nell'immediato dopoguerra, un profondo distacco dalle posizioni degli
empiristi logici, fautori di una epurazione del linguaggio effettuata con i soli
strumenti della logica e dell'esperienza, e sulla base di una teoria
verificazionista del significato.
Inizialmente, attraverso libri come The Philosophy of Science (1953) e
Foresight and Uderstanding (1961), la critica di Toulmin si appuntò sulle
tesi epistemologiche degli empiristi logici, denunciandone l'astrattezza e
l'irrilevanza nei confronti dell'effettiva prassi scientifica, da Toulmin
ritenuta wittgensteinianamente come una "forma di vita" che i neopositivisti
avevano considerato solo riduttivamente. Poi la crescente attenzione
all'ambiente in cui operano gli scienziati, al contesto in cui situare la loro
impresa intellettuale per meglio precisarne i contorni, fa sì che Toulmin
"scopra" la storia, ossia la dinamica evolutiva in cui le teorie scientifiche
acquisiscono significato come risposte a problemi che mutano con l'esaurirsi
della fertilità esplicativa dei paradigmi che li hanno generati. In Human
Understanding (1972), infatti, i concetti, le idee, la prassi della scienza sono
ritenute da Toulmin creazioni e imprese eminentemente storiche, soggette
come tali alle variazioni socio-economiche "esterne", oltre che alle vicende
disciplinari "interne". Per questa complessa interazione storico-evolutiva
Toulmin conia un'etichetta di rara efficacia evocativa: "ecologia
intellettuale"; e l'approccio "olistico", contestuale, sensibile alla
collocazione, alla funzione e all'evoluzione storica dei paradigmi scientifici
diviene parte integrante del suo bagaglio concettuale, di contro
all'epistemologia "statica" del Circolo di Vienna, in cui alla definizione di
un unico, universale, atemporale criterio di significanza per il linguaggio è
abbinata l'enunciazione di un unico, universale, atemporale criterio di
validità scientifica.
Da qui all'estensione della visione olistica oltre i confini della filosofia
della scienza il passo è breve, e Toulmin deve aver pensato che se
l'ambiente in cui sono calate le teorie fisiche è così determinante ai fini della
loro intelligibilità, a maggior ragione lo sarà per la discussione e la
comprensione delle questioni di filosofia morale, laddove l'astrazione e la
decontestualizzazione delle teorie metaetiche non contribuiscono in alcun
modo alla risoluzione di dilemmi morali che si presentano qui e ora,
interessando la vita umana nella sua quotidiana concretezza. La stessa
"Grande Divisione" tra il piano dei fatti e quello dei valori, che per i
neopositivisti relega nell'insignificanza l'intero discorso morale, secondo
Toulmin non comporta necessariamente il divieto di derivare giudizi morali
da considerazioni fattuali, divieto che chiuderebbe la porta in faccia al
mondo e ai suoi problemi. In An Examination of the Place of Reason in
Ethics (1950), Toulmin lascia aperta questa porta descrivendo il "gioco
linguistico" della morale come l'attività di giustificare razionalmente le
nostre azioni alla luce del loro riuscire o no ad inserirsi in un sistema di
interessi armonicamente connessi, volto a salvaguardare la coesione sociale.
Il che significa che se vogliamo impegnarci nella "forma di vita" dell'etica,
secondo Toulmin, non possiamo fare a meno di tenere in giusto conto
considerazioni prettamente fattuali.
L'essere fermamente convinto che ogni campo dell'ingegno umano,
ogni impresa intellettuale – dalla fisica alla giurisprudenza, dall'etica alla
medicina – possiede propri standard razionali, proprie procedure
argomentative varianti nel tempo, spinse Toulmin a rivalutare la retorica,
ossia l'"arte" di presentare in pubblico argomentazioni acconce alla
situazione, al tipo di problema dibattuto, all'uditorio – al contesto insomma
– in modo da risultare persuasive. Non che il nostro filosofo si faccia
promotore di una nuova "sofistica", attraverso la quale riuscire a giustificare
relativisticamente tutto e il contrario di tutto; Toulmin si sente piuttosto
affine all'ideale della phronesis aristotelica, un tipo di saggezza pratica in
cui ciò che è "ragionevole" fare in ogni circostanza dipende dalle
circostanze stesse: una "terza via" per la ragione umana, svincolata dalle
cristallizzazioni metastoriche della logica formale e comunque non
compromessa col relativismo irrazionalistico.
Una simile concezione pratica della razionalità per Toulmin si rende
necessaria se vogliamo fronteggiare efficacemente le sfide etiche del mondo
contemporaneo, soprattutto quelle provenienti dall'ambito biomedico, in cui
i continui progressi tecnico-scientifici costringono a profondi ripensamenti
su cosa si intenda per salute, cura, vita umana stessa. A questi interrogativi
Toulmin afferma che non si può rispondere continuando a lasciarci
tiranneggiare da principi etici teorici, astratti, concepiti in una cornice
storica diversa da quella attuale; bisogna, piuttosto, prendere a modello la
medicina clinica, un'"arte" pratica prima ancora che una disciplina teorica,
in cui qualsiasi responso diagnostico, prognostico o terapeutico non è il
risultato di una semplice inferenza nomologico-deduttiva, bensì il parere di
professionisti che sanno come "leggere" lo specifico quadro sintomatologico
a cui devono dare una risposta.
