V
non sia soltanto un’astrazione, bensì un elemento concreto dell’esistente, esperito comunemente, ed
in misura sempre maggiore, da moltissime persone nell’ambito della loro attività lavorativa. In
secondo luogo, tale operazione porrà le prime basi per la discussione dell’argomento centrale del
presente lavoro – il Knowledge Management, appunto, mettendo in campo alcuni concetti e
riferimenti che saranno di grande importanza nel prosieguo della riflessione.
La seconda parte del lavoro sarà invece completamente dedicata all’analisi delle dinamiche della
conoscenza all’interno delle organizzazioni, e verterà dunque sull’identificazione degli attori sociali
detentori del sapere, sulle caratteristiche della conoscenza stessa, sulla posizione che le imprese
possono assumere nei confronti di tale risorsa, sulle modalità con cui il sapere si muove all’interno
delle organizzazioni, sulle relazioni tra cultura, struttura e conoscenza. La configurazione di tale
parte è piuttosto complessa, e le tematiche lì affrontate numerose e varie. In prima istanza, quindi,
sarà delineata la prospettiva d’analisi dalla quale si analizzeranno le questioni successivamente
discusse: tale prospettiva è riferibile per più d’un aspetto alla teoria della costruzione sociale della
realtà, processo fondamentale di strutturazione dell’esistente, svolto alla luce della dimensione del
senso attribuito dall’attore al proprio agire ed alla realtà circostante. Concetti quali definizione della
situazione, attribuzione di senso, cultura, pratica, relazione di potere, istituzione, legittimazione,
gioco linguistico, cerchio sociale, ruolo, interazione sociale, regola, sono chiamati in causa da un
approccio che, essenzialmente, concepisce la realtà come un prodotto dell’agire e dell’interagire
umano all’interno di sistemi culturali e normativi internamente regolati, sotto la mediazione del
senso conferito dall’attore alle proprie azioni (pratiche e comunicative) ed al contesto stesso.
Questa operazione di descrizione dell’approccio adottato consentirà quindi di esplicitare le
premesse concettuali da cui muove la discussione degli argomenti affrontati, ponendo in essere sin
dal primo momento alcuni costrutti di riferimento per l’intera analisi seguente. Di fatto, l’obiettivo
principale di tale lavoro consiste appunto nel mettere in campo strumenti e categorie concettuali per
lo studio della gestione della conoscenza nelle organizzazioni. Ciò ha importanti conseguenze:
innanzitutto, permette di evidenziare l’esistenza di sistemi spontanei di gestione del sapere, difatti,
in ogni realtà organizzata vigono alcune regole (tacitamente rispettate o esplicitamente promosse)
circa le modalità di amministrazione della risorsa conoscenza; in seconda istanza, tale approccio
consente di prendere in esame ogni singolo argomento inserendolo ed immaginandolo nell’intrico
delle relazioni ed interazioni sociali che danno struttura e vita ad un qualsiasi contesto
organizzativo. In questo modo, diventerà possibile mettere immediatamente all’opera quelle stesse
categorie concettuali per poter così evidenziare i punti di forza ed i punti di debolezza di un sistema
(spontaneo od intenzionale) di gestione del sapere organizzativo. Tra i principali costrutti che
s’indagheranno vi saranno quelli di conoscenza tacita, conoscenza esplicita, conoscenza
individuale, gruppale ed organizzativa, mercato della conoscenza, comunità di sapere, comunità e
network di pratica, gruppo multidisciplinare, doppia trasversalità di appartenenza a cerchi sociali
intraorganizzativi, flusso di conoscenza intraorganizzativo, integrazione e coordinamento,
condivisione di sapere, nonché mappatura, codificazione, immagazzinamento, distribuzione e
VI
generazione di conoscenza, cultura organizzativa (e sottoculture), struttura organizzativa, ruolo
professionale e persona sociale, viscosità del sapere, memoria organizzativa, relazione di potere,
creatività.
