gli uomini realizzare la loro vera natura».
Traduzione nostra.
Alienation is the consequence of a historically specific arrangement regarding productive
property […] When alienated labor gives away to non-alienated labor, work will be fulfilling […]
it will spontaneously stimulate physical and mental energy, it will correspond to humans’ nature
(Tausky, 1992, p.8)
2
.
The hand is occupied while the brain is not, the machine or distant planners dictate the
rhythms and motions of work […] the sense of comradeship and community is blocked
(ibidem, p.10)
3
.
Similmente, nelle parole di Erikson:
Alienation is a condition that is registered somewhere in the persons’mind or spirit or body
and is reflected in actual behavior (Erikson, 1990, p.30)
4
.
E’ da queste basi che prenderemo spunto per il nostro studio: un’analisi che, come
si evince dal titolo, sarà articolata in due momenti. Nella prima parte, di stampo
teorico, ripercorreremo il pensiero di alcuni classici (Hegel, Feuerbach, Marx,
Lukács, Simmel, Marcuse, Horkheimer e Adorno) approfondendo le loro teorie
sulla società e sul lavoro; prenderemo poi in esame ricerche sociologiche più
moderne (Walker e Guest, Blauner, Bonazzi), incentrate su particolari luoghi e
condizioni di lavoro, per spingerci infine verso nuove “frontiere” - come le
abbiamo battezzate - dell’idea di alienazione. Verranno così delineate le tappe
evolutive di tale concetto, dalle origini sino alle rielaborazioni successive, al fine
di individuare nuovi percorsi di lettura e interpretazione da poter adeguare al
mondo del lavoro contemporaneo; sarà dedicato ampio spazio, in particolare, ai
caratteri assunti negli ultimi anni da tale mondo, alle trasformazioni del lavoro e
all’affermazione del cosiddetto “post-industriale”. Le riflessioni fatte via via
spianeranno il terreno alla ricerca sul campo e ci condurranno alla seconda parte
dello studio: dopo un capitolo introduttivo, che cercherà di mettere a fuoco
compiutamente l’oggetto di analisi (aprendo anche una parentesi sul tessuto
produttivo bolognese), si entrerà nel merito degli aspetti metodologici,
esplicitando le scelte compiute a monte, i criteri di campionamento e illustrando
2
«L’alienazione è la conseguenza di un assetto storicamente determinato riguardante la proprietà
produttiva […] Quando il lavoro alienato lascerà il posto al lavoro non-alienato, lavorare diventerà
appagante […] il lavoro stimolerà spontaneamente l’energia fisica e mentale e si confarà alla
natura degli uomini». Traduzione nostra.
3
«La mano è occupata mentre il cervello non lo è, le macchine dettano i ritmi e i movimenti del
lavoro […] cameratismo e spirito di gruppo sono inibiti». Traduzione nostra.
4
«L’alienazione è una condizione che prende forma in qualche parte della mente, dello spirito o
del corpo degli uomini e che si riflette nel comportamento reale». Traduzione nostra.
nel dettaglio lo strumento di indagine. Lo studio si chiuderà con l’analisi e la
trattazione sistematica dei dati raccolti che, opportunamente incrociati, possano
dirci qualcosa di nuovo o dare conto, quantomeno, delle condizioni, degli stati
psicologici e delle attese dei lavoratori raggiunti.
Per l’articolazione interna dei vari capitoli - sei in tutto - rimandiamo alle
singole introduzioni; in questa sede preferiamo soffermarci, piuttosto, sugli
interrogativi che hanno guidato la nascita e gli sviluppi successivi dell’indagine.
L’obiettivo di fondo era vedere se quello dell’alienazione può essere considerato
un problema sociologico ancora attuale: se è vero che in certi luoghi di lavoro
permangono condizioni di sfruttamento o sentimenti di insoddisfazione tali da far
pensare a quello stato peculiare descrittoci, oltre un secolo fa, dai classici.
