6
della tradizione olimpica greca che devono provvedere ad una riforma generale delle
costellazioni celesti. Tale riforma prende, infatti, avvio da un ravvedimento del padre di tutti
gli dei, il quale si rende cosciente del gran discredito in cui essi sono caduti a causa del
rovesciamento di valori che si è verificato nel mondo.
La riforma dello Spaccio si caratterizza come riforma universale del cielo, attraverso cui
quarantotto segni dello zodiaco, divenuti ormai simboli delle più abiette aberrazioni, vengono
scacciati da un Giove pentito delle proprie riprovevoli azioni. Si tratta di bandire dal cielo, ‘da
la gloria e luogo d’esaltazione’, le ‘tante bestie’, cioè i tanti vizi che per opera degli stessi dei
si sono sostituiti alle antiche virtù, destinando a quelli certe regioni della terra e richiamando
queste ad occupare nuovamente le stanze celesti che ad esse spettano, ristabilendo così un
ordine che è andato perduto. I vizi rappresentati dalle immagini celesti hanno ormai corrotto
gli dei dell’Olimpo, i quali hanno perduto il governo del mondo e, dunque, una purificazione
di quelle immagini rappresenta il loro ritorno alla guida della comunità umana. Le
costellazioni celesti, veri e propri punti di riferimento e guide nell’esistenza degli uomini,
sono diventate ricettacolo dei peggiori vizi e delle peggiori scelleratezze, sede di indegni
innalzati al cielo dagli dei senza alcun merito, mentre da quelle sono state bandite le virtù, che
ora vi devono fare ritorno. Comportamenti bestiali e azioni scellerate sono diventati i criteri
per i quali i più indegni vengono innalzati al cielo, a seguito di un ciclo degenerativo che è
giunto ad un punto critico.
Riforma e rinnovamento del mondo, dunque, ma non solo, dal momento che Giove
simboleggia qui il ‘lume interno’, il ‘divino sole intellettuale’ che si trova in tutti gli uomini e
che deve tornare a guidarne l’esistenza, mentre gli altri dei, che cooperano alla rigenerazione
delle costellazioni, rappresentano ‘virtudi e potenze de l’anima’. Il ritorno alle sedie celesti
delle ‘bandite e tanto indegnamente disperse virtudi’ rappresenta anche, se non
principalmente, la loro riaffermazione di guida morale dell’uomo, nell’esistenza del quale le
facoltà più elevate, simboleggiate appunto dagli dei dell’Olimpo, riprendono il loro legittimo
7
posto scacciandone i vizi. La riforma etica dello Spaccio risulta ambivalente, rivolta al mondo
e all’uomo. Essa si configura come ricostituzione di un ordine: dell’ordine del mondo esterno
e del mondo interno dell’uomo; del macrocosmo, la società civile, e del microcosmo,
l’interiorità morale ed intellettuale dell’individuo
3
. Nel primo caso Giove assurge a simbolo
della élite più illuminata della società, quella in grado di farsi promotrice di una riforma
politico-sociale di ampio respiro, cioè di coloro che, dotti e sapienti, devono divenire guida
dei popoli. Nel secondo caso, invece, il padre di tutti gli dei rappresenta le facoltà più elevate
di ciascun individuo, il quale deve essere capace di far predominare comportamenti dettati
dalla ragione e da un fondato principio morale.
L’esortazione di Giove a tutti gli dei è appunto quella di purgare innanzitutto ‘l’interiore
affetto’, la disposizione intima di pensieri e sentimenti, da cui non può non derivare un
cambiamento dei costumi, della condotta esteriore di ogni individuo e della società nel suo
complesso: “Se vogliamo mutar stato, cangiamo costumi. Se vogliamo che quello sia buono e
migliore, questi non sieno simili o peggiori. Purghiamo l’interiore affetto, atteso che da
l’informazione di questo mondo interno non sarà difficile di far progresso alla riformazione di
questo sensibile ed esterno”
4
.