Al termine della disamina delle questioni inerenti al trattamento della conoscenza, dunque, si sarà
in grado di procedere a due operazioni: innanzitutto, sarà possibile evidenziare e delineare i tratti
strutturali fondamentali di una nuova immagine organizzativa – l’organizzazione indeterminata,
ossia una proiezione sul futuro delle dinamiche e delle tendenze del presente, emergenti
dall’incrocio tra fattori esterni (trend socio-economici e socio-culturali) e fattori interni (trend di
evoluzione delle strutture e delle culture organizzative e dimensioni identificate come cruciali per la
gestione della conoscenza) alle imprese stesse. Sull’altro fronte, invece, sarà possibile descrivere le
criticità cui va incontro ogni sistema per la gestione della conoscenza; in particolare, tali criticità
saranno individuabili proprio per mezzo della prospettiva visuale adottata la quale, situando le
problematiche organizzative a livello delle persone che per prime le esperiscono (i lavoratori
comuni, principalmente), consente di cogliere gli aspetti che ostacolano la gestione del sapere, o che
ne relativizzano le possibilità, riferendoli alle condizioni contestuali e contingenti in cui il sistema
gestionale è applicato.
Al primo obiettivo, e dunque alla rappresentazione dell’organizzazione indeterminata si giungerà in
chiusura della seconda parte, tirando le fila e raccogliendo numerosi spunti della riflessione esposta
precedentemente. Per meglio chiarire questo punto, l’idea che sottende a tale operazione è proprio
quella espressa dalle parole “tirando le fila”: l’immagine dell’organizzazione indeterminata vuole
essere una raffigurazione, un’illustrazione di una realtà potenzialmente in divenire nel futuro,
individuata sulla base di alcune tra le più importanti tendenze attualmente in atto nel mondo delle
organizzazioni; ciò che si farà, dunque, sarà “pinzare” tali dinamiche e tenderle in avanti, per
prospettare una configurazione organizzativa ideal-tipica che potrebbe conseguire alla
focalizzazione sulla conoscenza e sulla gestione di tale risorsa.
Al secondo obiettivo si giungerà invece nella terza ed ultima parte del presente lavoro, in quella
sede saranno illustrate alcune questioni critiche dei processi gestionali del sapere con riferimento,
però, non a possibili situazioni future, bensì a dinamiche del presente. Nello specifico, in quella
sezione s’identificheranno i fattori che contribuiscono alla viscosità della conoscenza, ritrovandoli
principalmente in tre dimensioni: una pratica (legame tra conoscenza e proprio contesto originario
di sviluppo e riferimento), l’altra culturale (memoria organizzativa/identità sociale/inerzia
cognitiva), l’ultima trasversale a tali ambiti, ed inerente principalmente alle relazioni di potere e di
fiducia intraorganizzative. Inoltre, si porrà l’accento su una questione pedagogica, ossia su come
l’impresa orientata al sapere possa effettivamente fare in modo che questo divenga un patrimonio
pubblico per i propri dipendenti, venendo acquisito ed interiorizzato da ognuno di questi (ciò mette
in campo, infatti, alcune questioni di rilievo inerenti la capacità di disapprendimento dei soggetti, la
loro disponibilità all’apprendimento, nonché le fattive modalità d’incameramento del sapere);
connessa a tale tematica, inoltre, è quella dell’utilizzo della conoscenza appresa (difatti, si metterà
VII
in questione il circuito apprendimento-applicazione di conoscenza, problematizzando l’automaticità
conclamata di tale connessione).
In seguito, ci si concentrerà brevemente su una dimensione spesso trascurata e sottoconsiderata
della gestione della conoscenza: il linguaggio, ossia il veicolo fondamentale tramite cui passa, o per
cui si vorrebbe far passare gran parte della conoscenza presente nelle organizzazioni. Da ultimo,
l’attenzione tornerà a volgersi alle relazioni fra realtà interna delle imprese e dinamiche del mercato
in senso lato, inteso come mondo economico, culturale e politico; più precisamente, si discuterà del
controverso rapporto fra istanze di mobilità del lavoratore e concrete possibilità di fidelizzazione
dello stesso all’organizzazione di appartenenza, condizione quest’ultima che è da più parti indicata
come fattore cruciale per la condivisione del sapere all’interno delle imprese.
Il tema della gestione della conoscenza organizzativa, pertanto, sarà affrontato con l’obiettivo di
predisporre ed identificare una serie di concetti e costrutti che consentano, in primo luogo, di
studiare tale argomento stesso. Nel contempo, tali categorie concettuali saranno messe all’opera
nell’analisi delle dinamiche della conoscenza nelle organizzazioni, operazione che condurrà alfine
all’individuazione delle aree critiche per un’impresa interessata all’amministrazione del proprio
sapere e che consentirà pure di fornire una raffigurazione di una nuova immagine
dell’organizzazione – l’organizzazione indeterminata.
