strumento , più di ogni altro, consente alla Corte di porsi in un
atteggiamento collaborativo coi giudici. Il giudice delle leggi infatti,
con la pronuncia interpretativa di rigetto , pur sostanzialmente
ritenendo la scelta normativa del giudice a quo non conforme ai
parametri costituzionali, si riserva di non eliminarla per sempre dal
sistema (operazione, questa, che potrebbe risultare poco gradita
agli “altri” giudici), ma cerca di convincerlo a cambiar strada,
suggerendogli la rotta.
Tale tipo di pronuncia non ha efficacia precettiva diretta; infatti la
Consulta, <<consapevole di non poter imporre la sua
interpretazione con la “ragione della forza”, ricorre alla “forza della
ragione”, tramite le argomentazioni utilizzate in motivazione
2
>>.
Per queste particolarità che esse presentano, è nata quindi l’idea di
dedicare il mio approfondimento alle sentenze interpretative di
rigetto che il giudice delle leggi pronuncia in seguito alle
impugnative incidentali.
Ma perché la scelta, nel titolo della tesi, del termine “metamorfosi”?
Il termine, lungi dal suggerire l’idea di una categoria “predefinita”,
sempre uguale a se stessa, è quello che meglio di ogni altro pone in
luce la natura polimorfa di questo flessibile strumento che, a tratti,
sembra addirittura perdere i suoi connotati caratteristici; ad
esempio, quando la Corte, pur di “dire la sua parola” su scelte
interpretative che, anche se non contrastanti con la Costituzione,
ritiene erronee, addiviene a pronunce “correttive
3
”, inserendosi così
in un’attività esegetica che in realtà sarebbe propria
esclusivamente dei giudici comuni.
2
A. SAITTA, Logica e retorica nella motivazione delle decisioni della Corte
costituzionale, Giuffré, Milano, 1996, pag. 237.
3
Cfr. Capitolo Quarto.
“Metamorfosi” è un termine che serve anche per evidenziare un
percorso in parte cronologico, ma soprattutto logico, desumibile
prima ancora che dal contenuto della tesi, dalla scansione del
presente lavoro. Così, ripercorsa la genesi delle sentenze
interpretative di rigetto (Capitolo Primo), ci si soffermerà sulle
tappe più significative della loro trasformazione: l’uso, da parte
della Corte costituzionale del c.d. “diritto vivente” (Capitolo
Secondo), il problematico rapporto tra questo e l’interpretazione
adeguatrice (Capitolo Terzo), il ricorso sempre più frequente a
sentenze interpretative c.d. correttive (Capitolo Quarto). Nella parte
conclusiva ci si è spinti fino a chiederci se è possibile riconoscere
alle decisioni di rigetto interpretativo un’efficacia che travalichi del
solo giudizio a quo.
Maggiori del previsto sono state, a riguardo, le difficoltà che ho
riscontrato nel tentativo di catalogare l’ampio materiale dottrinale e
giurisprudenziale a mia disposizione, A tal riguardo, pur dando
credito anche a più di qualcuna delle pronunce dei decenni
precedenti, la mia indagine è rivolta in particolare alle decisioni
degli Anni Novanta, perché è proprio in tale periodo che sono
intervenute le metamorfosi più rilevanti in argomento. Ma, pur con
questa limitazione temporale, le sentenze erano moltissime, e ho
trovato non solo difficoltoso, ma forse anche superfluo elencarle
tutte; ho preferito pertanto lavorare sui casi esemplari (il maggior
numero che mi è risultato possibile) segnalati dalla dottrina. Sia
pure riletti criticamente, spesso attraverso chiavi interpretative del
tutto personali.
CAPITOLO PRIMO:
LE SENTENZE INTERPRETATIVE DI RIGETTO
NELLA VERSIONE “CLASSICA”
1.1 Una premessa doverosa: la differenza concettuale tra
“disposizione” e “norma”
L’argomento che mi propongo di affrontare in questo primo
paragrafo potrebbe costituire già, di per se stesso, oggetto di una
approfondita e autonoma trattazione. Ma, non essendo questa la
sede idonea, mi limiterò a darne breve cenno, di impianto
manualistico, perché la tipologia delle sentenze interpretative trova
la sua collocazione nel panorama delle decisioni della Corte proprio
nel momento in cui essa, ai concetti di “disposizione” e di “norma”
(apparentemente e anche nell’uso comune sinonimi) comincia ad
attribuire significati distinti.