Il motivo del rovesciamento dell’ordine del mondo e del predominio del vizio sulle virtù,
centrale nella riflessione del Bruno, viene ripreso dall’opera di Erasmo, in particolare
dall’Elogio della follia e dall’adagio I sileni di Alcibiade. I sileni erasmiani rappresentano ciò
che all’apparenza si presenta povero e disprezzabile, mentre poi, ad una analisi più
approfondita, si rivela ricco e meraviglioso, quasi divino. “L’espressione potrà essere
applicata – afferma Erasmo – ad una cosa che dall’aspetto e, come si dice, dalla corteccia,
appaia dozzinale e ridicola, mentre risulta ammirabile a osservarla più addentro e dappresso,
3
“Se cossì, o dei, purgaremo la nostra abitazione, se cossì renderemo nuovo il nostro cielo, nove saranno le
costellazioni ed influssi, nove l’impressioni, nove fortune; perché da questo mondo superiore pende il tutto, e
contrarii effetti sono dependenti da cause contrarie. O felici, o veramente fortunati noi, se farremo buona colonia
del nostro animo e pensiero”. G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, a cura di M. Ciliberto, Rizzoli, Milano
1985, pag. 125.
4
Ibidem, pag.125.
8
ovvero a una persona che dalla veste e dalla faccia dia ben poco a vedere della ricchezza che
racchiude nell’animo”
5
. Per questo motivo, è necessario aprire il sileno e penetrare al suo
interno, andando oltre la ‘corteccia’, oltre l’apparenza immediata ed ingannevole delle cose,
per scoprirne, attraverso un processo dinamico di conoscenza, la sostanza e la reale essenza.
La metafora dei sileni riassume anche il tema principale dell’Elogio della follia, il mondo
rovesciato: ciò che appare ridicolo si rivela divino, mentre ciò che si mostra splendente è
vuoto e vano. Ancora una volta l’antitesi è tra carne e spirito, tra esteriorità ed interiorità. Il
discorso della follia, con la sua satira acuta e corrosiva, sembra non lasciar fuori niente e
nessuno, e riguarda una situazione generalizzata in cui
“tutte le cose umane hanno due facce, completamente diverse l’una dall’altra, talché
ciò che a prima vista è morte, a ben riguardare più addentro, si presenta come vita, e
all’opposto la vita si rivela morte, il bello brutto, l’opulenza non è che miseria, la mala
fama diventa gloria, la cultura si scopre ignoranza, la robustezza debolezza, la nobiltà
ignobiltà, la gioia tristezza, le buone condizioni celano la sventura, un rimedio salutare
vi reca danno; in una parola, se apri la scatola vi troverai di colpo tutto l’opposto
dell’esterno”
6
.
Si tratta di un capovolgimento di valori di cui è necessario prendere atto per ripristinare
una situazione in cui all’aspetto esteriore corrisponda la sostanza interna. Ciò che infatti
caratterizza l’universo erasmiano e bruniano è la discrepanza tra essere e apparire, tra
fenomeno ed essenza, tra anima e corpo: niente e nessuno è realmente come appare
7
. Questo è
il punto d’origine e la ragion d’essere della riforma morale dello Spaccio, che assegna a
ciascuno il ruolo che gli è proprio secondo un ordine naturale e razionale che va riconosciuto
e ricostituito.
5
Erasmo da Rotterdam, I Sileni di Alcibiade, in Adagia, sei saggi politici in forma di proverbi, a cura di S. S.
Menchi, Einaudi, Torino 1980, pag. 61.
6
Erasmo da Rotterdam, Elogio della pazzia, trad. it. T. Fiore, Einaudi, Torino 1964, pag. 45.
7
“Cossì dunque lasciaremo la moltitudine ridersi, scherzare, burlare e vagheggiarsi su la superficie de mimici,
comici ed istrionici Sileni, sotto gli quali sta ricoperto, ascoso e sicuro il tesoro della bontade e veritade, come,
per il contrario, si trovano più che molti, che sotto il severo ciglio, volto sommesso, prolissa barba e toga
maestrale e grave, studiosamente a danno universale conchiudeno l’ignoranza non men vile che boriosa, e non
manco perniciosa che celebrata ribalderia”. G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, a cura di M. Ciliberto,
Rizzoli, Milano 1985 , pag. 69.