1
PARTE PRIMA
Contestualizzazione sociale del Knowledge management
2
Capitolo 1. Tendenze socio-economiche
L’oggetto d’analisi del presente lavoro è una pratica manageriale che rivolge la propria attenzione
verso la conoscenza dell’organizzazione mirando allo sfruttamento di tale risorsa, ritenuta cruciale
per l’impresa, al fine di ottenere un vantaggio competitivo spendibile sul mercato per sopravanzare i
concorrenti.
Così descritto, il Knowledge Management (in breve, KM) parrebbe essere un modello di gestione
tra i tanti, emersi negli ultimi quindici anni circa, basati fondamentalmente sulla organizzazione e
gestione delle risorse intangibili detenute dall’impresa, le quali emergono e sono osservabili sotto
forma di competenze professionali e pratiche ottimali espletate dal personale aziendale. Questa
specificazione è utile in quanto consente di evidenziare due aspetti cruciali della questione, i quali
permettono di distanziare il KM da altre modalità organizzative.
In primo luogo, la gestione della conoscenza si confronta esplicitamente con una materia, la
conoscenza stessa, di difficile definizione. Non è questa la sede in cui sarà affrontata tale
problematica, in realtà propria della riflessione filosofica, né tantomeno s’intendono ricostruire i
termini di un dibattito di vastissime proporzioni e di elevata complessità concettuale. Più
precisamente e modestamente, è ora importante evidenziare una sorta di paradosso: quello per cui
s’è giunti a ritenere opportuno, conveniente e vantaggioso che le organizzazioni gestissero
appropriatamente la più controversa ed impalpabile delle risorse intangibili.
Come sarà illustrato nel capitolo successivo, l’attuale valorizzazione della conoscenza
organizzativa deriva da alcuni e ben precisi approcci alle problematiche dell’impresa, anch’essi
fondati sugli asset immateriali, ma ciò che emerge di nuovo ora è che non si ritengono più
sufficienti “semplici” informazioni e competenze per fornire vantaggi alle organizzazioni, si rende
necessario invece un passo in più o, pessimisticamente, un salto nel buio: arrivare a gestire la
conoscenza. Siamo dunque in un dominio ambiguo che, sinceramente, pare lontano dalla parola
gestione con la quale è tuttavia accoppiato. Pare esservi anzi una notevole distanza tra ciò che noi
stessi, in parte, non sappiamo di sapere (conoscenza), e l’idea di poter dirigere e trattare ciò che,
appunto, non siamo neppure in grado di identificare con certezza. In questo sta il paradosso,
metaforicamente esprimibile come l’opera di un pastaio che impasti soltanto farina, sollevando una
nube di polvere fine, leggera, sfuggente, inafferrabile nella sua interezza.
Veniamo dunque alla seconda osservazione che scaturisce immediatamente dall’espressione
“Knowledge Management”. Questo secondo punto è descrivibile, sinteticamente, con una domanda,
spesso una delle più insidiose che possano mai essere fatte: perché il Knowledge management?
Tradotto in termini più vicini ad un’analisi sociologica, tale banale quesito potrebbe risultare come:
perché in questo momento storico-sociale le organizzazioni si volgono a gestire la conoscenza che
detengono? Ed ancora: vi è qualcosa, nell’ampio spettro dei fenomeni che, unitariamente presi,
3
chiamiamo società, che fa sì che l’attenzione delle imprese volga verso la conoscenza, piuttosto che
prendere altre direzioni?
Realisticamente bisogna supporre che sì, qualcosa vi sia, poiché tale valorizzazione pare prendere
piede e diffondersi tra gli operatori del settore con rapidità ma anche con discontinuità ed
incongruenze, con fraintendimenti ed ambivalenze. È l’elevata diffusione e la consistenza d’un
qualsivoglia fenomeno sociale che, pare, possano essere fatte valere, oltre all’interesse personale o
alla commissione da parte di terzi, come giustificazione sincera per lo studio di quell’aspetto della
realtà.
A questo punto, allora, occorre domandarsi quali siano i fattori economici, culturali, sociali e
politici che consentano di comprendere il fenomeno della valorizzazione della conoscenza
nell’ambito degli studi e delle pratiche organizzative. Tale genere d’indagine risulta essere
necessaria al fine di avere una chiara visione non soltanto dell’oggetto d’analisi, ma anche del
contesto in cui questo s’inserisce, ritenendolo dunque un elemento esplicativo fondamentale ed
immancabile in una qualsiasi analisi che abbia anche solo delle velleità sociologiche. In tale sezione
del presente lavoro, pertanto, ci si propone di individuare i fattori che spieghino e giustifichino
l’attuale focus sulla conoscenza organizzativa.
