all’atteggiarsi di tali vicende traslative, che si riconnettono le più significative
conseguenze ai fini tributari.
A questo punto però, è necessario affrontare un problema, che si atteggia
quasi a “questione pregiudiziale” per l’analisi di un istituto tributario.
Il concetto di azienda, infatti, è stato definito tramite il rinvio ad una
norma contenuta nel codice civile. Il problema che ora si pone è, dunque,
questo: anche il diritto tributario, nel momento in cui fa riferimento alla
nozione di azienda nella disciplina delle varie imposte, ha recepito, o
assorbito, facendola propria, la corrispondente nozione civilistica? Oppure, ha
elaborato una specifica concezione dell’azienda, attribuendole così anche
un’accezione più specificamente “tributaria” ?
Tale questione, analizzata da autorevole dottrina sin dagli albori del
dibattito intorno all’autonomia dogmatica e scientifica del diritto tributario,
riproduce la questione del rapporto tra questa disciplina e gli altri rami del
diritto.
D’altronde, sono da sempre numerose e intense, le interrelazioni del diritto
tributario con le altre discipline giuridiche. Anche per questo, per lungo
tempo, la dottrina ha dubitato di una sua vera “autonomia” dogmatica da altre
materie, le quali conoscevano del resto un’evoluzione e un approfondimento
scientifico notevole: si pensi al diritto amministrativo e al diritto finanziario
1
.
1
Tra l’altro, si può dire fino agli inizi del Novecento, non esistevano trattazioni scientifiche organiche della
materia tributaria. L’attività finanziaria, che si esplicava attraverso l’imposizione dei tributi, quali entrate
necessarie per far fronte alle pubbliche spese, era considerata quasi una naturale appendice del diritto
Tralasciando il complesso evolversi del fenomeno dell’autonomia del diritto
tributario di cui la dottrina si è ampiamente occupata
2
, anche sotto l'influsso
degli studi che si andavano approfondendo negli altri Paesi europei
3
, rimane
comunque assodato che, nonostante la sua autonomia come disciplina
giuridica e didattica, il diritto tributario fa parte della species delle discipline
giuspubblicistiche e del genus delle discipline giuridico-finanziarie
4
. In ogni
caso, l’aver individuato questi rapporti di genus e di species, non significa
affatto dire che una disciplina debba restare assoggettata all’altra, quasi in una
relazione gerarchica
5
.
Ma è proprio a causa di questa intrinseca “complessità” del diritto
tributario, e del fatto che esso si trovi spesso a convivere con nozioni,
amministrativo, che dello Stato, dei suoi organi, e dei pubblici interessi, faceva il suo fondamentale oggetto
di studio; perciò la materia finanziaria era assorbita ed inglobata in esso.
2
Su tale argomento si può specificare che è solo agli inizi del secolo, che compaiono i primi segnali e
tentativi di una evoluzione autonoma degli strumenti e dei mezzi di analisi del fenomeno impositivo: il diritto
tributario, per sua natura profondamente radicato e connaturato alle esigenze di imposizione statale, viene
considerato tradizionalmente una materia pubblicistica, ma solo in un secondo momento è fatto oggetto di
trattazioni organiche ed autonome, che iniziano a determinare la sua affermazione come specifica disciplina
scientifica e anche didattica, cioè separata da quelle materie cui fino a quel momento era rimasto legato. Su
tali sviluppi, si veda, tra gli altri, D’AMATI, Il diritto tributario e la tradizione giuridico – finanziaria
italiana, in Studi in onore di A.D. Giannini, Milano, 1961, p. 397; A.D. GIANNINI, Istituzioni di dir.
tributario, Milano, 1968, p. 47; BERLIRI, Evoluzione dello studio del diritto tributario, in Riv. dir. fin. sc.
fin., 1949, I, p. 66. ss.; BAFILE, Introduzione al diritto tributario, Padova, 1978, p. 3 ss.; RASTELLO,
Diritto tributario. Principi generali, Padova, 1987; LICCARDO, Il concetto d’imposizione tributaria,
Napoli, 1967; FANTOZZI, Diritto tributario, Torino, 1998, p. 9 ss., e bibliografia ivi riportata; PISTONE,
La giuridificazione tributaria in rapporto agli altri rami del diritto, Padova, 1994, p. 34.