La necessità di un atteggiamento "clinico" in etica porta Toulmin a
rinverdire la tradizione casistica in filosofia morale. Nei giudizi di valore si
deve tenere conto della specificità dei singoli casi, tentando di ricondurli ad
uno dei paradigmi morali (casistica) che l'esperienza delle cose umane ci ha
insegnato a riconoscere. Naturalmente, sostiene Toulmin, questa tassonomia
dei casi non è fissata una volta per tutte, bensì aperta ai mutamenti del
contesto fattuale (ad esempio, la bioetica non può prescindere dalla continua
messe di nuove conoscenze nella genetica), come lo è il modello delle
argomentazioni con cui giustifichiamo le nostre conclusioni etiche. È per
questo, argomenta Toulmin, che in morale e in tutte le altre imprese pratiche
(ma anche nella scienza, come abbiamo visto sopra) c'è bisogno di strumenti
argomentativi flessibili, adeguati ad un ambiente in continua evoluzione,
contestualizzati, che solo la retorica può fornire. Da questo punto di vista, i
topoi presentati da Aristotele nella Retorica costituiscono per Toulmin
l'ideale dell'argomentazione razionale; una razionalità che il filosofo inglese
concepisce in incessante trasformazione, sulle tracce delle mutazioni subite
dalla "forma di vita" in cui viene esercitata – sia essa la scienza, il diritto o
l'etica. I concetti, i valori e le argomentazioni con cui li introduciamo
rappresentano per Toulmin altrettante risposte alle stimolazioni ambientali,
ai problemi concreti che la vita quotidianamente ci propone, e le categorie
della logica formale sono troppo avulse da qualsiasi contesto storico-
disciplinare per costituire soluzioni funzionali alle esigenze pratiche che si
manifestano nei diversi ambiti della nostra esistenza come esseri umani.
Questo, in estrema sintesi, è il contenuto della mia dissertazione; nello
specifico, il primo capitolo offre una panoramica storico-filosofica del
ventesimo secolo su cui poter rintracciare le problematiche con le quali
Toulmin si è misurato. In questa sezione ho volutamente tralasciato la storia
dell'epistemologia contemporanea perché il mio lavoro si concentra sul
Toulmin filosofo pratico, accennando soltanto di passaggio, nel secondo
capitolo, al Toulmin epistemologo. Il terzo capitolo espone la visione
toulminiana dell'etica, rileva l'importanza capitale che la scoperta della
bioetica ha avuto nella maturazione della filosofia morale di Toulmin, e, con
l'ultimo paragrafo, tira le fila del discorso su questo autore, mostrando il suo
graduale passaggio da originari interessi epistemologici all'attenzione nei
confronti della prassi e dell'azione, con la conseguente rivalutazione della
retorica. Per meglio comprendere quest'aspetto del pensiero toulminiano,
sempre nell'ultimo paragrafo ho voluto anche far riferimento alle posizioni
di altri tre filosofi che nel secondo dopoguerra si rivolsero, seppur
diversamente, alla retorica per trovare una soluzione a problemi e a impasse
teoriche in gran parte condivise dallo stesso Toulmin: l'americano Richard
McKeon, il belga Chaim Perelman e il "francofortese" Jürgen Habermas.
Capitolo 1
IL CONTESTO STORICO-FILOSOFICO
1.1. La filosofia analitica
Le posizioni di Stephen Toulmin in filosofia della scienza e in etica, che esporremo
articolatamente nei capitoli due e tre del presente lavoro, divergono radicalmente da quelle
degli empiristi logici, e si collocano nel filone della "filosofia del linguaggio ordinario"
inaugurato da Ludwig Wittgenstein (1889-1951). La filosofia del linguaggio ordinario
rappresenta l'ultimo sussulto del grande movimento filosofico-analitico che dall'inizio del
secolo e per i successivi settantacinque anni ha dominato la riflessione filosofica, facendo
del ventesimo secolo filosofico l'era del linguaggio e della logica.
La concezione analitica della filosofia rappresenta un atteggiamento metodologico generale
più che una "scuola" rigidamente definita, e precisamente la convinzione che i tradizionali
problemi filosofici possono essere affrontati solo analizzando il linguaggio con il quale
sono stati formulati ("svolta linguistica" o linguistic-turn), stabilendo dunque una stretta
connessione tra il linguaggio e il pensiero: solo tramite il primo si può chiarire il secondo.
L'analisi è condotta con chiarezza e rigore (meglio sollevare questioni che proporre
soluzioni o teorie) utilizzando (ma non esclusivamente né preferibilmente) la logica
formale, allo scopo di eliminare problemi apparenti o confusioni tra regole linguistiche di
ambito e livello differente (fine "terapeutico" dell'analisi). Questa prospettiva filosofica ha
caratterizzato l'ambiente accademico anglofono di questo secolo, influenzando anche
pensatori di altri paesi, ma senza mai rimanere uguale a se stessa, anzi evolvendosi in forme
via via differenti.
Le varie correnti della filosofia analitica nel loro sviluppo storico sono ricondotte da
Hacker
1
a due filoni principali: una radice (russelliana) del nuovo pensiero è logico-
analitica, in quanto impegnata nell'analisi logica dei fenomeni oggettivi attraverso i nuovi
formalismi introdotti da Frege, Russell e Whitehead. In questa accezione l'analisi si risolve
essenzialmente nella scomposizione di un complesso nei suoi elementi assolutamente
semplici, primi e certi, allo scopo di fondare il sapere. L'altra radice (mooreana) è analitico-
concettuale, in quanto caratterizzata dall'analisi di concetti oggettivi (indipendenti dalla
mente che li considera) piuttosto che di "idee" o "impressioni" soggettive. Per George
Edward Moore (1873-1958), a differenza di Bertrand Russell (1872-1970), analisi significa
chiarificazione di un complesso nelle sue strutture contestuali senza l'aspirazione di
pervenire alla determinazione degli elementi assolutamente semplici. Così, al russelliano
"atomismo logico", che divenne il modello interpretativo del Tractatus
2
di Wittgenstein ed
uno dei precedenti immediati del neopositivismo, si contrappone la difesa mooreana del
senso comune. Non si tratta in quest'ultima di determinare attraverso l'analisi gli elementi
primi e certi del sapere, bensì di penetrare il significato di quelle convinzioni e credenze del
senso comune che, vivendo, sono accettate anche da quei filosofi che elaborano poi
speculativamente dottrine molto distanti dal senso comune. Non è del tutto ingiustificato,
quindi, collegare il nome di Russell con l'analisi di stampo neopositivistico e quello di
Moore con le correnti analitiche più strettamente inglesi, che si affermarono nel secondo
dopoguerra.