9
Una riforma che ricorda quella del primo dialogo del Cantus Circaeus, opera pubblicata
a Parigi nel 1582, e che rappresenta una sorta di favola morale che precede la trattazione del
principale tema mnemotecnico, e nella quale viene ripristinato l’ordine naturale delle cose,
assegnando a ciascun soggetto l’aspetto esteriore corrispondente alle proprie qualità interiori
e, conseguentemente, il ruolo che gli compete nella gerarchia della natura. All’inizio
dell’opera Circe rivolge il proprio lamento al Sole, denunciando la situazione di crisi e di
decadenza universale venutasi a creare nel mondo a causa del venir meno di ogni ordine: tutto
è apparenza, inganno, ipocrisia. In particolare, gli uomini hanno perso quei caratteri interiori
che li rendevano tali, hanno assunto inclinazioni bestiali e da queste si fanno, ormai, guidare
nella loro vita. In questa prospettiva il vizio viene configurandosi come rottura dell’ordine e
dell’armonia propria della struttura dell’essere; come una sorta di caduta dell’uomo ad una
condizione animale, come rinuncia alla propria natura specifica e alla dignità conferita da
caratteristiche e capacità, intellettuali e sociali, peculiarmente umane. E poiché la tensione alla
prassi della civile conversazione è caratteristica primaria della natura umana, il vizio ha una
predominante valenza sociale, anziché cristiana o, in senso lato, religiosa.
Echi erasmiani sono evidenti nella rappresentazione degli uomini ormai divenuti dei veri
e propri sileni al rovescio, che celano al di sotto della loro apparenza immediata qualità che li
accomunano ormai al mondo animale
8
. Lo stravolgimento del rapporto tra esteriorità ed
interiorità, tra ‘figure dei corpi’ e ‘lineamenti nascosti’, è talmente radicale da richiedere un
intervento soprannaturale. La stessa natura, definita ‘matrigna’ più che madre, è divenuta
ingannatrice
9
.
8
Cfr. Erasmo: “Ogni ceto abbonda d’individui, che all’aspetto esterno si presenteno come uomini, anzi come
uomini insigni. Se però apri il Sileno, troverai dentro a questo un maiale, dentro a quello un leone, dentro a
quell’altro un orso o, forse, un asino. E’ un effetto tutto diverso da quello che i poemi mitologici attribuiscono
agli incantesimi di Circe: i prigionieri di Circe avevano corpo di bestia e coscienza d’uomo, i nostri
contemporanei invece nascondono sotto l’aspetto umano una bestia”. Erasmo da Rotterdam, I Sileni di Alcibiade,
in Adagia, sei saggi politici in forma di proverbi, a cura di S. S. Menchi, Einaudi, Torino 1980, pag. 79
9
“Non è forse la stessa madre natura che ci inganna? Madre, avrei dovuto definirla, oppure matrigna? […]
Perché allora abbiamo dovuto esperimentare nella natura stessa una simile ipocrisia? Se pochissimi animi di
uomini sono stati plasmati, per quale motivo ti chiedo, tanti corpi sono stati modellati in forma di uomini?”. G.
Bruno, Il canto di Circe, trad. it. di N. Tirinnanzi, Rizzoli, Milano 1997, pagg. 241-242.
10
L’invocazione di Circe è diretta al Sole e ai ‘sette principi del mondo’:
“Ecco che sotto una scorza umana sono celati animi ferini. Conviene forse che
un’anima bestiale abiti un corpo di uomo come se questo fosse una dimora cieca e
ingannevole? Dove sono le leggi che per diritto governano le cose? Dove il lecito, e
dove l’illecito per la natura? […] Ecco che invece siamo caduti in potere di un Chaos
niente affatto occulto. […] Nelle terre stesse e in chi le governa non c’è niente che
mostri chiaro il proprio aspetto”
10
.
Gli uomini sono diventati ingannatori e sovvertitori della legge di natura, pervertitori del
principio divino che regola la vita di tutte le cose
11
.