3
Importanti, infatti, furono le esperienze straniere: fu grazie alla spinta della dottrina, che, all’incirca nel
1919, in Germania, i principi regolatori dell’imposizione vengono raccolti in un testo legislativo organico che
dà vita ad un vero e proprio “ordinamento tributario”. La dottrina tedesca vuole così sottolineare con forza
l’autonomia scientifica dei principi giuridici che influenzano il fenomeno impositivo. La sua novità viene
recepita anche in Italia, anche se non nelle forme di un passivo assorbimento delle dottrine d’Oltralpe, ad
opera di autori come PUGLIESE, Corso di diritto e procedura tributaria, Padova, 1935, e TESORO,
Principi di diritto tributario, Bari, 1938.
4
LICCARDO, Introduzione allo studio del diritto tributario, In Trattato di diritto tributario, diretto da A.
Amatucci, Padova, 1994, p. 5. Particolare poi è la posizione di BERLIRI, Corso istituzionale di diritto
tributario, Milano, 1985, p. 6, secondo cui, nei confronti del diritto tributario “ come nei confronti di altri
rami del diritto, non si può parlare di autonomia giuridica, ma solo di autonomia didattica e scientifica,
giustificata dall’opportunità di circoscrivere lo studio ad un gruppo di norme che presentano una particolare
omogeneità”.
5
Si veda D’AMELIO, L’autonomia dei diritti, in particolare del diritto finanziario, nell’unità del diritto,
Padova, 1941, p. 3.
concetti, materie, provenienti da altre discipline giuridiche (ad esempio, dal
diritto privato, commerciale, penale, processuale, ecc.), che inizia a porsi il
problema dei rapporti della materia tributaria con gli altri rami del diritto
6
.
In effetti, la riconosciuta autonomia del diritto tributario, non deve indurre
all’erroneo convincimento di una netta, totale e rigida separazione di tale
disciplina da altri settori del diritto: si manifesta, così, sempre attuale la
osservazione del D’Amelio, secondo cui l’unità del diritto implica che
“nessuna parte può sconoscere l’altra”
7
.
Questa crescente riflessione sui rapporti, meglio sulle “interrelazioni”, con
altri rami del diritto e con gli istituti ivi richiamati, ha creato, nella dottrina
come nella pratica, non poche perplessità sul come intendere quelle norme,
provenienti da altre branche giuridiche, che in vario modo – o con un rinvio
espresso, o tacito, o con generico richiamo, o ancora con una semplice
“trasposizione” dell’istituto – venivano in contatto con la materia tributaria
8
.
Particolarmente interessante, anche per l’indagine che riguarda la presente
6
Tale rilevante questione, fa sorgere un interessante dibattito in dottrina; è A.D. GIANNINI, I concetti
fondamentali del diritto tributario, Torino, 1956, p. 4, che brillantemente afferma che il diritto tributario è
costituito da “un insieme di rapporti di diversa natura, aventi in comune soltanto il loro riferimento materiale
alla molteplice attività che lo Stato esplica nel campo finanziario, e che, pur essendo generalmente regolato
da norme di diritto pubblico, dà vita anche, in alcune sue manifestazioni, a rapporti di diritto privato”.
7
D’AMELIO, L’autonomia dei diritti, in particolare del diritto finanziario, nell’unità del diritto, cit., p. 17.
8
E’, insomma, il dibattito relativo al “valore per il diritto tributario degli istituti giuridici di altri campi”,
secondo una celebre espressione del VANONI, L’unità del diritto e il valore per il diritto tributario degli
istituti giuridici di altri campi, in Opere giuridiche, I, Milano, 1961. In fondo, è proprio la natura stessa della
norma tributaria, che per il modo in cui essa opera e per i fini che tende a realizzare, non può non “calarsi” in
altre discipline giuridiche, richiamandone i vari istituti. Il Micheli ce lo fa chiaramente intendere quando
dice: “Il diritto tributario si presenta perciò come un complesso di norme che seguono il fenomeno
dell’imposizione sui diversi piani in cui esso si svolge: dalla disciplina dell’esercizio dell’attività del
legislatore nel porre la norma giuridica tributaria, all’esercizio della potestà tributaria, da parte dell’ente
impositore, alla tutela civile, penale ed amministrativa, riconosciuta sia all’ente stesso che al soggetto
passivo. Il diritto tributario si presenta così come una specie di “spaccato” di attività giuridiche differenti per
i soggetti che le pongono in essere e per il contenuto delle attività stesse” (MICHELI, Voce Diritto tributario
e diritto finanziario, in Enc. del dir., vol. XII, 1126).
