sviluppano, appunto, la loro identità di genere. In seguito si
analizza il concetto di complessità sociale (termine molto
utilizzato negli studi sociologici per interpretare la società
contemporanea) mettendolo in stretta relazione con quello di
identità (di genere) femminile. E' al termine del primo capitolo
che, attraverso gli studi di Chiara Saraceno e Laura Balbo, si
individua l'esistenza di un'identità di genere femminile definibile
come "work in progress" oppure come "patchwork": l'identità
femminile sarebbe cioè un elemento in continua transizione che le
donne tentano di volta in volta di stabilire attraverso una costante
ridefinizione degli equilibri fra esperienze, situazioni e dimensioni
di vita e significato spesso tra loro contraddittorie.
Il secondo capitolo invece sintetizza il punto di vista che le
scienze sociali hanno proposto, fino a qualche decennio fa, a
proposito delle caratteristiche di genere e dei ruoli sociali ad esse
collegati (propri cioè dell'uomo e della donna) presenti nella
società occidentale. In questo senso, dopo una breve introduzione
iniziale, vengono presentate le teorie riguardanti questo tema, di
alcuni fra gli studiosi più conosciuti delle scienze sociali, come
Jean-Jacques Rousseau, Sigmund Freud, Talcott Parsons e Karl
Marx e Friedrich Engels.
Nel terzo capitolo sono presentati i contesti storico e sociologico a
cui questa ricerca fa continuamente riferimento: se da una parte
quindi sono descritti i mutamenti di tipo economico, storico e
sociale che hanno caratterizzato il contesto italiano dal secondo
dopoguerra ad oggi, dall'altra è descritta una delle conseguenze di
questi numerosi e complessi cambiamenti, vale a dire la
femminilizzazione della società (intesa come processo di crescente
visibilità sociale del genere femminile). Vista la grande quantità di
studi elaborati a partire dalla metà degli anni '70 sul tema della
condizione femminile, si è cercato poi di organizzare un breve
excursus di quegli studi che nel panorama sociologico italiano
hanno trattato il tema della condizione femminile, prendendo in
considerazione soprattutto l'enorme influenza che i lavori di Ulrike
Prokop hanno esercitato all'interno dello stesso. In tal senso,
partendo dalla figura di donna che vive in modo disarmonico
l'uscita dall'ambito extradomestico individuata da Franco Bonazzi
e Gianpaolo Catelli (1977), si passa con Ulrike Prokop (1978)
all'immagine di donna orientata ai bisogni degli altri che quindi
tende a manifestare questo "carattere sociale" anche in ambiti
diversi da quello domestico, in cui primariamente lo sviluppa. In
seguito si analizza il concetto di scambio simbolico allargato
elaborato, riprendendo in parte il concetto di interazione orientata
ai bisogni appena descritto, da Pier Paolo Donati e Costantino
Cipolla (1978), per poi passare al concetto di doppia presenza
(1978), che è stato ampiamente utilizzato come chiave di lettura
per studiare lo sviluppo di una nuova soggettività femminile.
Infine si è prima indagato il concetto di reversibilità significante
(Achille Ardigò, Costantino Cipolla, 1985), inteso come strategia
emancipativa attuata dalla donna che si esplicita nella domanda di
inversione sociale di ruoli e funzioni fra maschio e femmina, per
poi concludere con il più innovativo concetto di compatibilità o
pluripresenza compatibile individuato da C. Cipolla (1994). La
donna, in pratica, farebbe emergere la propria specificità di genere
mettendo in atto una strategia e concezione di vita basate sulla
pluralizzazione delle esperienze di vita e di significato con la
volontà precisa di conciliare in modo equilibrato queste diverse
dimensioni esistenziali.