Abbiamo trattato l’alienazione, al tal fine, come teoria sociale (prima parte) e
come fenomeno empiricamente indagabile (seconda parte), lasciando che i nostri
assunti si trasformassero in domande mirate sulle condizioni dei lavoratori
intervistati, sul loro rapporto con la professione svolta e sui possibili riflessi nel
privato. Esiste ancora, in definitiva, un problema di alienazione nel lavoro? Se sì,
quanto incide sulla vita privata degli individui? E’ vero che il disagio provato sul
lavoro può manifestarsi indirettamente attraverso l’insorgere di stati patologici
per l’individuo e l’intera società (es. assenteismo, licenziamenti volontari, stati
depressivi)? E ancora, che rapporto intercorre tra i sentimenti di alienazione
alimentati in certi casi dal lavoro e l’auto-realizzazione individuale, esigenza
irrinunciabile dell’uomo post-moderno?
Marx, a giudizio di Fromm, credeva che la classe operaia fosse la più
estraniata, ma non poteva immaginare che l’alienazione sarebbe diventata il
destino della maggioranza della popolazione: impiegati, addetti alle vendite e
dirigenti sono addirittura più alienati, per questo autore, dei lavoratori manuali
specializzati (Fromm, 1961). Senza voler abbracciare simili tesi, che ci paiono per
certi aspetti ardite, riteniamo che il concetto di alienazione possa avere a tutt’oggi
ragione d’essere e conservare, sotto la medesima o denominazioni analoghe, una
sua forza e attualità. Le pagine che seguiranno, compendio fra trattazione teorica e
ricerca sul campo, consentiranno di addentrarsi più a fondo in questa sfera,
facendone emergere limiti, potenzialità ed implicazioni.
Alienazione e lavoro: il problema dell’alienazione nello scenario lavorativo
postindustriale. Un approfondimento teorico e una ricerca empirica.
- Presentazione -
L’obiettivo della mia tesi è stato provare capire se, alla luce delle profonde
trasformazioni che negli ultimi decenni hanno investito il mondo del lavoro e, più
in generale, l’intera società, sia ancora opportuno parlare di “alienazione”,
categoria concettuale superata, per alcuni, patologia sociale ancora viva per
altri. Prendendo le mosse dai contributi dei classici, e passando attraverso
l’analisi di studi più recenti, ho sviluppato una riflessione che mi ha portato sino
al presente. Il lavoro, oggi, è qualcosa su cui si ha controllo o da cui si è
dominati? E’ fonte di coinvolgimento e auto-espressione o, al contrario, di
distacco e scontento? L’alienazione è un concetto che ha avuto grande rilevanza
nella storia del pensiero filosofico e sociologico, e su cui si sono dibattuti
numerosissimi autori. Sull’alienazione del lavoratore sembrava essere già stato
scritto tutto, e non è stato facile dare nuova forma a una tematica che pareva
indissolubilmente legata a una precisa epoca storica e, per molti, tramontata con
essa. Ho tentato, nel mio studio, di individuare alcuni percorsi nuovi,
avvicinando il tema in esame a problematiche più attuali. Ho voluto
approfondire, ad esempio, la tematica del riconoscimento, legata al bisogno di
auto-realizzazione del singolo: il senso di disagio derivante da una professione
scarsamente riconosciuta può favorire l’estraniazione? Nello scenario lavorativo
post-industriale emergono poi nuovi tipi di problemi: il rapporto tra il lavoratore
e una tecnologia sempre più avanzata rischia ad esempio di generare, a detta di
alcuni, nuovi sentimenti alienanti (l’abitudine a operare col computer, e con la
sua logica binaria, impone una sorta di frantumazione nel modo di pensare). Per
studiare queste tematiche da un punto di vista per così dire “interno” ho
costruito un questionario, l’ho proposto ad alcuni lavoratori e ho raccolto le loro
opinioni. Mi sono posta di fronte ai risultati con la cautela doverosa propria di
indagini “piccole”, ma sono riuscita, al termine, a trovare una rispondenza
soddisfacente tra le domande di fondo e certi orientamenti emersi: mi sono resa
conto di come certe percezioni (perdita del senso globale, motivazioni deboli, etc.)
riescano ancora, talvolta, ad affiorare, condizionando il rapporto dell’individuo
col proprio lavoro, coi propri simili, con se stesso.