trattazione, e che costituisce il problema da cui si è partiti, è proprio il
rapporto del diritto tributario con il diritto privato e con istituti e concetti
tipicamente privatistici (come quelli di azienda, impresa, locazione, famiglia,
ecc.), copiosamente presenti nella disciplina tributaria, visto che, in generale,
presupposti dell’imposizione possono essere istituti e fattispecie, la cui
nozione (o definizione), è originaria di altri rami del diritto, o quantomeno
non espressamente riformulata in maniera autonoma nella norma impositiva.
E’ qui che si pone il problema interpretativo: come “leggere” quei
riferimenti, e quale significato attribuire ad essi?
Si deve cioè richiamare il contenuto proprio e tipico dell’istituto giuridico,
ad esempio privatistico o penalistico, così come esso è disciplinato nella
branca di appartenenza, oppure il diritto tributario (data la sua autonomia
scientifica), nel momento della ricezione dell’istituto, ha in realtà già
“trasformato” quella definizione, l’ha “colorata”di una luce nuova e diversa,
ed adattata alle peculiari esigenze impositive? Per ciò che riguarda la presente
indagine, in particolare, la nozione di “azienda”, accolta dal legislatore
tributario, è diversa rispetto a quella di cui all’art. 2555 del codice civile?
Su questa questione la dottrina ha espresso molte e diverse opinioni anche
perché è stato lungo il dibattito che l’ha accompagnata.
Il rapporto con il diritto privato, in ogni caso, è particolarmente rilevante e
significativo, sia per l’intenso numero di richiami ad istituti privatistici, che
molto spesso costituiscono proprio il presupposto del tributo, o il suo oggetto,
sia per l’importanza intrinseca del diritto privato, considerato quasi “il diritto”
per antonomasia, soprattutto in un Paese ad illustre tradizione romanistica
come il nostro
9
. Per cercare di capire in che modo possono atteggiarsi tali
interrelazioni fra più discipline diverse, e soprattutto per comprendere con
quale grado d’intensità, istituti civilistici possono essere, per così dire,
“trapiantati” nel diritto tributario, mantenendo intatto il loro contenuto, o
viceversa, essere “adattati”, assumendo il peculiare significato proprio della
disciplina che li ha recepiti, si possono svolgere alcune osservazioni.
Come autorevole dottrina ha messo in luce
10
, occorre rilevare proprio la
differente “prospettiva” da cui guardano il diritto privato e quello tributario
per disciplinare gli istituti giuridici. Infatti, mentre il codice civile si occupa
prevalentemente dei rapporti fra soggetti di diritto, considerandone poi le
reciproche inferenze e conflitti, il diritto tributario, <<disciplina
9
In tale ambito, si è determinato, soprattutto in passato, uno schieramento contrapposto, tra i cd.
“integralisti” ed i cd. “autonomisti”. I primi sostenevano che la norma tributaria dovesse essere considerata
come “eccezionale” o “speciale” rispetto a quella civilistica, ritenuta, invece, “ordinaria” e comune.
Presupposto di tale affermazione è il principio della inscindibile unità ed integrità del diritto, per cui ogni
cosa è parte di un tutto, e quindi le definizioni privatistiche non possono restare relegate al loro campo, ma
devono valere anche lì dove sono richiamate. Perciò l’interprete deve guardare al significato di istituti e
nozioni, così come esso è disciplinato nella branca di appartenenza. Quando l’istituto viene poi richiamato da
una norma di diritto tributario, esso sarà semplicemente “trapiantato” nel suo ambito, con la sola eccezione a
tale regola, che si ha quando emerge chiaramente la volontà della legge di determinare una diversa
interpretazione. A questa dottrina si contrapponeva l’altra corrente di pensiero, quella autonomista o
“sincretica” della scuola di Pavia, che, invece, radicalmente, individuava una netta separazione tra le
discipline giusprivatistiche e il diritto tributario, soprattutto per l’esistenza, in tale materia, di principi
specifici, dovuti al contenuto economico del rapporto, e di scopi particolari, connessi con i pubblici interessi,
anzi, tendenti proprio alla realizzazione di questi, e perciò difficilmente conciliabili con gli scopi propri e
“personalistici” del diritto privato. Tali principi, si affermava, difficilmente potrebbero essere recepiti o
utilizzati in differenti contesti giuridici, senza alterane la natura. Secondo questi Autori, in ogni caso, la
utilizzazione nelle norme tributarie di istituti propri del diritto civile, non postula la necessaria ricezione della
elaborazione dottrinaria e della evoluzione giurisprudenziale privatistica; per cui resta soltanto la
terminologia civilistica, usata come “sussidio” della norma tributaria, attraverso la “lente d’ingrandimento”
del diritto tributario.