Il quarto capitolo della parte teorica è dedicato al concetto di
partecipazione politica. Essendo anche questo un concetto molto
vasto ed ampiamente analizzato, si è tentato di riassumere
brevemente, ma tenendo in considerazione i limiti e al tempo
stesso le aperture che una sintesi può comportare, gli studi,
considerati più completi ed autorevoli. In tal senso si è analizzata
la definizione proposta da Maurizio Cotta per il quale, in primo
luogo, partecipare significa sia prendere parte che essere parte
(precisazione che è stata ampiamente riutilizzata da altri teorici
della partecipazione politica), quindi è stato riportato il pensiero
di Giuseppe Sorgi, il quale, oltre a presentare una breve storia
della nascita e dello sviluppo della partecipazione politica nella
società occidentale, ha anche elaborato alcune categorie che
raccolgono/sintetizzano i vari tipi di partecipazione politica.
All'interno dello stesso capitolo si è poi approfondito il rapporto
fra donne e partecipazione politica, individuando quegli studi che
hanno indagato in modo specifico questo tema. Oltre a C. Cipolla
(1985) e Giovanna Zincone (1985) e Giulia Paola Di Nicola (1983)
che hanno tentato di spiegare le ragioni della scarsa partecipazione
politica femminile e le modalità specifiche di tale partecipazione,
è da sottolineare il saggio sulla partecipazione politica e sociale
femminile all'interno del già citato volume curato da C. Cipolla
(1994). Qui, infatti, è sostenuta una tesi molto interessante, che è
poi stata utilizzata, in parte, per elaborare gli scopi di questa
ricerca, secondo la quale la partecipazione politica femminile è
caratterizzata prevalentemente dagli elementi di diffusività ed
affettività rispetto a quelli più specificamente maschili di
specificità e neutralità affettiva.
La parte empirica costituisce la seconda ed ultima parte della
ricerca. Molte delle numerose teorie riportate nella parte teorica
svolgono qui una funzione fondamentale sia nella parte dedicata
alla descrizione degli scopi che hanno portato alla realizzazione di
questo studio, sia nella parte relativa all'elaborazione delle
interviste. Nel primo caso, proprio a partire da quelle ricerche
sulle soggettività femminili che hanno evidenziato una specificità
di genere - soprattutto nel vivere le esperienze in ambito
extradomestico in modo diverso rispetto all'uomo - si ipotizza che
anche nell'ambito della partecipazione politica (di tipo tecnico-
decisionale ed a livello degli enti locali) sia rintracciabile un modo
specificamente femminile di fare politica e di affrontare le
questioni politiche rispetto alle modalità attuate ed agite dai
colleghi uomini. Nel secondo caso, partendo invece dai profondi
cambiamenti storico-sociali-culturali che hanno caratterizzato
l'Italia dal 1945 ad oggi, si è voluto verificare come e cosa è
cambiato nel modo di fare politica attiva delle donne.
Conseguentemente - e qui si affronta la parte relativa alla
metodologia utilizzata al fine di costruire i campioni e di
raccogliere i dati da elaborare- si è proceduto all'analisi di due
campioni estratti dalla popolazione femminile eletta nei Consigli
comunali della Provincia di Ravenna , prendendo in
considerazione due periodi: quello relativo al decennio 1946-56
(campione 1) che ha visto l'ingresso delle donne nelle sedi
decisionali istituzionali (nazionali e locali) ed il secondo relativo
agli anni 1985-96 (campione 2), che ha assistito all'ingresso in
politica di una nuova generazione di donne. I due campioni- che si
è cercato di rendere il più possibile rappresentativi, nonostante le
distorsioni provocate dalla mancanza di dati precisi o
dall'indisponibilità delle stesse donne a sostenere l'intervista- sono
stati analizzati per mezzo dell'intervista semi-strutturata, costruita
sulla base di otto aree da indagare ed approfondire così
organizzate: percorso politico; motivazioni all'impegno politico;
impatto con l'ambiente del consiglio; problemi e contraddizioni
incontrate; rapporto con i colleghi e le colleghe; percezione delle
differenze nel modo di fare politica fra uomini e donne; rapporto
fra vita privata-impegno politico; bilancio dell'esperienza. Dopo
questa presentazione, si è proceduto all'elaborazione delle
interviste che ha portato a conclusioni che da una parte hanno
ampiamente sostenuto e verificato le ipotesi iniziali (scopi della
ricerca) e dall'altra hanno arricchito ulteriormente il tema sul
rapporto fra donne e partecipazione politica attiva nelle sedi
istituzionali. Prima di tutto le donne, attraverso l'impegno politico,
che è vissuto fondamentalmente come servizio per gli altri,
esprimono la loro specifica diversità di genere, in quanto esse nel
corso della loro esperienza sembra vadano alla ricerca di quegli
stessi elementi espressivi, relazionali e di cura già conosciuti
all'interno dell'ambito domestico. Questa ricerca mette, inoltre, in
evidenza il fatto che anche le donne che fanno politica riescono a
mettere in atto quella strategia e concezione di vita conosciuta
come pluripresenza compatibile, confermando e rafforzando
maggiormente i risultati raggiunti da altre ricerche sulla
condizione femminile.