Il superamento della dicotomia classica sentenze di rigetto-
sentenze di accoglimento, avvenuto già peraltro con una delle
prime sentenze della Corte costituzionale
1
, porta all’arricchimento
degli strumenti decisori
2
di cui essa dispone. E tale arricchimento
si basa proprio sulla facoltà, che il giudice delle leggi rivendica, di
1
Mi riferisco alla sentenza n°3/1956. Cfr. infra paragrafo seguente.
2
Cfr. P. CARETTI- U. DE SIERVO, Istituzioni di diritto pubblico, Giappichelli,
Torino, 1999, pag. 512.
poter re-interpretare non solo i parametri costituzionali addotti dal
giudice di rinvio, ma anche gli enunciati legislativi impugnati.
Ora, e nell’uso che ne farò in seguito, posso affermare che
enunciato legislativo, testo legislativo, sono sinonimi di
disposizione. La disposizione quindi è una proposizione linguistica,
che appartiene ad una fonte del diritto. <<Condizione necessaria,
affinché di disposizioni possa parlarsi (…) è che esse siano incluse
nella parte imperativa o precettiva dell’atto, che si riveli, anche
formalmente, proveniente dai soggetti ed organi cui è data
competenza a deliberarlo nel suo contenuto
3
>>.
L’attività ermeneutica che ha ad oggetto la disposizione porta alla
norma, la quale costituisce pertanto il risultato, il “frutto”
dell’interpretazione
4
. La norma, come significato (o meglio, uno dei
possibili significati) da assegnare ad una data disposizione <<è una
variabile dipendente dell’interpretazione
5
>>.
La disposizione, quale formula appartenente al diritto oggettivo,
<<precede e condiziona la norma, ponendosi come dichiarazione
vincolante ed insostituibile (ed in questo senso costitutiva) della
norma, anche se di rado sia di per sé sufficiente a determinarne
per intero ed univocamente il significato storicamente attuale
6
>>.
3
V. CRISAFULLI, Disposizione (e norma), in Encicl. Dir., XII vol., Milano, 1964,
pag. 203. L’Autore dedica qualche accenno a tale differenza concettuale anche in
Lezioni di diritto costituzionale, Padova, Cedam, 1984, pag. 397-398.
4
Questa distinzione non sembra avvertita da P VIRGA, Diritto costituzionale,
Milano, Giuffrè, 1975, pag. 614, dal momento che egli afferma: <<il sindacato
della Corte non è circoscritto al testo della norma, ma ha come oggetto il
“precetto” e cioè la disposizione normativa contenuta nella legge>>. Alla luce
dell’impostazione sopra delineata, disposizione normativa suona come un
ossimoro! Anche P. BARILE-E. CHELI-S. GRASSI, Istituzioni di diritto pubblico ,
Padova, Cedam, pag. 366 parlano di <<interpretazione della norma ordinaria>>
(non di disposizione). Di tutt’altra opinione è invece P. BISCARETTI DI RUFFIA,
Diritto costituzionale, Napoli, Jovene, 1981, pag. 603; per l’Autore la disposizione
altro non è se non una formula linguistica testuale; la norma invece esprime la
statuizione, ricavabile per via interpretativa, contenuta nel testo stesso.
5
R. GUASTINI, Le fonti del diritto e l’interpretazione, Milano, 1993, pag. 18.
6
V. CRISAFULLI, Disposizione(e norma), cit, pag.196.
Quindi, se ad una disposizione corrisponde una sola norma (e
viceversa) le sentenze della Corte costituzionale possono avere ad
oggetto tanto l’una, quanto l’altra senza che si abbiano variazioni
di risultato. Ma il più delle volte
7
, una disposizione “racchiude” in
sé diverse norme, disgiuntamente, in quanto ad essa si possono
attribuire molteplici e configgenti significati. Le sentenze
interpretative presuppongono proprio l’esistenza di disposizioni
polisense, cioè suscettibili di diverse interpretazioni e quindi
generatrici di più d’una norma.