10
TINELLI, Il reddito d’impresa nel diritto tributario. Principi generali, Milano, 1991, pag. 62 ss.;
TRIMELONI, Voce Diritto tributario, in Dig. disc. priv. sez. comm., vol. IV, pag. 694 ss.; LUPI, Diritto
tributario. Parte generale, Milano, 1994, pag. 76 ss.
esclusivamente il prelievo fiscale su espressioni di capacità contributiva>>
11
,
andando, quindi, più specificamente a ricercare fattispecie manifestanti
attitudine contributiva; quindi, esso non tanto considera relazioni fra privati
fini a se stesse, bensì l’idoneità del soggetto a costituire centro d’imputazione
di rapporti tributari.
Questo fa capire che, per risolvere il problema prospettato, non si può
scegliere una soluzione assolutamente generale, univoca, e valida in ogni
situazione, e dire che, sempre, il termine civilistico debba essere “trapiantato”
col suo significato originario e col suo (spesso articolato) bagaglio di
interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali; o, all’opposto, che in ogni caso,
data l’autonomia del diritto tributario, ogni istituto, anche se “esterno”,
assume una connotazione particolare quando è recepito nella norma tributaria,
finendo così per distaccarsi dall’originario ambito di appartenenza. Entrambe
le tesi, invece, hanno elementi di validità, e perciò, in qualche modo, la vera
soluzione è data da un’accettazione (parziale) delle affermazioni di entrambe.
Seguendo l’insegnamento del Micheli, l’interprete deve partire dal dato
secondo cui, il termine o l’istituto, proveniente da altri rami del diritto, sia
stato impiegato nello stesso significato con cui è usato nel ramo del diritto di
appartenenza. Solo se da un’interpretazione sistematica della norma tributaria,
risulta che <<l’istituto è stato indicato dalla norma stessa come fattispecie al
cui verificarsi conseguono determinati effetti tributari (…), allora è possibile
11
TINELLI, Il reddito d’impresa nel diritto tributario, cit., 63.
che l’istituto contrassegnato con il nome usato dal legislatore in altri campi del
diritto, abbia invece un contenuto ed una disciplina in tutto o in parte
differenti da quelli propri in quei campi>>
12
. In tali casi, dunque, ci sarebbe
una coincidenza solo nel nomen dell’istituto giuridico, cui non
corrisponderebbe altrettanta coincidenza nel contenuto. Quindi, il significato
civilistico costituirà uno spunto importante, ma non insuperabile, per la sua
interpretazione.
Con tale soluzione concorda ormai la gran parte della dottrina
13
; e anche la
stessa Corte Costituzionale, in una pronuncia sul punto
14
ha riconosciuto che
non vi è sempre e comunque un mero trasferimento “in blocco” di principi ed
istituti da un settore giuridico ad un altro, ma che il fenomeno tributario può
<<divergere e financo ampliare il corpus delle regole comuni>>
15
. Si finisce
così per sostenere che, alla norma tributaria, devono applicarsi gli stessi criteri
interpretativi ed ermeneutici, previsti per qualunque altra norma giuridica
16
.
12
MICHELI, Voce Legge (dir. trib.), in Enc. del dir., vol. XXIII, 1097; si veda anche, dello stesso Autore,
Corso di diritto tributario, Torino, 1989.
13
Cfr. LUPI, Diritto tributario, cit., pag. 77; TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale,
Torino, 1998, pag. 37; FANTOZZI, Diritto tributario, cit., p. 186; A.D. GIANNINI, I concetti fondamentali
del diritto tributario, Torino, 1956; TRIMELONI, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 1979;
LICCARDO, Introduzione allo studio del diritto tributario, cit., p. 10; MICHELI, Soggettività tributaria e
categorie civilistiche, in Riforma tributaria e diritto commerciale. Le fattispecie, Milano, 1978, p. 33 e ss.