Alla radice di tale indagine sta un’idea basilare ed implicita negli studi di sociologia della
conoscenza e di sociologia della scienza: nessuna teoria è auto-evidente, ossia in grado di
giustificarsi da sé. Qualsiasi prodotto della riflessione umana poggia inevitabilmente su di un
contesto storico-sociale favorevole. Tale favorevolezza, d’altra parte, non implica una ricaduta
deterministica che riconosca alla realtà sociale il potere di occasionare un dato ed unico risultato,
diretto discendente delle condizioni ambientali; piuttosto, descrive una situazione che offre una
pluralità di possibilità pertinenti ed adeguate e nient’affatto stringenti. Una qualche combinazione di
fenomeni economici, culturali, politici e sociali aprirà un certo spazio alla riflessione teoretica,
mettendo in campo dati oggetti in modo non casuale ed ancora aperto al ragionamento, offrendo
così non una sola via all’interpretazione dei fenomeni stessi, bensì lasciando agio a più possibilità
d’incastro degli elementi disponibili, secondo modalità differenti per grado di legittimità e
congruità. Tutto ciò non impedisce però che qualche attore sociale mescoli tali elementi in maniera
non ortodossa o non convenzionale
1
.
Data una particolare situazione storico-sociale, contraddistinta dalla compresenza d’una pluralità di
tendenze identificabili con un sufficiente grado di certezza, si può pensare allora che per spiegare,
1
Così si potrà dire di trovarsi di fronte a diversi ruoli sociali degli uomini di conoscenza, richiamando e parafrasando
Znaniecki, e potrà parlarsi in merito di teorici critici, di innovatori, di trasgressori e visionari ecc. Ciò che unisce tali
pensatori è difatti un minore livello di congruità e di accettazione sociale delle loro produzioni, questo per via della
“blasfemia” o della irrealtà delle teorie stesse, oppure a causa del loro carattere anticipatorio (la sindrome del “troppo
avanti per essere compreso”).
4
comprendere ed intervenire su tale situazione vengano avanzate alcune teorie e rimedi reggendosi,
questi pensieri e soluzioni, su elementi del contesto culturale accettati ed accettabili da parte del
pubblico di esperti e profani. Tale è appunto la teoria che riconosce nelle risorse intangibili
(competenze e conoscenze dell’organizzazione), il tesoro delle imprese. Questo risultato sarà
pertanto l’esito d’una serie di eventi antecedenti che legittimano una strategia all’insegna
dell’intangibilità come strumento per il successo.
D’altra parte, però, si potranno anche generare, in questo stesso contesto ambientale, delle
teorizzazioni che individuano in altri fattori le risorse necessarie alla sopravvivenza e prosperità
dell’impresa. A titolo di esempio, si potrà ritenere di dover affrontare una realtà economica
ipercompetitiva per mezzo del ritorno alla schiavitù, piuttosto che sfruttando la conoscenza
organizzativa; ecco allora che siamo di fronte ad una ricombinazione degli elementi culturali in
gioco non pertinente rispetto al contesto (essendo alcuni di tali elementi stessi tratti anche dal di
fuori della situazione presente), e dunque attualmente illegittima ed inaccettabile.
La prospettiva che riconosce alla conoscenza un ruolo cruciale nell’impresa contemporanea deriva
quindi dall’interazione tra fattori di natura economica, culturale, sociale e politica, tra loro mescolati
e legati da studiosi ed esperti in un modo che risulta essere innanzitutto socialmente e culturalmente
ammissibile e tollerabile, in secondo luogo ed eventualmente, operativamente efficace.
L’individuazione dei fattori chiave rispetto alla valorizzazione della conoscenza si volge pertanto
all’analisi di un ampio spettro di campi sociali, qui ordinati in due categorie di fenomeni: economici
e culturali. E’ qui necessaria un’ulteriore specificazione. Anzitutto, economia e cultura definiscono
aree estremamente ampie e generiche, nonché interrelate. Nella realtà vi sono strette connessioni e
reciproche influenze tra queste due sfere, le relazioni tra le quali sono attraversate trasversalmente
dall’attività politica di Stati ed enti sovranazionali, attori dotati d’un forte impatto sulle suddette
aree, ed in specie in quella economica. Come si specificherà oltre, al di sotto di tendenze
economiche e culturali emergenti, stanno dunque anche decisioni politiche rilevanti, operazioni di
attori istituzionali importanti, azioni di mobilitazione da parte di organi nazionali ed organismi
trascendenti i confini degli Stati.