La magia di Circe è finalizzata, dunque, ad una radicale riforma etica, a restaurare un
principio di ordine e giustizia naturale, in base al quale venga ripristinata negli uomini la
corrispondenza tra anime e corpi e, soprattutto, a far sì che coloro i quali non si dimostrano
essere veri uomini ma bestie siano ridotti anche sotto l’aspetto corporeo alla loro vera indole:
“…strappando da ciascun individuo di specie bestiali le sembianze umane, fate sì che questi
esseri si mostrino nelle loro figure esteriori e veritiere”
12
. L’incantesimo di Circe rende
evidente sul piano fisico la trasformazione e degradazione spirituale operata dal vizio
nell’intimo e nelle attitudini degli individui.
Così, dopo l’incantesimo della maga, una volta ‘rimosso l’aspetto sofistico di uomini’,
‘le figure’ di ciascuno si manifestano apertamente e possono essere ‘contemplate nella luce’:
coloro che facevano mostra di essere sapienti, filosofi, poeti, oratori, legisti, nobili o religiosi
si svelano ora per quello che realmente sono. Tutte le proprietà animalesche che
10
Ibidem, pag. 241.
11
Cfr. Spaccio: “Però, come nell’umana specie veggiamo de molti in viso, volto, voci, gesti, affetti ed
inclinazioni, altri cavallini, altri porcini, asinini, aquilini, buovini; cossì è da credere che in essa sia un principio
vitale, per cui, in potenza di prossima passata o di prossima futura mutazion di corpo, sono stati o sono per esser
porci, cavalli, asini, aquile, o altro che mostrano; se per abito di continenza, de studii, di contemplazione ed altre
virtudi o vizii non si cangiano e non si disponeno altrimente”. G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, a cura di
M. Ciliberto, Rizzoli, Milano 1985, pagg. 78-79.
12
G. Bruno, Il canto di Circe, trad. it. di N. Tirinnanzi, Rizzoli, Milano 1997, pag. 242. Ed ancora a pag. 252:
“Tutti insieme venite ad assistermi, sette principi del mondo, e contraetevi nella vostra Circe, di modo che, una
volta ottenuta la vostra potenza […] mi sia possibile stringere in un vincolo gli spiriti che amministrano e
dispensano le figure dei corpi, perché questi, sia pure contro la loro volontà, facciano emergere nella piena luce e
(via via che si ritrae la mentita sembianza di uomo) da occulti che erano rendano infine visibili i lineamenti
nascosti di un altro genere di esseri viventi”.
11
influenzavano il pensare e l’agire degli uomini sono ora palesate dal loro sembiante fisico.
Senza più inganni mostrano la loro natura di scimmie, cammelli, iene, cervi, orsi e di
numerose altre bestie, mentre il porco sembra riassumere in sé tutti gli istinti ed i
comportamenti che contraddistinguono le aberrazioni umane: avaro, barbaro, debole di senno,
lascivo, ‘ocioso’, pertinace.
All’interno dell’ampia rassegna di vizi umani incarnati da conformazioni ed istinti
animali proposta da Circe e Meri, tre categorie appaiono centrali per la ricorrenza che i temi
ad esse legate assumono in tutto il corso della successiva riflessione bruniana. La prima è
quella dei numerosi generi di cani, che rappresentano la ‘razza di barbari che condanna e
attacca tutto quanto non intende’, vale a dire tutti coloro i quali sono tenacemente attaccati ad
una riconosciuta tradizione di sapere, oppure a consolidati modi di pensare e che rifiutano
tutto ciò che costituisce novità e differenza, per quanto benefica essa possa essere
13
. Bruno
assegna questa particolare conformazione fisica a tutti coloro che considera ‘pedanti’:
aristotelici e scolastici delle istituzioni universitarie, petrarchisti e grammatici, nonché tutti
coloro che si fanno difensori di idee e moduli espressivi codificati, chiusi nella ostile
negazione di ciò che non comprendono.