In particolare, le sentenze interpretative di cui mi occuperò (quelle
di rigetto) implicano la presenza di una pluralità di interpretazioni
e, seppure in maniera mediata, non accettano l’interpretazione
proposta dal giudice di rinvio. In esse la Corte opera una scelta
diversa, che tuttavia non è una scelta “definitiva” e valida erga
omnes. Infatti la scelta <<non può mai prescindere da una
valutazione dell’interprete, (…) anche se è conforme a valutazioni
correnti o generalmente accettate fino al punto di rimanere
oscurata la presenza della scelta stessa
8
>>.
7
Per T. ASCARELLI, , Giurisprudenza costituzionale e teoria dell’interpretazione,
in Riv. Dir. Proc., 1957, vol. XII, pag. 352 <<Non esistono testi rigorosamente
univoci; esistono solo testi che hanno ricevuto un’applicazione concreta (come
tale necessariamente univoca>>.
8
T. ASCARELLI, Giurisprudenza costituzionale e teoria dell’interpretazione, cit.,
pag. 358.
1.2 La rivendicazione dell’autonomia interpretativa della
Corte: la sentenza n°3/1956
Ai sensi dell’art. 134 della nostra Carta Fondamentale, una delle
funzioni riservate alla Corte costituzionale è quella di giudicare
sulla <<legittimità costituzionale della leggi e degli atti aventi forza
di legge, dello Stato e delle Regioni>>. Per far ciò, deve interpretare
(nel senso di estrapolare dai testi scritti le norme da applicare al
caso concreto) sia le disposizioni costituzionali assunte come
parametri, sia le disposizioni di rango ordinario, per verificare se
quest’ultime sono conformi alle prime.
Non ha dato luogo a polemiche l’attività, che la Corte ha sempre
svolto e in cui è sovrana
9
, di interpretazione delle disposizioni
costituzionali. Invece parecchi contrasti si sono verificati nel
momento in cui essa si è avvalsa della facoltà, di operare una
scelta ermeneutica, anche in maniera difforme rispetto al giudice di
rinvio, pure sugli atti legislativi sottoposti a sindacato di
costituzionalità. Facendo leva su questo potere, la Corte ha
arricchito la tipologia delle proprie decisioni
10
, dando vita alle
sentenze interpretative.
Nell’interpretazione della legge ordinaria, tuttavia, la Consulta non
è sola, ma concorre con il giudice comune, e i limiti tra le loro
competenze sono piuttosto fluidi, evanescenti
11
. Infatti manca
9
Cfr. A. SPADARO, Le motivazioni delle sentenze della Corte, cit., pag. 88,
secondo il quale la Corte è l’unico organo abilitato a dirci con certezza giuridica
cosa significa la Costituzione, attraverso l’uso di ragionamenti sia induttivi sia
deduttivi. Funzione, questa, importantissima, che porta la Corte ad essere
<<l’organo-soggetto che ha il (maggiore e più vero) potere dello Stato>>.
10
Cfr. L. PALADIN, Diritto costituzionale, Padova, Cedam, 1995, pag. 771.
11
Cfr. A. ANZON, La Corte costituzionale e il “diritto vivente”, in Giur. Cost., 1984,
parte I, pag. 300 ss.
<<un principio di unità in questa parte del giudizio sulle leggi
12
>>,
dal momento che la normativa sull’argomento tace.
Queste sono state le premesse che hanno portato allo scatenarsi di
quella bufera nel rapporto tra la Corte e i magistrati dovuta proprio
alla creazione da parte della prima, del nuovo strumento decisorio
costituito dalle sentenze interpretative di rigetto. Il prototipo di
questa serie è la n° 3 del 1956, anno di entrata in funzione della
Corte.
Il giudice delle leggi già si “ribella” all’egemonia interpretativa (se
così si può definire) del giudice ordinario, ritenendo <<di potere e di
dovere interpretare con autonomia di giudizio e di orientamenti e la
norma costituzionale che si assume violata e la norma ordinaria
che si accusi di violazione>>. Tuttavia, subito dopo la stessa Corte,
consapevole della potenzialità esplosiva di tale puntualizzazione
sulle sue competenze, provvede ad abbassare i toni della polemica.