In entrambe le visioni dell'analisi il riferimento costante all'oggettività di ciò che viene
analizzato, considerato indipendente dai contenuti mentali dell' "analista", denota l'iniziale
orientamento anti-psicologistico della filosofia analitica, la cui opera di chiarimento
1
P. M. S. HACKER, Wittgenstein's Place in Twentieth Century Analytic Philosophy, Oxford,
Oxford University Press, 1995, p. 4 (d'ora in avanti mi riferirò a questo libro con la sigla
WPAP, seguita dal numero delle pagine).
2
L. WITTGENSTEIN, Tractatus Logico-Philosophicus (1921), trad. ingl. a cura di D. F. Pears
e B. F. McGuiness, New York, Routledge & Kegan Paul, 1974, trad. it. Tractatus logico-
philosophicus e Quaderni 1914-1916, Torino, Einaudi, 1964.
intellettuale non concerne le idee come processi mentali, bensì nel loro significato, in ciò
che esse intendono esprimere. Non si può certo dire che sin dall'inizio il movimento
analitico incentrato a Cambridge – poiché Moore e Russell furono docenti nella locale
Università – sia stato basato su una analisi del linguaggio, poiché ciò sarebbe una forzatura
indotta dal guardare ad esso attraverso l'esperienza degli ulteriori sviluppi della filosofia
analitica inglese. Ma è tuttavia vero che sin dalle origini l'analisi chiarificatrice dei
significati era aperta ad un'analisi linguistica, poiché il linguaggio è il medium per
eccellenza del significare.
Un breve excursus sui successivi sviluppi del pensiero analitico vede il pluralismo
platonico di Russell, influenzato dal giovane Wittgenstein negli anni antecedenti il primo
conflitto mondiale, evolversi nell'atomismo logico e la svolta linguistica del Tractatus
Logico-Philosophicus wittgensteiniano, unita agli insegnamenti di Russell e Moore,
determinare tra le due guerre il sorgere della scuola analitica di Cambridge.
Contemporaneamente il Tractatus ispirò anche i positivisti logici viennesi, le cui idee,
ulteriormente fertilizzate dal contatto con Wittgenstein tra il 1927 e il 1936, si diffusero in
Germania, Polonia, Scandinavia, Gran Bretagna e Stati Uniti. In entrambe queste fasi il
movimento analitico praticò forme di analisi riduttiva e (specularmente) costruttiva, ma
sotto l'influenza di Wittgenstein a Cambridge (e, successivamente, delle sue pubblicazioni
postume) la filosofia analitica divenne più sincretica, dando vita, dopo la fine della seconda
guerra mondiale ad Oxford, all'analisi connettiva
3
, dalle valenze "terapeutiche" e
universalmente nota come "filosofia del linguaggio ordinario" – etichetta comune che in
realtà nasconde la molteplicità delle impostazioni analitiche presenti ad Oxford nel quarto
di secolo successivo alla guerra.
Poiché le varie fasi appena presentate si sovrappongono temporalmente (molti filosofi
parteciparono a più di una delle trasformazioni del movimento), ciascuna stimolò e sfidò
l'altra, qualificando la filosofia analitica come un fenomeno intellettuale dalla trama
sincronicamente, oltre che diacronicamente, complessa. Thomas M. Conley, in uno sforzo
di suprema sintesi, così descrive le due anime della filosofia analitica:
Da una parte c'erano i riformatori del linguaggio stesso nel tentativo di
emendarlo dalle sue ambiguità. I Principia di Russell dissodarono il terreno,
e Carnap in Germania lo coltivò con le sue indagini sulle basi logiche della
sintassi, aventi lo scopo di realizzare un sistema simbolico formalmente
consistente per l'analisi filosofica. Dall'altra c'erano filosofi determinati a
riformare non il linguaggio in sé ma i suoi usi. Questi "filosofi del linguaggio
ordinario" – Moore, Ryle, Austin, e il Wittgenstein più recente – cercarono di
scoprire l'origine delle illusioni filosofiche nell'uso quotidiano del linguaggio.
Ci si riferisce ad entrambi i gruppi di riformatori con il nome di filosofi
"analitici". Ed è con filosofi come questi che Toulmin studiò mentre era a
Cambridge.
4
3
La definizione fu coniata successivamente da P. F. Strawson, il quale non mancò di
rilevare la sua paradossalità, dovuta al fatto che nel nuovo contesto filosofico non si
decomponeva analiticamente più nulla nei suoi costituenti elementari, ma piuttosto si
delucidavano mooreanamente i concetti (cfr. WPAP, 275, nota 4).
4
T. M. CONLEY, Rhetoric in the European Tradition, Chicago, The University of Chicago
Press, 1990, p. 291 (d'ora innanzi l'opera verrà citata come RITET, seguita dal numero delle
pagine).
1.2. Moore e Russell
Sebbene successivamente ritenuto tale, il pensiero analitico non è la continuazione della
tradizione empiristica inglese che da Hobbes e Locke arriva fino a Mill, infatti quando
Moore e Russell nella Cambridge di inizio secolo iniziarono la loro riforma filosofica, nelle
università britanniche l'empirismo classico era moribondo, rimpiazzato dagli anni '60 del
diciannovesimo secolo dall'idealismo assoluto, "tardiva assimilazione dell'idealismo
hegeliano temperato dalla moderazione inglese"
5
. La rivolta di Moore e Russell contro
l'idealismo non era radicata nell'empirismo ma nel realismo platonico, che portava i due
filosofi di Cambridge a rifiutare l'olismo monistico di Bradley (principale esponente
dell'idealismo anglosassone) a vantaggio di una forma estrema di realismo pluralistico-
atomistico. Per i neohegeliani, e soprattutto per Bradley, ogni procedimento analitico di
distinzione e scissione di parti non può essere che falsificante la realtà autentica che è un
tutto organico indivisibile: chi procede analiticamente non perviene a cogliere il reale, ma si
muove nel mondo dell'apparenza. Dato il rovesciamento dell'opzione metafisica di fondo
attuato da Moore e Russell con l'adesione al neo-realismo, anche la loro valutazione
dell'analisi subì un mutamento radicale: proprio contro l'artificiosità del sistema, il metodo
dell'analisi attenta e precisa, senza alcuna ansia di conclusione, diventava la garanzia per
poter cogliere tutta la varietà e la ricchezza del reale.