Entrando nel merito dell’articolazione della tesi, nella prima parte - di
carattere teorico - ho ripercorso il pensiero di alcuni classici (dalle prime
formulazioni hegeliane alle denunce della Scuola di Francoforte), delineando le
fasi salienti dell’evoluzione del concetto; successivamente, ho preso in esame
alcune ricerche empiriche condotte tra gli anni Cinquanta e Sessanta - anni in
cui le condizioni dei lavoratori erano oggetto di profonde attenzioni - mettendone
in luce meriti e limiti. Ho poi avviato una riflessione sulle trasformazioni del
lavoro e, in senso lato, della società: cambiamenti che ci danno la percezione di
essere entrati, per molti aspetti, in una nuova era. Tale riflessione ha costituito
la “cerniera” tra approfondimento teorico e ricerca sul campo: ricerca che ha
preso il via da alcune domande-guida e che si è avvalsa di un questionario
somministrato a cinquantuno lavoratori occupati in tre aziende del bolognese. In
un’ottica comparativa, abbiamo voluto garantire la presenza di settori di attività
distinti: più precisamente, alimentare, meccanico e commerciale. Per quanto
attiene alla qualifica si è fatto in modo che, all’interno di una stessa realtà, i
lavoratori appartenessero a livelli professionali molto vicini. L’obiettivo - è
doveroso precisarlo - non era ottenere risultati generalizzabili, ma testare
l’efficacia di uno strumento pensato e costruito per raccogliere informazioni su
un dato tema: un esercizio di ricerca che potesse dirci, ex post, se lo strumento
di indagine e i quesiti sottesi avevano una loro validità. Il campione utilizzato
(che ho preferito chiamare “insieme di riferimento empirico”), pur non avendo
ambizioni di rappresentatività statistica, ha rappresentato un osservatorio di
orientamenti, percezioni ed attese verso una data condizione professionale. Il
questionario era composto da quarantacinque domande, in prevalenza chiuse,
raggruppate in sei blocchi tematici. Le risposte raccolte sono state elaborate con
l’ausilio di SPSS, uno dei programmi statistici più diffusi nell’ambito delle
scienze sociali, e l’analisi dei dati si è sviluppata in due momenti distinti: calcolo
delle frequenze nella prima fase, creazione e interpretazione degli incroci nella
seconda. Tra le variabili disponibili - trentasette in tutto - si è scelto di incrociare
le più significative: quelle in grado, una volta associate, di “dirci” qualcosa. Tali
variabili sono il sesso, l’età e il titolo di studio dei soggetti, incrociate con
domande attinenti i rapporti umani, la soddisfazione professionale, le aspettative
di carriera. I maggiori sintomi di disagio sembrano riscontrarsi, a prescindere
dal genere, nei soggetti meno giovani e nelle qualifiche più basse: questo a causa
di mansioni poco gratificanti e di un margine di autonomia molto ridotto, che
ridimensionano fortemente il potenziale creativo dei singoli.
Tutto ciò si traduce, in alcuni casi, in quel senso di estraniamento studiato
a fondo nella prima parte e in uno scarso coinvolgimento nei confronti del
proprio lavoro. Per un’analisi più approfondita delle risultanze emerse rimando
alla consultazione integrale dell’elaborato, e mi limito qui a concludere che il
fenomeno dell’alienazione non sembra destinato a scomparire del tutto: tale tesi
è avvalorata anche da molti autori contemporanei (ricordiamo - per citarne
alcuni - Hodson, Ashforth, Powell, Paugam) che, ricorrendo magari a termini
analoghi, ci invitano a riflettere su potenzialità rimaste inespresse o su negazioni
della dignità umana proprie di molti ambienti di lavoro.
L’obiettivo del mio studio era rilevare l’insorgenza, nei lavoratori
contemporanei, di orientamenti riconducibili all’alienazione. Le conclusioni tratte
mi avvicinano alle posizioni di chi la considera una patologia ancora attuale, a
livello sia “micro” che “macro”, e radicata tuttora in particolari realtà
professionali: un fenomeno che può assumere connotazioni diverse, manifestarsi
in modo più o meno esplicito, ma che incide fortemente, in ogni caso, sulla
qualità del lavoro odierno.
(Valeria Andreani)