Per quel che riguarda l'ipotizzata diversità fra uomini e donne nel
modo di vivere ed agire l'esperienza politica, è da sottolineare la
maggior concretezza e il maggior rapporto empatico che le donne
esprimono nel momento in cui affrontano e si confrontano con le
questioni ed il linguaggio propri delle sedi istituzionali, tanto che
si può giungere a parlare di un modo di fare e dire la politica
declinato al femminile. Nel caso della verifica su un possibile
cambiamento nel modo di fare politica da parte delle donne, da
questo studio emerge che effettivamente, mentre le donne del
primo campione percepiscono e vivono una forte appartenenza al
proprio gruppo di genere, le donne del secondo campione invece
rifiutano, dal punto di vista teorico, di essere identificate in
quanto donne, privilegiando quindi un approccio più individuale
(legato perciò alle proprie capacità e competenze) nel rapporto con
i colleghi uomini. Anche se poi nella pratica politica quotidiana
non rifiutano, ed anzi, vanno alla ricerca della collaborazione delle
altre colleghe per portare avanti progetti ed iniziative, spesso
specificamente femminili.
Nell'appendice sono inoltre riportate, in forma integrale, due
interviste, la prima relativa ad una donna appartenente al campione
1 e l'altra relativa ad una donna del campione 2. Inoltre sono
riportate le informazioni biografiche delle intervistate ed i relativi
codici di identificazione.
Parte teorica
1.1 Genere, identità e complessità
sociale: una definizione
1.1.1 Il concetto di genere
Il concetto di genere è stato definito e introdotto ufficialmente nel
1975 nell’ambiente scientifico dall’antropologa Gayle Rubin, con
il saggio "The Traffic in Women". Il termine genere è stato
elaborato da questa studiosa all’interno del più ampio concetto di
“sex-gender system”. Quest’ultimo è inteso come l’insieme dei
processi, delle modalità dei rapporti e dei comportamenti
attraverso i quali, storicamente, ogni società trasforma le
differenze sessuali e biologiche in prodotti dell’attività umana e
organizza la divisione dei compiti tra uomini e donne,
differenziandoli gli uni dagli altri, creando cioè il genere. Mentre
il “sex” è una categoria biologica costante che si riferisce alle
differenze fisiche fra uomo e donna, il “gender” è un’istanza di
tipo culturale, in quanto è definibile come il prodotto di un
processo di codificazione storico-sociale delle differenze fra
maschio e femmina.
Anche Joan Scott (1988) sulla scorta degli studi sempre più
numerosi basati sul concetto di genere ha voluto darne una
definizione in cui è evidente il processo di inglobamento del
concetto di sesso in quello di genere, già sottolineato da G. Rubin:
”il genere è l’organizzazione sociale della differenza sessuale...il
genere è quella conoscenza che stabilisce significati per le
differenze corporee” (1988: 23).