La concezione olistica di Bradley e degli idealisti li portava a sostenere che le relazioni
modificano l'essenza delle cose che connettono (rappresentazione "internalistica" delle
relazioni), determinandone la natura in base al sistema cui appartengono. Moore e Russell
rivendicavano invece la completa distinzione tra l'essenza di una cosa e le sue relazioni con
le altre (concezione "esternalistica" delle relazioni), relazioni che, a loro parere, rimangono
oggettive e indipendenti dal soggetto che le percepisce. La diatriba coinvolgeva anche la
formazione dei concetti, che, secondo Moore, "non sono astrazioni a partire da idee
dipendenti dalla mente [come asserivano gli idealisti], ma esistenze indipendenti a pieno
titolo"
6
che si combinano a formare proposizioni a loro volta oggetti di pensiero ma non
determinate da esso:
[…] la realtà consiste di concetti combinati in proposizioni. La nozione
idealista che l'unità di una proposizione dipenda dall'attività sintetizzante
della coscienza fu [da Moore] spazzata via a favore di un platonismo senza
restrizioni.
7
Conseguentemente una proposizione vera non corrisponde alla realtà, ma è parte della
realtà stessa; la sua verità (o falsità) è assoluta – non una questione di gradi come
sostenevano gli idealisti assoluti – perché la verità è una proprietà semplice, non
analizzabile e intuibile che alcune proposizioni hanno ed altre no – come un oggetto può
essere rosso oppure no, senza vie di mezzo. Qualsiasi altra teoria della verità, ad esempio
quella classica corrispondentistica (secondo la quale una proposizione è vera quando
corrisponde alla realtà), presupporrebbe la capacità da parte nostra di "andare oltre le
relazioni tra concetti verso una realtà che le convalida"
8
, cosa che per Moore, abbiamo
visto, è per principio impossibile:
"Conoscere" è essere consapevoli di una proposizione, cioè di una relazione
tra concetti; quindi non possiamo in alcun modo conoscere qualcosa che "sta
al di là" dei concetti. […] Il mondo è composto da concetti eterni e
immutabili, le proposizioni mettono in relazione i concetti l'uno con l'altro;
una proposizione vera asserisce "la verità" di una tale relazione fra concetti,
ed è "un fatto" o "una realtà".
9
5
WPAP, 5. Per un resoconto dettagliato dell'idealismo assoluto di marca britannica cfr.
anche J. PASSMORE, A Hundred Years of Philosophy, London, Gerald Duckworth, 1966.
cap. 3 (d'ora in avanti citerò quest'opera con la sigla AHYP, seguita dal riferimento alla
pagina).
6
WPAP, 7.
7
WPAP, 7.
8
AHYP, 206.
9
AHYP, 206.
Moore attaccò anche la tesi berkeleyana secondo cui "non c'è distinzione tra l'esperienza e
il suo contenuto, [poiché ciò che] noi percepiamo non esiste indipendentemente dalla
percezione che ne abbiamo."
10
. A tale idea che la realtà è soggettiva, spirituale o mentale,
Moore contrappose la convinzione che
gli oggetti della conoscenza (incluse le proposizioni), esistono
indipendentemente dall'essere conosciuti. Perché conoscere qualcosa, sia per
mezzo della percezione sia per mezzo del pensiero, è un atto completamente
distinto dall'oggetto di quella conoscenza; è una relazione cognitiva esterna
all'oggetto della conoscenza.
11
Durante la sua crociata contro l'idealismo, Moore invocò più volte l'aiuto dell'"analisi"
senza tuttavia essere molto esplicito riguardo a cosa intendesse per essa: "talvolta, sembra,
l'analisi è di proprietà o di universali, talvolta di concetti, e talvolta dei significati delle
espressioni."
12
. Ma tale ambiguità si spiega considerando che per Moore il significato di
una espressione, quello per cui l'espressione "sta", è proprio un concetto, risultando in tal
modo naturale assimilare i concetti alle proprietà e fornire un quadro dell'analisi in cui non
si analizza il linguaggio, ma un'entità oggettiva significata dalle espressioni linguistiche:
L'analisi del significato di "X" era variamente caratterizzata come essere: (i)
la specificazione dei concetti costitutivi nei quali il concetto di X può essere
decomposto; (ii) la specificazione di quello che uno vede con gli occhi della
mente quando vede il significato di X (cioè il concetto di X) – per esempio,
una proprietà comune che può essere semplice e non analizzabile o
analizzabile nei suoi costituenti; (iii) la specificazione di come un certo
concetto è collegato a, e differenziato da, altri concetti. Lontano
dall'indirizzare la filosofia nella direzione dello esame minuzioso del
linguaggio e dei suoi usi, Moore distinse nettamente tra conoscere il
significato di un'espressione, conoscere la sua definizione letterale e
conoscere il suo uso, da una parte, e conoscere l'analisi del suo significato (o
conoscere l'analisi del concetto espresso da una data espressione linguistica),
dall'altra. Egli sceverò tra sapere il significato di un'espressione, nel senso di
avere il concetto davanti agli occhi della mente, ed essere in grado di
analizzarne il significato – cioè, essere capace di dire quali sono i suoi
costituenti ed in che modo è distinto dagli altri concetti collegati.