14
Corte Cost., 30 aprile 1986, n. 115, in Boll. trib., 1986, p. 1093.
15
Corte Cost., sent. ult.cit.
16
Alcuni autori, più specificamente, individuano varie modalità, quasi vari gradi di interconnessione, tra il
diritto tributario ed altre nozioni ed istituti di varia provenienza: vi può essere innanzitutto un rinvio tacito o
espresso ad altre norme attraverso vari richiami, che determinano, più che un mero trapianto di istituti, una
vera e propria integrazione fra più settori dell’ordinamento; ci può essere poi una utilizzazione di concetti
della realtà extragiuridica, che riguarda essenzialmente termini provenienti dall’economia, dalla finanza,
ecc., e che sono recepiti nel significato proprio della realtà da cui provengono (il che non significa che anche
in tale realtà non possano mutare accezione); infine, vi sono delle vere e proprie nozioni autonome (o
proprie), elaborate dal diritto tributario, questa volta sì, in maniera differente e peculiare rispetto alla
corrispondente nozione civilistica (o penalistica, ecc.), che sgancia, almeno parzialmente, la nozione in esame
dall’ambito di appartenenza, e la colloca, invece, nelle accezioni proprie del diritto tributario. Sul punto,
TRIMELONI, Voce Diritto tributario, cit., 694 ss.; PISTONE, La giuridificazione, cit., 107 ss.
Perciò, talvolta, il legislatore tributario ritiene che, per le esigenze della
disciplina che vuole regolamentare, sia preferibile rifarsi alle categorie
civilistiche, essenzialmente al fine di un uguale apprezzamento dello stesso
fenomeno da parte dei vari rami dell’ordinamento giuridico, e per il vantaggio
dell’utilizzazione di categorie già collaudate.
Viceversa, altre volte, la nozione civilistica, con la conseguente disciplina
propria di tale ramo del diritto, mal si adatta alle esigenze ed agli scopi propri
del diritto tributario: è quel che accade, in maniera esemplare, con la nozione
di impresa, di cui all’art. 51 del dpr 22 dicembre 1986, n. 917, in cui si assiste
ad un sensibile ampliamento del concetto ricavabile dagli artt. 2082 e seguenti
del codice civile e in cui il distacco dall’ambito privatistico, potrebbe trovare
giustificazione nel fatto che, il soggetto che svolge attività d’impresa, viene
individuato dalla legge, quale destinatario di quegli obblighi formali, primo
fra tutti quello del sostituto d’imposta, che consentono più intense garanzie di
tutela erariale, nell’accertamento del reddito attribuibile all’impresa
17
.
17
Sull’argomento si veda ampiamente TINELLI, Il reddito d’impresa nel diritto tributario, cit., 65 ss. Si può
osservare, infatti, che l’art. 51 del dpr 22 dicembre 1986, n. 917, dà dell’impresa una nozione, in realtà, più
ampia di quella ricavabile dal codice civile, e quindi propria del diritto privato e commerciale: sia nel senso
che riguarda soggetti passivi che non sono sempre veri e propri imprenditori commerciali ai sensi dell’art.
2082 c.c., sia nel senso di colpire attività diverse da quelle considerate nell’art. 2195 del codice civile. O,
ancora, discrepanze tra diritto privato e tributario, possono riscontrarsi nell’art. 2 del dpr 26 ottobre 1972, n.
633, per la definizione di cessione di beni ai fini IVA; è evidente che il legislatore tributario sia partito dalla
nozione civilistica, per poi trasformarla incisivamente: per certi aspetti ampliandone il contenuto, per altri,
viceversa, restringendolo (è quello che avviene proprio per la cessione di azienda), ma, appunto, specificando
tale intervento, ed elencando proprio ciò che costituisce cessione di beni, e ciò che invece, non è ricompresso
in essa. Da questa opinione sembra però dissentire il D’AMATI, Il diritto tributario, in Trattato di diritto
tributario, diretto da A. Amatucci, cit., 66 ss., il quale sostiene che “l’art. 2 non deforma un istituto
privatistico”. Tale Autore formula le sue riflessioni anche sulla nozione di impresa: cfr. nella stessa opera, p.
67 ss.
Se le suesposte esigenze hanno spinto il legislatore ad una siffatta
articolazione della nozione di impresa, non altrettanto può dirsi per quella di
azienda.