La seconda categoria, figurata dai ‘camaleopardali’, cioè dalle giraffe, costituisce quella
nella quale si rivelano coloro che “quando avevano aspetto umano solevano essere cultori
degli dei secondo i riti, spregiatori della carne a parole, immondi per un genere diverso di vizi
nel modo di vivere e bifolchi nel modo di scrivere”
14
. Il riferimento non è espressamente
rivolto ai riformati, per un critica esplicita dei quali è necessario attendere lo Spaccio e la
cruciale esperienza inglese, quanto piuttosto ad un tipo di religiosità tutta esteriore, quella dei
‘cocchiaroni’, dei frati conventuali e degli uomini di chiesa in genere, una religiosità intrisa di
fanatismo e superstizione, in cui si mescolano una rigida osservanza delle norme e dei canoni
13
“…così adesso questi cani, vili e smascherati per tali dal loro stesso aspetto, latrano contro tutti gli sconosciuti,
anche se vengono con intenti benefici, mentre si fanno più miti con quelli che conoscono, per quanto siano
malvagi e scellerati”. Ibidem, pag. 258.
14
Ibidem, pag. 263.
12
ecclesiastici ed un più o meno scoperto abbandono ai vizi e alle degenerazioni degli istinti
umani
15
.
La terza categoria è quella dei galli, attraverso la quale Bruno esemplifica la situazione di
decadenza etico-politica del suo tempo con particolare riferimento alle sanguinose guerre
civili francesi tra ugonotti e cattolici, dietro le quali si muovono forti interessi di potere. Circe
osserva che il gallo, non a caso simbolo della monarchia di Francia, “si celava sotto le spoglie
di quanti furono soliti logorarsi in reciproci dissidi e che ridicolmente si vantavano di fronte
agli altri dei misfatti commessi contro i loro simili”
16
. Il Cantus Circaeus rappresenta la prima
teorizzazione da parte di Bruno della crisi universale della società europea sullo scorcio del
‘500, crisi di cui comincia ad intravedere cause e soggetti attraverso una interpretazione delle
componenti politiche, religiose e sociali che si verrà via via precisando nelle opere successive.
Il tema della crisi e del rovesciamento, del disordine del mondo è ricorrente in tutta la
produzione bruniana ed è affrontato sin dalle prime opere, sebbene, rispetto alle successive,
con vistose variazioni di accento, variazioni caratteristiche del resto di tutti i motivi centrali
della ‘nolana filosofia’. Fondamentale a questo riguardo risulta il Candelaio, la commedia in
volgare pubblicata anch’essa nel 1582 a Parigi, che ritrae con vivo realismo l’ambiente
popolare napoletano. In essa predomina la dimensione del travestimento, dell’inganno e della
beffa ordita da individui scaltri, disincantati e concreti ai danni dell’alchimista, del vecchio
innamorato e del pedante, personaggi stolti e goffi nella loro rovinosa follia; e predomina,
altresì, il gusto compiaciuto dello smascheramento e della dissacrazione di tutti i valori umani
e religiosi della società del tempo.
Il disordine del mondo, scaturito ancora una volta dall’asimmetria tra apparenza e realtà,
è nel Candelaio la condizione ‘normale’ della vita degli uomini, condizione che non presenta
possibilità alcuna di riforma e che deve essere lasciata al proprio corso. Mentre nel Cantus,
15
In questo giudizio pesa, senz’altro, la personale esperienza di Bruno nel convento di S. Domenico Maggiore a
Napoli.
16
G. Bruno, Il canto di Circe, trad. it. di N. Tirinnanzi, Rizzoli, Milano 1997, pag. 276.
13
sarà possibile a Circe porre rimedio alla discrepanza tra essere e apparire e ripristinare ordine
e giustizia riducendo l’uomo ad una dimensione schiettamente ferina, il mondo della
commedia appare irredimibile, un mondo in cui la giustizia non può più tornare a ristabilire
una primitiva condizione di equità, un mondo in cui lo sconvolgimento, il ‘Chaos’ già
deprecato dalla maga, sembra essersi stabilizzato in determinate forme particolari di
comportamento ed equilibrio sociale. Al posto della giustizia domina incontrastata la ‘fortuna
traditora’, che prescinde da qualsiasi virtù e valore, e la ricerca affannosa del denaro, unico
vero motore dell’agire umano, elevato a supremo valore dell’esistenza
17
.