“Rimedia” affermando che <<non può non tenere il debito conto di
una costante interpretazione giurisprudenziale che conferisce al
precetto legislativo il suo effettivo valore nella vita giuridica, se è
vero, come è vero, che le norme sono non quali appaiono proposte
in astratto, ma quali sono applicate nella quotidiana opera dei
giudici, intesa a renderle concrete ed efficaci>>.
Tutto sommato, quindi, <<il primo approccio a questo problema
chiave dei rapporti tra le due Corti fu dal giudice delle leggi
improntato ad estrema cautela ed ispirato ad una logica
compromissoria
13
>>. La Corte rivendica sì la sua autonomia
12
F. MODUGNO- A.S. AGRO’- A. CERRI, Il principio di unità del controllo sulle
leggi nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Torino, Giappichelli, 1997,
pag. 243.
13
R. GRANATA, Corte di Cassazione e Corte costituzionale nella dialettica tra
controllo ermeneutico e controllo di legittimità- Linee evolutive della giurisprudenza
costituzionale, in Foro It., 1998, parte I, pag. 15.
interpretativa, di cui si avvarrà maggiormente negli anni a venire
14
,
ma in fondo tale sentenza rende omaggio all’interpretazione
giurisprudenziale dominante. Costituisce quindi un caso esemplare
di applicazione della teoria del diritto vivente
15
.
Infatti , dichiara infondata la questione di legittimità costituzionale;
e, benché il dispositivo non contenga alcun rinvio alla motivazione,
in realtà il rigetto dell’istanza sollevata non ha ad oggetto la
disposizione, bensì la norma enucleata dal giudice a quo,
considerata (seppur implicitamente) illegittima. La Corte “consiglia”
al rimettente un’altra interpretazione, che essa fa propria
mutuandola dall’orientamento maggioritario.
Tale tipo di sentenza interpretativa di rigetto corrisponde ad un
modello sempre “attuale”, dotato di grande forza persuasiva poiché
la Corte non si limita a suggerire un’autonoma interpretazione
contrapposta a quella del giudice di rinvio, ma aderisce ad
un’esegesi già esistente e largamente applicata, perché è quella
prevalente in giurisprudenza
16
. A tale esegesi, la Corte si ripropone
di riportare il ribelle e solitario giudice di rinvio.
Tuttavia, nel caso in questione, il giudice delle leggi lancia
un’esortazione pure al Parlamento, affinché proceda alla
riformulazione del testo legislativo su cui il rimettente ha avanzato
i suoi dubbi di legittimità costituzionale. Così com’è, infatti, la
disposizione non è molto chiara, tanto che la Corte stessa rileva le
difficoltà che essa presenta ad una lettura costituzionalmente
orientata.
14
Vedi infra, par. 4 del presente Capitolo.
15
Vedi amplius, infra, Capitolo Secondo.
16
Cfr. A. PUGIOTTO, Sindacato di costituzionalità e diritto vivente. Genesi, uso,
implicazioni., Milano, Giuffré, 1994, pag. 562-567.
1.3 La struttura e lo scopo delle sentenze interpretative di
rigetto
Si rende necessario, a questo punto, dare le coordinate generali
che permettono di individuare la tipologia delle pronunce
interpretative di rigetto. In tempi assai recenti esse sono state
definite come quelle <<decisioni in cui la Corte dichiara infondata
la questione di legittimità costituzionale non perché il dubbio di
legittimità sollevato dal giudice non sia giustificato, ma perché esso
si basa su una “cattiva” interpretazione della disposizione
17
>>.
Le interpretative di rigetto sono dunque pronunce di infondatezza,
<<ma solo nella misura in cui il vero significato normativo del testo
o dei testi in questione sia quello (non contrastante con la
Costituzione) che la Corte è giunta a riconoscergli, attraverso la
sua attività interpretativa
18
>>. Per far maggior chiarezza, si deve
precisare che nel dispositivo il giudice delle leggi dichiara che non
esistono vizi di legittimità, ma, come specifica la motivazione (cui il
dispositivo spesso rinvia
19
), la non fondatezza si riferisce alla
17
R. BIN- G. PITRUZZELLA, Diritto costituzionale, Torino, Giappichelli, 2000,
pag. 441. E’ da notare che gli Autori al sostantivo “disposizione” (alla fine della
frase) accostano l’aggettivo “normativa”, ma io ho preferito non riportarlo nel
testo per essere maggiormente coerente ai significati attribuiti ai due vocaboli
supra, nel paragrafo 1. Cfr. anche nota n°4.