Infatti, non vi sono ragioni per ritenere che tale nozione abbia nel diritto
tributario una disciplina autonoma, valida limitatamente a tale branca del
diritto
18
. In realtà, non esiste una compiuta definizione prettamente
“tributaria” del concetto di azienda, che sia rilevante esclusivamente ai fini
fiscali. Se, infatti, si cercasse tra le norme sull’imposizione, una
particolareggiata definizione del complesso aziendale, simile a quella dettata
dall’art. 51 del dpr n. 917/1986 in relazione alla nozione di impresa, non si
troverebbe una analoga ampia definizione anche per l’azienda.
Tuttavia, occorre por mente al fatto che ai fini più propriamente fiscali, ciò
che rileva sono soprattutto le ipotesi connesse al trasferimento del complesso
aziendale e alla sua circolazione. Il che fa pensare che un’analisi della nozione
di azienda ai fini tributari debba essere meglio approfondita, ad esempio,
cercando di intravedere nelle norme fiscali sui trasferimenti (quindi,
soprattutto, nelle norme sulle imposte indirette), un arricchimento, ed anche
un completamento della nozione di cui all’art. 2555 del codice civile. Infatti,
è innegabile che la richiamata norma del codice assurge quasi al ruolo di
“principio generale”, stante il suo particolare carattere generico ed astratto.
Ciò considerato, non può non riconoscersi il fatto che, in particolare nelle
18
TINELLI, Voce Azienda nel diritto tributario, in Dig. disc. priv. sez. comm., vol. II, Torino, 1987, 99 ss.;
Id., Il reddito d’impresa nel diritto tributario, cit., 136.
disposizioni fiscali sui trasferimenti, l’azienda venga meglio delineata, e
soprattutto venga meglio definita proprio la stessa cessione di azienda
19
. In
altri termini, pur considerando recepita la nozione civilistica di azienda anche
ai fini tributari, quando si valutano problematiche specificamente fiscali, ci si
accorge che la gamma delle possibili soluzioni offerte dalle norme impositive,
sono più vaste di quelle ricavabili dal disposto degli artt. 2555 e seguenti del
codice civile. Perciò, in sede di analisi di questioni relative, ad esempio, alla
distinzione fra cessione di azienda e cessione frazionata di singoli beni, con le
conseguenti implicazioni tributarie dell’una o dell’altra scelta
20
, oppure alla
determinazione del “valore complessivo” dell’azienda stessa, ai fini del
calcolo della base imponibile, ecc., occorrerebbe guardare più specificamente
alle norme tributarie; in particolare, trattandosi di trasferimenti, all’imposta di
19
L’interessante prospettiva in esame viene delineata da LA ROSA, Cessione d’azienda e cessione di beni
tra imposta di registro ed Iva, in Rass. trib., 1990, II, 305 ss., il quale sottolinea che la giurisprudenza e la
dottrina hanno sempre dato per certo e scontato, ritenendolo implicito, un assunto della cui validità, invece,
appare lecito dubitare, e cioè proprio quello secondo cui la nozione di cessione di azienda è in toto recepita
nella sua accezione civilistica, anche nel diritto tributario. In verità, aggiunge l’Autore, occorre ricordare che
la stessa dottrina civilistica che si è occupata dell’argomento, ha prospettato un’articolata gamma di
concezioni della stessa cessione di azienda. Cosicché, anche a voler ritenere “recepita dal diritto tributario” la
relativa nozione civilistica, non potrebbero ritenersi soddisfacenti risposte che attingessero solo ad alcune di
tali concezioni, non tenendo nella dovuta considerazione le altre.
Ecco perché la soluzione più adeguata a tanti dubbi, potrebbe essere quella di mutare l’approccio dell’analisi
del fenomeno della cessione di azienda. Occorrerebbe, infatti, guardare soprattutto alle norme di diritto
tributario che quel fenomeno regolano, pur dando sempre importante valore alle norme civilistiche che
possono ritenersi principi generali disciplinanti la materia. Siccome poi, il legislatore tributario non dà una
definizione di cessione di azienda nel Dpr n. 633/1972 disciplinante l’Iva, nonostante tale peculiare cessione
sia esclusa dal campo di applicazione del tributo, è alle fondamentali norme sull’imposta di registro che
occorre guardare, per individuare non solo la corretta definizione di “cessione di azienda”, ma anche le
peculiari caratteristiche di tale negozio, così come si manifestano soprattutto nei fenomeni fiscali. Se si
vogliono risolvere problematiche strettamente “tributarie”, e se si vuol correttamente stabilire cosa debba
intendersi per cessione di azienda ai fini del sistema Iva – Registro, bisogna partire dall’analisi che per tali
operazioni è svolta dalla disciplina dell’imposta di registro.