Non c’è nessun rapporto tra virtù e denaro, tra avere e meritare, tra azione e giudizio
18
.
Né c’è rapporto alcuno tra realtà ed apparenza, in un mondo in cui soltanto quest’ultima
conta, se è vero quel che dice Gioan Bernardo: “… non è quel che noi siamo e quel che noi
facciamo, che ne rende onorati o disonorati, ma sì ben quel che altri stimano, e pensano di
noi”
19
. L’unico criterio valido per giudicare le azioni umane sembra essere soltanto la
conformità che esse presentano rispetto agli scopi che si prefiggono coloro che le generano,
indipendentemente da qualsiasi intelligenza e moralità: “Allora dunque si fa conto del
giudizio ed è lodato, quando la sorte ed il successo è buono”
20
.
E, in effetti, la cieca fortuna trova il proprio rovescio finale nell’esaltazione dell’aspetto
attivistico e volontaristico della sollecitudine umana, attraverso cui ha modo di dispiegarsi il
valore dell’individuo cui è dato di riequilibrare e correggere in qualche maniera una
condizione iniziale di completa casualità e indifferenza. E’ questo il caso di Gioan Bernardo,
17
“…a chi manca il danaro, non solo manca pietre, erbe e parole, ma l’aria, la terra, l’acqua, il fuoco e la vita
istessa”. G. Bruno, Candelaio, a cura di I. Guerrini Angrisani, Rizzoli, Milano 1976, pag. 203.
18
“Questa [la fortuna] fa onorato chi non merita, dà buon campo a chi nol semina, buon orto a chi nol pianta,
molti scudi a chi non le sa spendere, molti figli a chi non può allevarli, buon appetito a chi non ha che mangiare,
biscotti a chi non ha denti”. Ibidem, pag. 307.
19
Ibidem, pag. 281.
20
Ibidem, pag. 237. Ed inoltre a pag. 236: “Ve dirrò, m[esser] Bartolomeo, alle buone riuscite ogn’un sa trovar
quella raggione che giamai vi fu: ancor ch’io maneggi miei affari con furia di porco salvatico, e mi succedon
bene, ogn’un dirà: - Costui ha bel discorso, ha saputo prendere il capo del negozio cossì e cossì, ed ha ben fatto.
– Per il contrario, dopo’ch’io arrò compassato i miei negocii con quante filosofie giamai abbiano avuto que’
barbiferi mascalzon di Grecia e de l’Egitto, si, per disgrazia, la cosa non accade a proposito, ogn’un mi chiamerà
balordo”.
14
eroe positivo della commedia, il quale può alla fine affermare: “Quantun[ue] questo bene,
ch’ho posseduto questa sera, non mi sii stato concesso da’Dei e la natura; benché mi sii stato
negato dalla fortuna, il giudizio mi ha mostrato l’occasione, la diligenza me l’ha fatta
apprendere pe’ capelli e la perseveranza ritenirla”
21
.
La realtà è, in ogni caso, piegata al dominio degli istinti disordinati e degli appetiti
individuali, priva di legge, di ordine e di Dio. I personaggi del Candelaio, mossi dalle loro
passioni cieche e dalla brama di ricchezza e di piacere, danno vita ad una realtà drammatica,
priva di qualunque legge e valore morale, priva di scopo e di tensione verso un oltre storico e
metafisico capace di dare un senso all’esistenza. La dimensione religiosa, ridotta a sciocca e
grossolana superstizione, a recitazione di vuote formule e litanie prive di senso, si annulla, di
fatto, in un evidente ateismo e agnosticismo di fondo. La corruzione dell’umanità che Bruno
ritrae appare, così, irredimibile e assoluta: “Eccovi avanti gli occhi ociosii principii, debili
orditure, vani pensieri, frivole speranze, scoppiamenti di petto, scoperture di corde, falsi
presuppositi, alienazion di mente, poetici furori, offuscamento di sensi, turbazion di fantasia,
smarrito peregrinaggio d’intelletto, fede sfrenate, cure insensate, studi incerti, somenze
intempestive e gloriosi frutti di pazzia”
22
.