18
V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, cit., pag. 397. La definizione, a
mio avviso, prelude già all’opinione di Crisafulli, secondo la quale l’efficacia
vincolante delle interpretative di rigetto nel giudizio a quo è positiva. Cfr. par.
1.5.
19
Spesso ma non sempre. Di recente, in particolare, la Corte “maschera” il
rigetto interpretativo dietro un dispositivo equivalente a quello del rigetto
semplice, ma la motivazione in realtà specifica l’interpretazione consigliata dalla
Corte. La Corte non opera alcun rinvio alla motivazione in special modo nelle
sentenze “correttive. Vedi amplius, infra, Capitolo Quarto. Cfr. E. LAMARQUE,
Gli effetti delle pronunce interpretative di rigetto della Corte costituzionale.
(Un’indagine sul seguito delle pronunce costituzionali), in Giur. Cost., 2000,
Fascicolo n°1, pag. 694-717. Precisa L. PALADIN, Diritto costituzionale, cit., pag.
771 ss., che con l’inciso <<nei sensi di cui in motivazione>> la Corte fa intendere
che la portata delle decisioni di rigetto non può essere compiutamente colta se
non mettendo a raffronto (attraverso la lettura del “considerato in diritto”) il ben
diverso significato attribuito alla norma impugnata dal giudice a quo e dalla
norma che la Corte ha ricavato dal testo legislativo oggetto del
sindacato di costituzionalità
20
.
Dunque la Corte, con questo tipo di pronunce, per via
interpretativa, enuclea dalla disposizione una norma diversa da
quella prospettata da giudice a quo, e, in base all’esegesi che essa
assegna al “dato” testuale, respinge la questione sollevata
21
. Ma
che ne è della scelta ermeneutica del rimettente? Qual è il
“giudizio” che la Corte assegna ad essa?
Al vincolo delle interpretative di rigetto nei confronti del giudice a
quo dedicherò un intero paragrafo
22
.
Qui basti dire che, in sostanza, esse contengono, anche se in
maniera “nascosta”, una <<doppia pronuncia
23
>>. Direttamente,
esse affermano che, data una disposizione suscettibile di più
interpretazioni, la norma “tratta” dalla Corte è conforme a
Costituzione; mentre indirettamente esse lasciano intendere che la
norma ricavata dal giudice di rinvio, e di cui egli stesso dubita la
legittimità
24
, è contraria alla Carta Fondamentale e pertanto è da
respingere.
Corte stessa. Ma in alcune decisioni manca questo inciso, e allora l’effettiva
natura delle decisioni può essere accertata solamente analizzando gli argomenti
volta per volta addotti dal giudice costituzionale.
20
Cfr. G. DE VERGOTTINI, Diritto costituzionale, Padova, Cedam, pag. 643.
21
Infatti, nei primi decenni della sua attività, la Corte costituzionale ritiene di
non avere alcun vincolo né nei confronti del giudice a quo né nei confronti dell’
orientamento giurisprudenziale maggioritario (qualora esso esista). Cfr. A.
VIGNUDELLI, La Corte delle leggi. Osservazioni sulla cosiddetta efficacia
“normativa” delle sentenze della Corte costituzionale, Rimini, 1988, pag. 103.
22
Cfr. Capitolo Primo, par. 5.
23
G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Bologna, Il Mulino, 1988, pag.
292.
24
Se non avesse perlomeno dei dubbi sulla legittimità costituzionale della
norma, non riuscirebbe a dimostrare l’esistenza del requisito della <<non
manifesta infondatezza>> (ai sensi dell’ art. 23 della Legge 11 marzo 1953, n°87).
Riguardo alla definizione del quale si rinvia al par. 3.3. Cfr. G. ZAGREBELSKY,
Processo costituzionale, in Encicl. Dir., 1989, vol. 8°, pag. 591.