13
In realtà more era consapevole del fatto che l'analisi così concepita non sarebbe possibile
senza l'esistenza di diverse espressioni verbali significanti tutte il medesimo concetto, ed in
effetti il suo metodo analitico si risolveva nella comparazione e contrapposizione degli usi
del linguaggio, nella parafrasi dei termini concettuali complessi, smentendo nei fatti il suo
intento di analizzare un concetto senza curarsi del linguaggio con cui è espresso:
L'esito dell'analisi [mooreana] era o la rivelazione che un dato concetto è
semplice e non analizzabile (come nel caso di "bene") o la specificazione di
un insieme di concetti la combinazione dei quali è equivalente
all'analysandum. Quest'ultimo caso impegnò Moore nella rappresentazione
linguistica dell'analisi dei concetti complessi nei loro elementi per mezzo di
una equivalenza parafrastica, una concezione che in pratica convergeva nella
visione generale dell'analisi logico linguistica negli anni '20 e '30.
14
Moore, comunque, ammetteva francamente di non poter spiegare intelligibilmente come
accade che mettendo in rilievo l'identità di due forme concettuali attraverso la relazione
parafrastica si giunga a chiarire il significato di una delle due; non era nemmeno in grado di
dire con sicurezza cosa rappresentasse un'analisi corretta e cosa no. Il malcontento nei
10
WPAP, 7.
11
WPAP, 7.
12
WPAP, 7.
13
WPAP, 7.
14
WPAP, 8.
confronti di queste incertezze spinse gli epigoni di Moore a privilegiare l'aspetto linguistico
della sua "analisi concettuale", che nel secondo dopoguerra, ad Oxford, fu emendata delle
connotazioni di decomposizione nei costituenti semplici e di realismo concettuale platonico
care a Moore per essere trasformata nell'attività di
dare una descrizione, per scopi specificamente filosofici, dell'uso di
un'espressione linguistica e delle sue connessioni con altre espressioni
regolamentate per mezzo di implicazioni, esclusioni, presupposizioni e così
via. […] il nome strawsoniano di "analisi connettiva" o "delucidazione
connettiva", delinea efficacemente questo metodo filosofico.
15
Russell seguì prontamente Moore nella polemica anti-idealista, sebbene una diversità di
accenti si facesse notare tra i due: mentre Moore mirava principalmente a destituire di ogni
credibilità l'idealismo, il bersaglio preferito da Russell era il monismo (pur egli
riconoscendo la stretta correlazione tra le due dottrine attraverso il postulato delle relazioni
interne); inoltre, laddove Moore riteneva di conoscere con certezza molte cose importanti,
bisognose esclusivamente di analisi e non di fondazione gnoseologica – tra cui le principali
credenze del senso comune, inclusa l'esistenza delle cose materiali e degli stati di coscienza
interni ad un determinato contesto spazio-temporale – Russell praticava il dubbio metodico
cartesiano allo scopo di fondare la conoscenza che Moore dava per scontata: "innanzitutto
la conoscenza matematica, che [Russell] tentò di erigere su basi di pura logica (invece di
accontentarsi degli assiomi di Peano), e successivamente (per quanto possibile) la
conoscenza empirica della mente e della materia."
16
.
Anche Russell, come Moore, rigettò la dottrina di Bradley delle relazioni irreali e riducibili
a proprietà degli enti messi in relazione (concezione "internalistica"), secondo la quale la
realtà non consta di una pluralità di oggetti esternamente collegati l'un l'altro in molteplici
modi (come la concepisce Russel), ma di un continuum in cui tutto è connesso con tutto il
resto. Russell si accorse che la visione internalistica delle relazioni era il sostrato delle
cinque dottrine salienti dell'idealismo assoluto, ovverosia
il monismo, la dottrina secondo la quale esiste una sola sostanza, l'Assoluto;
la teoria della verità come coerenza; la dottrina degli universali concreti;
l'idealità o spiritualità del reale; e la relazione interna tra la mente e gli
oggetti della conoscenza.
17
Il monismo idealistico così inteso, secondo Russell, non lascia spazio alle relazioni
asimmetriche di cui abbonda la matematica, come ad esempio "più grande di" o "successore
di", le quali
Non sono riducibili a proprietà degli enti correlati senza un regresso
all'infinito. La proposizione "A è maggiore di B" non è riducibile a "Ci sono
delle grandezze x e y, tali che A è x e B è y" senza l'aggiunta di "e x è
maggiore di y".
18
L'interesse di Russell per la matematica rappresenta dunque una delle motivazioni che lo
indirizzarono all'analisi ("come opposta alla sintesi neohegeliana associata all'idealismo
assoluto"
19
), e cioè ad applicare alle problematiche filosofiche l'approccio tipico dei
matematici tedeschi, che a parere di Russell, grazie a definizioni rigorose e sistematiche
riuscirono a liberare la loro disciplina dalle concrezioni metafisiche kantiane ed hegeliane,
quali la dipendenza di spazio e tempo da intuizioni a priori e la presunta apriorità sintetica
delle proposizioni matematiche. Russell ammette un forte debito anche nei confronti di
Frege, i cui scritti considera come il primo esempio di metodo logico-analitico in filosofia;
tuttavia, osserva Hacker se ciò risulta vero per la filosofia della matematica fregeana,
15
WPAP, 8.
16
WPAP, 276, nota 18.
17
WPAP, 9.
18
WPAP, 9.
19
WPAP, 9.
bisogna riconoscere a Russell (e a Moore) l'assoluta originalità nell'applicare l'analisi
all'epistemologia, all'ontologia e alla metafisica
20
.