Il concetto di genere era già stato elaborato nell’ambito degli studi
femministi (Ulivieri; 1992) verso la fine degli anni ’60 a partire
dalla constatazione dell’esistenza di un profondo squilibrio
all’interno della realtà sociale tra ruoli sessuali. Per le studiose
femministe, la società si è storicamente organizzata sulla base
delle differenze biologiche fra i due sessi. In questo senso la
divisione del lavoro, le attività quotidiane, l’accesso alla sfera
pubblica sono stati organizzati secondo una logica asimmetrica che
ha privilegiato la componente maschile discriminando ed
escludendo quella femminile. Il movimento neo-femminista ha
cercato di rispondere a questa situazione proponendo valori come
la parità, l’uguaglianza, l’emancipazione che fossero alternativi
rispetto i valori dominanti, ritenuti valori prettamente maschili.
Come ha affermato Rossanda (1989: 210) descrivendo la
trasformazione messa in atto dal movimento neo-femminista
“questa trasformazione non può essere una semplice
integrazione...La cultura del femminismo è una critica vera, e
perciò unilaterale, antagonista, negatrice della cultura altra”: cioè
negatrice della cultura rappresentata dal genere maschile.
Questo modo di intendere il rapporto fra genere maschile e
femminile basato sulla separatezza, sulla non-integrazione e
veicolato dal neo-femminismo, è stato sicuramente fonte di stimolo
per gli studi sulle donne, anche se in ambito accademico vi è stata
una presa di distanza da queste posizioni ideologiche e una spinta
a dotarsi di categorie di analisi proprie per proseguire le ricerche.
In questa prospettiva due studiose (Saraceno, Piccone Stella, 1996)
hanno messo in evidenza il fatto che quello di genere deve essere
inteso come un concetto fondamentalmente binario, in quanto
attraverso di esso è possibile individuare e spiegare
sociologicamente la presenza nella società dei due sessi.
A differenza delle elaborazioni dei movimenti femministi che,
come ho già accennato, tendevano a sottolineare la
contrapposizione fra genere maschile e femminile e a teorizzare la
liberazione della donna dal potere, dai vincoli culturali imposti
dall’uomo, le due studiose considerano il genere un codice che
implica relazionalità, reciprocità fra le due componenti. E’ infatti
solo a partire dallo studio dell’influenza reciproca dei due sessi
che è possibile spiegare e comprendere il modo in cui maschile e
femminile intrecciano le loro esistenze modificando nel tempo il
rapporto fra loro e il mondo. Nella prassi sociologica questa
elaborazione del concetto di genere significa rivolgere l’attenzione
alle condizioni, i processi, le relazioni che strutturano l’esperienza
femminile nei contesti sociali, che sono vissuti ed agiti anche dalla
componente maschile.
Come Saraceno e Piccone Stella sottolineano, nelle ricerche
sociologiche sulle donne “l’esperienza delle donne è
concettualizzata come parte, non esclusivamente passiva, di un
insieme istituzionale...e culturale specifico, che implica anche
particolari modelli di genere maschile e di rapporti uomo-donna”
(1996: 25).
Il concetto di genere così inteso è stato molto utilizzato nei diversi
ambiti di studio sulle donne. Tra questi è necessario ricordare i
quattro ambiti sicuramente più significativi, in cui l’introduzione
del concetto di genere ha contribuito a modificarne l’impianto
analitico. Il primo è rappresentato dall’analisi dell’organizzazione
del tempo e delle diverse dimensioni temporali che strutturano la
vita individuale nella società più ampia. Questo ambito si è
occupato soprattutto dello studio della divisione del lavoro, e
quindi del tempo, all’interno ed all’esterno della famiglia sulla
base dell’appartenenza di genere. Ciò ha evidenziato sia
l’esistenza di asimmetrie nell’uso del tempo e negli impegni fra
donne e uomini sia l’elaborazione del concetto di “doppia presenza
“ (Balbo, 1978) introdotto per spiegare la capacità delle donne
nelle società sviluppate di occuparsi delle attività e dei compiti
all’interno della famiglia ed al tempo stesso di proiettarsi al suo
esterno, verso il mercato del lavoro, mantenendo comunque un
equilibrio armonico con se stesse.