20
Come sarà analizzato più ampiamente infra, la differenza rileva in relazione alla conseguente applicazione
di due diversi tributi: l’Iva per le cessioni di beni singoli, l’imposta di registro per la vera e propria cessione
di azienda.
registro
21
.
Pertanto, la descrizione che fa l’art. 2555 c.c. dell’azienda come
“complesso di beni, organizzati dall’imprenditore per l’esercizio
dell’impresa”, può essere tranquillamente considerata recepita nel diritto
tributario. Con quei correttivi, però, cui si è fatto cenno, e che attribuiscono
un ruolo importante (non solo alle norme civilistiche, ma anche) alle
specifiche norme fiscali sull’azienda, e soprattutto sul suo trasferimento
22
.
21
E’ quanto sostiene LA ROSA, Cessione d’azienda e cessione di beni, cit., 308, che sottolinea questo
aspetto proprio ai fini della corretta differenziazione fra la cessione dell’intero complesso e quella di singoli
beni che però non assurgono alla qualifica di “azienda”.
22
Si possono considerare anche le varie problematiche inerenti, ad esempio la considerazione del complesso
aziendale più come“universitas”, unitariamente intesa, che come mero aggregato di beni, che mantengono la
loro individualità, nonostante l’inserimento nel complesso stesso; o, ancora, al diverso atteggiarsi
dell’azienda nella disciplina delle imposte dirette e indirette, ferma restando, comunque, la validità della
nozione dell’art. 2555 c.c; e, infine, al significato particolare che l’azienda assumeva, in sede di riscossione
forzata delle imposte sui redditi, nel ruolo di garanzia reale del credito erariale in sede esecutiva.
2. La nozione di azienda nel diritto civile: dalla concezione
universalistica, a quella atomistica.
2.1 L’elaborazione civilistica della nozione di
azienda.
Se dunque, come si è cercato di dimostrare, la funzione di architrave del
sistema giuridico dell’azienda, la svolgono gli artt. 2555 e seguenti del codice
civile, appare utile una breve disamina delle principali teorie sulla natura
giuridica del complesso aziendale e dei negozi ad esso relativi, teorie
ampiamente elaborate dalla numerosa dottrina che si è occupata
dell’argomento
23
.
Come è noto, il codice civile qualifica l’azienda come “il complesso dei
beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”. Da questa
nozione possiamo ricavare che gli elementi essenziali, che il legislatore ha
23
AULETTA, Azienda. Opere dell’ingegno e invenzioni industriali. Concorrenza. Nel Commentario del
cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Libro quinto, Del lavoro (artt. 2555-2601), Bologna-Roma, 1961, p. 1 e
ss.; Id., Voce Azienda nel diritto commerciale, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1996, p. 1 e ss.; ASCARELLI,
Corso di diritto commerciale, Milano, 1962, p. 311 e ss.; CASANOVA, Impresa e azienda, nel Trattato di
diritto civ., diretto da Vassalli, Torino, 1974, pp. 323 e ss.; COLOMBO, L’azienda e il mercato. In Trattato
di dir. comm e di dir. pubblico dell’economia, diretto da Galgano, vol. III, Padova, 1973, p. 1 e ss.;
CANDIAN, Appunti in tema di azienda, in Scritti in onore di Jemolo, II, Milano, 1963, pp. 153 e ss.;
COTTINO, Diritto comm., I, Padova, 1976, pp. 175 e ss.; DE MARTINI, L’usufrutto di azienda, Milano,
1950; FERRARA, La teoria giuridica dell’azienda, Firenze, 1949, pp. 284 e ss.; FERRARI, Voce Azienda
(dir. privato), in Enc. del .dir., vol. IV, Milano, 1959, pp. 681 ss.; FADDA E BENSA, Nota alle Pandette di
Windscheid, I, II, Torino, 1924, pp. 399 ss.; FERRI, Manuale di dir. comm., Torino, 1998, pp. 219 ss.;
GALGANO, L’imprenditore, Bologna, 1980, pp. 86 ss.; GRAZIANI, L’impresa e l’imprenditore, Napoli,
1959, pp. 81 ss.; MINERVINI, L’imprenditore, Napoli, s.d., pp. 116 ss.; PETTITI, Il trasferimento
volontario di azienda, Napoli, 1970; MENGONI, Ancora sull’inapplicabilità all’azienda del principio
“possesso vale titolo”, in Giur. it., 1950, I, pp. 171 ss.; ROTONDI, Diritto industriale, Padova, 1965, pp.