Al pari di Moore, Russell sostituì l'idealismo assoluto non con l'empirismo britannico
tradizionale, impregnato di soggettivismo psicologico, ma con il realismo platonico, ed
inizialmente, nel suo The Principles of Mathematics (London, Allen and Unwin, 1903), la
concezione dell'analisi che propugnava era mooreana: il risultato il risultato del
procedimento analitico è la decomposizione di oggetti concettualmente complessi (di cui il
mondo apparentemente consiste) nei loro semplici, non ulteriormente analizzabili
costituenti, di modo che la mente ne possa fare esperienza come la fa del rosso o del gusto
di una torta di una torta di mele.
Russell mutuò da Meinong una concezione referenziale del significato, vale a dire che se
un'espressione ha significato ci deve essere qualcosa a cui essa si riferisce, che essa
significa, a prescindere dal fatto che l'espressione significante sia vera o falsa – come
argomentò Meinong, "si deve avere il dovuto rispetto per ciò che sussiste senza essere
attualmente presente."
21
. L'ontologia russelliana si ampliò così a dismisura, venendo ad
includere
non soltanto particolari materiali ma anche riferimenti spazio-temporali,
relazioni, universali, classi, correlati di descrizioni definite prive di senso
come "la montagna d'oro", oggetti logici a cui si pensa che espressioni
logiche come "o" alludano, per non menzionare gli dei omerici e le chimere.
22
In breve tempo, comunque, Russell sfoltì questa "giungla ontologica", utilizzando come
"rasoio di Occam" la sua "teoria delle descrizioni" (1905), che rivoluzionò la sua
precedente concezione (simile a quella di Moore) del rapporto tra linguaggio e realtà.
Russell, infatti, inizialmente sosteneva non esserci cesura tra le espressioni linguistiche e le
proposizioni che esse veicolano, proposizioni che egli reputava le uniche a cui si attagliano
i valori di verità vero e falso. Dette proposizioni erano considerate da Russell, d'accordo
con Moore, entità non linguistiche e indipendenti dal pensiero, contenenti non parole, ma
enti oggettivi che Russell denominava "termini" e Moore, come abbiamo visto, "concetti".
Con la teoria delle descrizioni, invece, viene adombrata da Russell
la possibilità di una discrepanza tra la struttura grammaticale della frase che
esprime una proposizione e la struttura logica della proposizione espressa.
[…] La teoria delle descrizioni, secondo Russell, mostrò che la forma
grammaticale di un'espressione (ad esempio "Il re di Francia è calvo", che ha
la forma soggetto/predicato) può nascondere la vera "forma logica" della
proposizione espressa. Poiché l'analisi logica di tali proposizioni rivela la
presenza di quantificatori, relazioni d'identità e costanti logiche (ad esempio
"Esiste un x tale che x è il re di Francia, e x è calvo, e per tutti gli y, se y è il
re di Francia, allora y è uguale a x"). E le "locuzioni denotanti", che sembrano
stare per qualcosa, in realtà non denotano nulla [come la locuzione "Il re di
Francia" in epoca repubblicana], a dispetto della loro occorrenza come
soggetto grammaticale di una frase.
23
Questa "decurtazione ontologica" ebbe profonde implicazioni per l'analisi filosofica
russelliana:
1. Dall'analisi di ogni singola entità ostensivamente menzionata dalle parole di
una frase si passa al riconoscimento che le frasi possono contenere anche quelli
che Russell definisce "simboli incompleti" (e che Frege chiama "nomi di una
funzione"), di cui le "descrizioni definite" (locuzioni atte a denotare che
contengono l'articolo determinativo, come, appunto, "Il re di Francia")sono un
tipo. I simboli incompleti non hanno significato, non stanno per nulla (e come
tali sono distinti dai "simboli completi", cioè dai sostantivi), pur occorrendo in
costrutti linguistici esprimenti proposizioni, cioè muniti di significato. L'analisi
20
Cfr. WPAP, 277, nota 24.
21
WPAP, 10.
22
WPAP, 10-11.
23
WPAP, 11.
di tali espressioni, allora, si svolge commutando la frase originale in una da cui
il simbolo incompleto è stato eliminato, come abbiamo visto nel caso esaminato
sopra, in cui la riformulazione de "Il re di Francia è calvo" non menziona più "Il
re di Francia". Questo significa che possiamo intelligibilmente asserire che "Il
re di Francia è calvo" pur non esistendo attualmente nessun re di Francia; in
questo caso la nostra asserzione è falsa (poiché la proposizione "Esiste un x tale
che x è re di Francia" è falsa nell'odierna Francia repubblicana), ma non priva di
senso.
2. Conseguentemente l'analisi diviene lo strumento per palesare la vera forma
logica delle proposizioni, e quando Russell sostituì i fatti alle proposizioni quali
costituenti il nostro mondo, il compito primario della filosofia divenne
l'investigazione delle forme logiche dei fatti del mondo, distinte come tali dalle
forme grammaticali delle frasi che rappresentano quei fatti.
3. L'apparato tecnico della logica formale assurse dunque a mezzo fondamentale
dell'analisi filosofica, permettendo di penetrare le ambiguità della grammatica
ordinaria e dischiudendo alla mente l'effettiva struttura logico-metafisica delle
cose.
4. Tutto ciò costrinse Russell a dedicare maggiore attenzione alle indagini sul
linguaggio e sul simbolismo ordinari, al fine di rivelarne e correggerne le
distorsioni che impediscono loro di essere un medium trasparente attraverso il
quale indagare le forme delle proposizioni (più tardi dirà dei fatti). Inoltre la
teoria delle descrizioni, sebbene Russell non lo volesse ammettere, instradò
l'analisi verso ambiti intra-linguistici, dove lo scopo della chiarificazione
filosofica si attua tramite parafrasi, e non attraverso la ricerca metafisica della
struttura logica ultima della realtà intesa come insieme di proposizioni o di fatti.