Il secondo ambito è rappresentato dagli studi sulle differenze di
genere all’interno del mercato del lavoro. Le ricerche hanno
contribuito per esempio ad evidenziare l’esistenza di settori
lavorativi femminilizzati, come il settore impiegatizio, della
assistenza e cura dei malati e dei bambini, delle istituzioni
scolastiche (per quest’ultimo si è parlato di tendenza al
matriarcato magistrale; Ulivieri, 1992), e di altri settori
caratterizzati da maggior precariato, come ad esempio quello dei
lavori stagionali. Inoltre alcune ricerche hanno sottolineato il fatto
che la retribuzione delle lavoratrici è in media inferiore a quella
degli uomini e questo non solo nel caso in cui le donne svolgano
attività più precarie, come è stato accennato, ma anche all’interno
della stessa categoria occupazionale, le donne ricevono stipendi
più bassi.
Il terzo settore in cui la categoria di genere è stata utilizzata con
frequenza crescente è quello degli studi sui processi di formazione
e differenziazione del welfare state. Mentre per gli uomini il
diritto al sostegno anche finanziario (sotto forma di assegni,
sussidi di disoccupazione, ecc.) da parte dello Stato è riconosciuto
in quanto lavoratori, lo stesso non avviene per le donne, in quanto,
in misura maggiore rispetto agli uomini non sempre svolgono o
hanno svolto un’attività retribuita o formalmente riconosciuta dal
mercato del lavoro (Donati-Di Nicola, 1989).
L’ultimo settore di indagine da prendere in considerazione è quello
dell’analisi della stratificazione e della mobilità sociale.
Tradizionalmente questi studi partono dal presupposto che l’unità
di analisi fondamentale sia la famiglia e che la posizione di
quest’ultima sia legata dalla posizione professionale e sociale del
capofamiglia, il quale è quasi sempre un uomo. L’introduzione del
concetto di genere in questo ambito di ricerche ha contribuito a
mettere in evidenza il fatto che il numero di donne che svolgono
un’attività extradomestica tende ad aumentare sempre di più e che
quindi non è possibile stabilire la posizione della famiglia a partire
solo dal capofamiglia maschio. In questo senso mentre alcuni
studiosi (Barbagli, 1988) tendono a prendere in considerazione le
posizioni professionali occupate rispettivamente dal marito e dalla
moglie, senza privilegiarne una in particolare, altri invece
definiscono la posizione della famiglia a partire dalla componente
dominante, senza comunque privilegiare a priori la componente
maschile (Schizzerotto,1994).
Con questo breve elenco non si sono voluti esaurire gli ambiti di
studio in cui il concetto di genere è stato ed è tuttora utilizzato, ma
solo presentare alcune delle ormai numerose ricerche sociologiche
che, appropriandosi di questa categoria di analisi, hanno
approfondito e arricchito il loro campo di ricerca con una nuova e
diversa prospettiva, giungendo a considerazioni e a
generalizzazioni precedentemente solo intuibili.
1.1.2 Identità di genere
All’interno del dibattito femminista e anche in ambito accademico-
scientifico si sono sviluppate diverse teorie il cui obiettivo è stato
quello di analizzare e comprendere il modo in cui le donne e gli
uomini, riflettendo sul loro corpo sessuato e percependo la propria
diversità sessuale, sviluppano la loro identità di genere, in quanto
soggetto donna e soggetto uomo.
La prima teoria sullo sviluppo dell’identità di genere da prendere
in considerazione è quella proposta da Freud nell’opera
"Psicopatologia della vita quotidiana" del 1901. L’apprendimento
delle differenze fra i generi da parte dei bambini dipende
fondamentalmente dalla presenza o dall’assenza del pene. Al di là
di questa semplice differenza anatomica l’esistenza o meno di tale
organo rappresenta simbolicamente la mascolinità o la femminilità.