Un mondo dominato dalla follia erasmiana e dall’assenza di saldi punti di riferimento,
che appare non poter essere altrimenti che com’è nel suo intrinseco, benché labile, equilibrio:
“I savi – dice Vittoria – vivono per i pazzi, ed i pazzi per i savii. Si tutti fussero signori, non
sarebbono signori: cossì, se tutti i saggi, non sarebbono saggi, e se tutti pazzi non sarebbono
pazzi. Il mondo sta bene come sta”
23
. «In tristitia hilaris, in hilaritate tristis», questa la cifra
della tragicommedia che diviene rappresentazione della vicenda esistenziale umana in quanto
vitalità e vanità, tensione finalistica e assenza di senso. Assenza di senso che appare evidente
laddove le vicende dei personaggi divengono prive di un sicuro significato, per cui il loro
21
Ibidem, pag. 308.
22
Ibidem, pag. 140.
23
Ibidem, pag. 190.
15
valore dipende in modo esclusivo dalla prospettiva particolare di ciascuno
24
. Una vicenda che
può essere rappresentata solo attraverso l’utilizzo di molteplici e differenti registri linguistici,
attraverso la fusione e la giustapposizione di latino e volgare, stile aulico e stile farsesco,
sacro e profano, “meschiando propositi gravi e seriosi, morali e naturali, ignobili e nobili,
filosofici e comici”
25
, il tutto con evidente effetto grottesco e all’insegna dello scardinamento
di idee e valori precostituiti
26
.
La presa di coscienza della crisi e del rovesciamento che affiora prepotentemente per la
prima volta nelle opere parigine, porterà Bruno a individuarne le cause ed i fattori storici, e,
nel Cantus, benché soprattutto nello Spaccio, a prospettare le modalità di una riforma
radicale, che ponga rimedio al caos dell’esistenza rappresentato nella commedia, lo stesso
caos prodottosi nell’ordine naturale delle cose e nelle costellazioni celesti, il cui riordino è
l’obiettivo primario del dialogo morale inglese.
E’ importante ricordare che il proponimento di Giove prende le mosse dalla coscienza
della metempsicosi, destino cui sono sottoposti tutti gli esseri viventi: la trasmigrazione
dell’anima dopo la morte, intesa come dissoluzione del composto corporeo, in altri corpi
animali a seconda dell’indole predominante e dei comportamenti tenuti nella precedente
esistenza.
“Per aver, dunque, ivi menata vita, per essempio, cavallina o porcina, verrà […]
disposto dalla fatal giustizia, che gli sia intessuto in circa un carcere conveniente a tal
delitto o crime, organi ed instrumenti convenevoli a tal operario o artefice. E cossì,
oltre ed oltre sempre discorrendo per il fato della mutazione, eterno verrà incorrendo
altre ed altre peggiori e megliori specie di vita e di fortuna, secondo che s’è maneggiato
megliore o peggiormente nella prossima precedente condizione e sorte”
27
.
24
“La vostra commedia è bella – afferma Scaramurè – ma, in fatti di costoro, è una troppo fastidiosa tragedia”.
Ibidem, pag. 287.
25
G. Bruno, De la causa, principio et uno, in Dialoghi filosofici italiani, a cura di M. Ciliberto, Mondadori,
Milano 2000, pag. 185.
26
“Concorsero molti, de quali altri pigliandosi spasso altri attristandosi, altri piangendo altri ridendo, questi
consigliando quelli sperando, altri facendo un viso altri un altro, altri questo linguaggio ed altri quello: era veder
insieme comedia e tragedia, e chi sonava a gloria e chi a mortoro”. G. Bruno, Candelaio, a cura di I. Guerrini
Angrisani, Rizzoli, Milano 1976, pag. 217.
27
G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, a cura di M. Ciliberto, Rizzoli, Milano 1985, pag. 78.