356 ss.; Id., La nozione giuridica dell’azienda, in Riv. dir. comm.,1930, I, pp. 31 ss.; TEDESCHI, Le
disposizioni generali sull’azienda. Dell’azienda in generale, in Trattato Rescigno, 1983 vol. XVIII, pp. 5 ss.;
VIVANTE, Trattato del diritto commerciale, II, Milano, 1924; VANZETTI, Trent’anni di studi sull’azienda,
in Riv. dir. comm.,1958, I, pp. 32 ss.; SANTORO-PASSARELLI, L’impresa nel sistema di dir. civ., in Riv.
dir. comm., 1942, I, pp. 376 ss.
messo in luce in questa definizione sono soprattutto tre
24
: a) l’esistenza di un
“complesso”, cioè di un insieme di più beni; b) il loro collegamento attraverso
l’organizzazione dell’imprenditore; c) l’unificazione degli elementi in
conseguenza della loro destinazione (cioè l’esercizio dell’impresa).
Abbastanza tormentato è stato il pensiero della dottrina sulla natura
giuridica di questo istituto (l’azienda), dalla struttura difficile da definire con
una semplice formula. Questo organismo appare, infatti, uno e plurimo, ed
inoltre, pur essendo qualificato dal legislatore sostanzialmente in termini
unitari, contestualmente, si mostra composito, per la presenza al suo interno di
una pluralità di beni, ognuno dei quali ha le sue leggi di circolazione e la sua
vita giuridica, magari indipendente e diversa da quella degli altri beni che
pure concorrono a formare il tutto. Il dibattito, tra l’altro, prende le mosse
anche da studi anteriori al codice civile del 1942, studi che la dottrina aveva
svolto per chiarire un concetto di azienda che, come si accennava, non era
legislativamente previsto, né nel codice di commercio, né in altre norme.
24
Vedi AULETTA, Voce Azienda in Enc. Giur. Treccani, cit. pag. 4.
2.2 Le “teorie universalistiche”.
La primissima dottrina nell’ultimo decennio dell’Ottocento e nei primi del
Novecento, ha cercato di qualificare l’azienda come soggetto di diritto,
distinto dall’imprenditore, mediante la personificazione del patrimonio
aziendale, che diventava così separato ed autonomo, soprattutto in sede di
circolazione. Tale teoria è stata successivamente avversata
25
in quanto si
risolveva in un semplice strumento classificatorio, e perciò privo di rilevanza
pratica, perché riconduceva la qualifica dell’azienda ad un patrimonio
autonomo, solo ai fini ed agli effetti della vicenda traslativa che si presentava
di volta in volta; sicchè, cessato tale momento “dinamico” e tale fase di
circolazione, riprendeva il sopravvento la concezione dell’irrilevanza
giuridica dell’azienda come entità patrimoniale. Tale teoria è nota come
concezione dell’“universitas iuris o iurium”: l’azienda sarebbe così un
complesso di beni e soprattutto di diritti, unitariamente considerato
26
, e la
separazione del patrimonio varrebbe soprattutto nei confronti
dell’imprenditore.
25
Da ultimo vedi COLOMBO, L’azienda e il mercato, cit., p. 5, il quale afferma che individuando
nell’azienda un patrimonio dotato di autonomia in sede di circolazione, diventa difficile indicare un’altra
norma che regoli altri patrimoni di analoghe caratteristiche; la qualificazione giuridica non serve quindi
all’individuazione di una disciplina, ma rimane fine a se stessa. Quando si argomenta nel senso seguito dai
sostenitori della tesi qui criticata, non si fa che attribuire un nome (quello del patrimonio autonomo in sede di
circolazione) all’interpretazione data alle norme sul trasferimento di azienda.
26
FADDA E BENSA, Note alle Pandette di Windscheid, cit., pp. 491 ss.