Con la teoria delle descrizioni, quindi, Russell moderò le sue pretese ontologiche e si avviò
per la strada maestra dell'analisi riduttiva, la cui massima recita: "ogniqualvolta sia
possibile, le costruzioni logiche devono essere sostituite alle entità inferite [dalle nostre
sensazioni]"
24
, riconducendo esistenze apparenti tali alla loro effettiva natura di costrutti
simbolico-formali ricavati da oggetti familiari di cui abbiamo esperienza diretta
25
. Russell,
infatti, distingueva tra conoscenza tramite descrizioni e conoscenza tramite percezione
immediata, considerando la prima riducibile mediante analisi alla seconda. Negli oggetti di
cui abbiamo cognizione immediata faceva rientrare non solo i dati sensibili, ma anche gli
"universali" ("quando esperiamo un dato sensibile prima di un altro, per esempio, veniamo
a conoscenza di un universale, la relazione 'prima di'"
26
), mentre escludeva da questa
categoria cognitiva gli oggetti fisici, infatti
noi conosciamo un oggetto, poniamo un tavolo, come quello a cui si applica
una certa descrizione – ad esempio "la cosa che causa questi dati sensibili" –
ed è soltanto per inferenza, non tramite percezione diretta, che sappiamo che
c'è un oggetto simile. Non conosciamo direttamente neppure gli altri esseri
umani, […] gli esseri umani, ritiene [Russell], sono nella stessa posizione
degli oggetti fisici: sono inferenze dai dati sensibili. Come per le persone di
cui non siamo a diretta conoscenza – Giulio Cesare, per esempio – noi
conosciamo gli esseri umani, ovviamente, attraverso le loro descrizioni: così
Giulio Cesare è, per ricorrere al solito esempio, "l'uomo che attraversò il
Rubicone".
27
24
WPAP, 12.
25
Secondo Russell il rischio di errore diminuisce ogniqualvolta ci asteniamo dal credere
esistente un'entità; nella metafisica come nella logica egli è alla ricerca del "vocabolario
minimo" che, combinato con la "sintassi" enunciata nei suoi Principia Mathematica ([1910]
coautore: A. N. Whitehead, Cambridge, Cambridge University Press, 1967), verrebbe a
costituire un linguaggio ideale (cfr. AHYP, 236, nota 1).
26
AHYP, 233.
27
AHYP, 233.
Concludendo, pensava Russell, "ogni proposizione che siamo in grado di comprendere deve
essere composta interamente da elementi di cui abbiamo conoscenza diretta"
28
. Il vero
soggetto di proposizioni come "Giulio Cesare attraversò il Rubicone", per quanto strano
possa apparire, non è Giulio Cesare, sostiene Russell, perché noi possiamo parlare
sensatamente soltanto di ciò che rientra nella nostra esperienza immediata, come i dati
sensibili o gli universali. Le proposizioni che contengono soggetti non ancora "esplicitati"
possono quindi essere ridotte, mediante la teoria delle descrizioni, a proposizioni che
riescono ancora a convogliare tutto quello che originariamente esprimevano senza tuttavia
contenere nomi come "Giulio Cesare" o locuzioni ambigue e contraddittorie come
"L'attuale re di Francia", le quali porrebbero il problema delle entità a cui andrebbero
riferite.
Queste tematiche echeggiano il profondo mutamento in cui, dal 1910, incorsero l'ontologia
e la metafisica russelliane. Come abbiamo visto, Russell nei primi anni del secolo seguì
Moore nel proporre una forma estrema di realismo platonico:
Egli argomentò che il mondo è composto di "termini" – cose e "concetti" (o
attributi) – che sono i costituenti delle proposizioni. Le proposizioni erano
concepite come entità oggettive, né mentali né linguistiche, che possedevano
le proprietà non analizzabili della falsità o della verità. I termini erano
"contenuti" nelle, o "costituenti" delle, proposizioni. Il giudizio era ritenuto
coinvolgere una relazione diretta tra una persona e una proposizione, intesa
come esistente indipendentemente dal giudizio. Le proposizioni vere erano
fatti realmente verificatisi nel mondo.
29
Nel 1910 Russell abbandonò l'ontologia delle proposizioni e la non-analizzabilità della
verità e della falsità per volgersi, parzialmente sotto l'influenza di Wittgenstein, a quella che
egli chiamò "la filosofia dell'atomismo logico", tramite la quale voleva "descrivere
[mediante analisi] i tipi di fatti che ci sono nel mondo – proprio come uno zoologo cerca di
descrivere i diversi tipi di animali."
30
. Questo era quello che Russell definiva "il metodo
scientifico in filosofia", infatti, nella sua visione, la filosofia, come la scienza, mira alla
comprensione teorica e priva di presupposizioni valutative del mondo, non avendo, come
invece sostenevano gli idealisti assoluti, un suo peculiare oggetto di conoscenza o un suo
speciale approccio intuitivo, bensì condividendo con le scienze la prassi di avanzare ipotesi
provvisorie che consentano approssimazioni progressive alla verità (al contrario dei sistemi
della metafisica speculativa, che erano costruiti in blocco).
Quel che differenzia la filosofia dalle scienze particolari, a detta di Russell, è la sua
maggior generalità e il suo apriorismo logico-formale; questo perché la filosofia ha
aspirazioni fondazionali (e conseguentemente costruttive) che esigono l'esame critico e
indipendente dalle contingenze naturali dei principi del ragionamento, nella scienza come
nella vita quotidiana.