Nel corso della fase edipica i maschi vedono il padre come
antagonista nella lotta per la conquista dell’amore e dell’affetto
della madre e quindi temono di essere puniti, vale a dire castrati da
quest’ultimo. In seguito reprimendo l’attrazione erotica per la
madre, il bambino riconoscendone la superiorità, si identifica con
il padre e prende così coscienza della propria identità maschile.
Le bambine invece, secondo Freud, soffrono dell’”invidia del
pene”, perché prive di questo organo visibile che distingue i
maschi. La madre si svaluta agli occhi della figlia, in quanto
anch’essa priva di tale organo, e quest’ultima ne riconosce
l’inferiorità rispetto al padre. Quindi quando la bambina si
identifica con la madre ne assume anche l’atteggiamento remissivo
che sottostà al riconoscimento di essere al secondo posto, in
quanto priva del pene, simbolo di superiorità.
La teoria di Freud è stata criticata per vari motivi, come ad
esempio, per il fatto che egli identifica l’identità di genere con il
problema dei genitali, senza prendere in considerazione anche
l’esistenza di fattori culturali, sociali, ecc., oppure per il fatto che
egli sostiene come naturale la superiorità degli organi maschili
rispetto a quelli femminili nella definizione dell’identità dei
soggetti, ma nonostante questo, tale teoria è stata presa come
punto di partenza per studiare lo sviluppo del genere.
In questo senso è necessario ricordare la teoria di Chodorow
esposta nel saggio "The Reproduction of Mothering" del 1978 in
cui è sottolineata con forza la funzione della madre rispetto al
padre nello sviluppo dei due differenti generi. Secondo la
Chodorow i bambini tendono ad instaurare un particolare rapporto
affettivo con la madre soprattutto per le funzioni di cura che essa
svolge nelle fasi iniziali di vita dei figli. In seguito si avvia un
processo di identificazione di sé che assume caratteristiche diverse
per i maschi e per le femmine. Il figlio maschio deve mettere in
atto un duplice processo di separazione dalla madre, prima come
individuo e poi come genere: egli cioè deve acquisire il senso di sé
in seguito ad un rifiuto della vicinanza e identificazione con la
madre, prendendo così consapevolezza della propria mascolinità da
ciò che non è femminile. A differenza dei maschi, le bambine
rimangono attaccate alla madre più a lungo e quindi essendoci una
separazione meno marcata, esse tendono a sviluppare un senso di
sé meno separato dagli altri. In conclusione mentre i maschi
imparano fin da piccoli a essere indipendenti anche emotivamente
dagli altri, le femmine invece sviluppano un’identità che tende a
con-fondersi con quella degli altri, prima la madre e poi un uomo.
In questo senso la Chodorow ribalta l’ipotesi di fondo della teoria
freudiana da cui la studiosa era partita: è infatti la mascolinità e
non più la femminilità ad essere definita come perdita, in questo
caso del coinvolgimento affettivo con la madre. Inoltre la
Chodorow sottolinea come le donne hanno la tendenza, dovuta al
processo sopra descritto, ad esprimersi e definirsi in relazione ai
rapporti che esse instaurano con gli altri e la mancanza di tali
rapporti fa sì che esse perdano più facilmente stima di se stesse,
mentre gli uomini sono maggiormente privi o comunque tendono a
reprimere il bisogno di attaccamento agli altri e così assumono un
atteggiamento più strumentale nei confronti del mondo esterno.
Carol Gilligan nella sua opera "Con voce di donna" (1982) in cui
ha raccolto ed analizzato i risultati di una ricerca svolta negli USA
sull’immagine che le donne e gli uomini hanno di se stessi e delle
proprie conquiste, ha per certi aspetti rinforzato la teoria della
Chodorow. Anche per questa studiosa le donne tendono a definire
se stesse in termini di rapporti personali e di solito giudicano se
stesse sulla base della capacità di prendersi cura degli altri, ma
queste necessità delle donne non sono prese in considerazioni
dagli uomini che, invece, valutano positivamente solo i successi
personali soprattutto nell’ambito professionale.