Scendendo nel dettaglio, l'atomismo logico prevede che i fatti (atomici) siano
fondamentalmente costituiti da atomi logici che Russell, non certo sorprendentemente,
identifica con i dati sensibili e gli universali (un esempio tipico di fatto atomico è A precede
B, dove A e B sono dati sensibili). I fatti possono essere particolari (come "questo oggetto è
bianco") o universali (come "tutti gli uomini sono mortali"), infatti la pretesa che la realtà
sia interamente costituita da fatti particolari, osserva Russell, è auto-contraddittoria, poiché
implica che i fatti atomici siano i soli fatti esistenti, e una volta ammesso questo fatto
generale non c'è ragione per non ammetterne altri. Alcuni fatti sono "completamente
generali", si riferiscono, cioè, non ad entità particolari, ma alla forma generale, o "sintassi",
delle affermazioni (es.: "Se qualcosa ha una certa proprietà e qualsiasi cosa abbia questa
proprietà ha una certa altra proprietà, allora la cosa in questione ha quest'ultima proprietà");
questi sono, secondo Russell, i fatti della logica. Inoltre un fatto può essere affermativo o
negativo; possono esserci fatti di fatti, e così via.
28
AHYP, 233.
29
WPAP, 13.
30
AHYP, 236. "[Russell], cioè, continua ad accettare l'opinione di Moore che la filosofia
tenta di dare 'una descrizione generale dell'intero universo'." (AHYP, 236).
Per Russell non ci sono comunque fatti veri o falsi: soltanto le proposizioni possono essere
vere o false e le proposizioni, come egli adesso sostiene, sono simboli, non fatti costituenti
il mondo. Esse sono classificate da Russell come atomiche o molecolari, considerando
queste ultime esprimibili tramite "funzioni di verità" di proposizioni atomiche – la loro
verità o falsità, cioè, è interamente determinata dalla verità o falsità delle proposizioni
atomiche che, collegate dalle costanti logiche, le compongono. Il valore di verità di una
proposizione atomica, invece, può essere deciso solo confrontandola con il fatto che essa
descrive, quindi, per fare un esempio, la proposizione "molecolare" "p e q" è vera se le
proposizioni atomiche p e q sono entrambe vere, ed è falsa se una di loro è falsa o ambedue,
ma la verità di p è indipendente dalla verità di qualsiasi altra proposizione e legata
all'effettivo verificarsi dei fatti da essa espressi.
Dunque Russell non sosteneva più che la verità è una proprietà indefinibile caratterizzante
certe proposizioni e non altre, ma, piuttosto, che è possibile caratterizzarla in termini di
corrispondenza con i fatti: la veracità di un giudizio è determinata dall'esserci un fatto a cui
il giudizio corrisponde. Conseguentemente, le proposizioni non sono più ritenute da Russell
come le costituenti ontologiche della realtà, ma scendono al rango di mere entità
linguistiche che corrispondono o no ai fatti. Anche la teoria russelliana del giudizio incorse
in modifiche: giudicare non significava più per Russell impostare una relazione binaria tra
una persona e una proposizione, bensì stabilire una relazione multipla tra i componenti
della proposizione esprimente il giudizio formulato da una persona e la forma logica della
proposizione stessa, che descrive il modo in cui i componenti dell'asserzione sono uniti
impedendo così di confondere, per esempio, "a precede b" con "b precede a". La forma di
un giudizio per Russell è identica alla forma del fatto che rende vero quel giudizio.
Le forme, abbiamo già visto, sono anch'esse entità, fatti, ma di un tipo totalmente generale,
privo di contingenze (e quindi aprioristicamente vero), di cui la mente viene a conoscenza
attraverso una sorta di "esperienza logica" (presupposto basilare della nostra capacità di
giudicare) e che poi combina nel giudizio con i costituenti del giudizio stesso. Le forme
sono esplicitamente ottenute tramite un processo di generalizzazione, rimpiazzando tutti i
nomi di enti particolari, di proprietà e di relazioni in una frase completamente analizzata
(cioè da cui tutti i simboli incompleti sono stati espunti) con variabili reali (es.: "Romeo
ama Giulietta" diviene "xRy"). Anche i giudizi inerenti le forme sono completamente
generali; essi non hanno parti costituenti e Russell li paragona ai giudizi della logica,
concernendo entrambi l'"intelaiatura" generale del mondo – come ad esempio il giudizio già
riportato "Se qualcosa ha una certa proprietà e qualsiasi cosa abbia questa proprietà ha una
certa altra proprietà, allora la cosa in questione ha quest'ultima proprietà".
Questo processo di astrazione logica, secondo Russell, è il compito precipuo dell'indagine
filosofica, la quale, inventariando le forme logiche presenti nel mondo, descrive le strutture
in assoluto più generali delle cose, classificando tutti i tipi di fatti possibili e le loro
relazioni reciproche; non dimentichiamoci, infatti, che per Russell la filosofia è affine alle
scienze naturali nell'indagare la realtà che ci circonda, ma anche affine alla logica nel
declinare astrattamente, formalmente e aprioristicamente questa indagine. Ecco che dunque
il "metodo scientifico" propugnato da Russell in filosofia diviene il metodo dell'analisi
logica, condotta attraverso il nuovo formalismo da lui elaborato assieme a Whitehead e che
lo stesso Russell reputava un linguaggio logicamente perfetto in grado di rispecchiare le
forme logiche dei fatti e quindi di rilevare la struttura logica del mondo. Infatti, come
abbiamo avuto modo di vedere parlando della teoria delle descrizioni, Russell si andava
sempre più convincendo del solco profondo esistente tra le forme grammaticali delle
proposizioni e le forme logiche dei fatti che la filosofia deve indagare, giungendo, assieme
a Frege, a considerare il linguaggio naturale inadatto a veicolare la struttura logica profonda
della realtà. Al contrario,
[i]n un linguaggio logicamente perfetto, ci sarà al massimo una parola per
ogni oggetto semplice, e tutto quello che non è semplice sarà espresso
mediante una combinazione di parole, una combinazione derivata,
naturalmente, dalle parole usate per designare le cose semplici che entrano a
far parte del complesso, una parola per ciascun componente semplice. Un
linguaggio di questo tipo sarà completamente analitico, e mostrerà a colpo
d'occhio la struttura logica dei fatti asseriti o negati. Il linguaggio che è
proposto nei Principia Mathematica è un linguaggio di questo tipo. […] I