Saranno dunque di seguito analizzate dapprima le tendenze socio-economiche principali della
modernità avanzata, successivamente le tendenze più propriamente socio-culturali, limitatamente ai
fenomeni effettivamente incidenti sulla attuale valorizzazione della conoscenza, intesa questa come
risorsa cruciale delle organizzazioni.
La categoria dei fattori socio-economici riconosciuti come fonti da cui è derivata l’attenzione
rivolta alla conoscenza ricomprende una classe variegata di fenomeni, si discuterà pertanto in questa
sede di una pluralità composita di eventi e processi. Nello specifico, questi sono: la globalizzazione
e la multinazionalizzazione; l’alto ritmo del cambiamento della società contemporanea che produce
un’elevata turbolenza ambientale; l’innovazione tecnologica, specialmente nei settori
dell’informatica e delle telecomunicazioni; i prodotti knowledge-intensive; il cambiamento della
5
struttura organizzativa, precisamente nei termini dell’outsourcing e del down-sizing, oltre che
dell’emergere delle cosiddette organizzazioni virtuali.
1.1 - Globalizzazione e multinazionalizzazione
Vi sono stati, nella storia umana, dei momenti segnati da fenomeni chiave che hanno assunto nel
tempo, il ruolo di simboli, quasi di effigi di un’epoca intera, di una particolare realtà storico-sociale
in cui tali fenomeni o movimenti, di qualunque natura essi fossero, apparivano essere pervasivi e
condizionanti l’intero svolgersi delle dinamiche sociali.
Così è stato con la lotta fine settecentesca tra ragione e superstizione, raziocinio e fede, condotta
dall’Illuminismo il quale, seppure in forme diverse e con differente forza nelle distinte realtà
nazionali europee, pareva rischiarare sempre più ampie aree dell’occidente del Vecchio Continente.
Così è accaduto, in modo forse più dirompente e diffuso, per la rivoluzione industriale, per il
drammatico trentennio tra le due guerre mondiali, e successivamente per la guerra fredda, la quale
ha segnato e condizionato decenni di analisi politiche e di riflessioni di intellettuali e gente comune.
Senza con ciò negare la coesistenza di più definizioni culturali simboliche di un’era, ugualmente
possibili e legittime ebbene, pare si possa comunque avanzare l’idea che vi siano alcuni eventi che,
per via delle circostanze storiche e sociali in cui si producono, sono in grado di assurgere, agli occhi
dell’opinione pubblica e dei posteri, come rappresentativi d’una intera epoca in modo più forte di
quanto non siano in grado di fare altri fenomeni coevi, non altrettanto frappants (il termine francese
è, specialmente a livello fonetico, preferibile al “forte” italiano, meno in grado invece di rendere
l’idea di qualcosa di sferzante, di dirompente agli occhi dei contemporanei).
Attualmente, sembra plausibile sostenere che la realtà in cui viviamo sia irrimediabilmente segnata,
anche e soprattutto, dalla globalizzazione.
Indipendentemente dalla effettiva o meno novità di tale fenomeno (Martelli pone la questione
relativamente alla datazione di tale evento, domandandosi se la globalizzazione abbia avuto inizio
cinquanta, cinquecento o cinquemila anni fa
2
), è innegabile che la mondializzazione sia messa al
centro di numerose riflessioni, notizie, editoriali giornalistici ed analisi scientifiche correnti. Molto
di ciò con cui ci confrontiamo quotidianamente è collegabile, a sentire i formatori d’opinione, alla
globalizzazione.
Non s’intende qui indagare sulla verità e profondità di tali affermazioni, sulla correttezza di queste
analisi piuttosto che sugli artifici retorici impiegati al fine di banalizzare e semplificare la
complessità della realtà contemporanea o, più maliziosamente, per attirare il lettore o l’ascoltatore.
L’intento che ci si propone è anzi di portare l’attenzione su un fenomeno concreto, pervasivo ed
importante della modernità avanzata, passibile di esercitare un’influenza sul focus sulla conoscenza
le cui origini sono qui poste in questione.
2
Cfr. su questo punto Martelli, 2000
6
Si rende necessaria, a questo punto, un’operazione di definizione dell’oggetto d’analisi; così, sarà
possibile pervenire ad una valutazione delle conseguenze di tale fenomeno ad un livello generale
dapprima, al livello tematizzato nel presente capitolo poi.
Una definizione accurata di mondializzazione non è affatto semplice da individuare, ma si può
immediatamente evidenziare un importante fatto, sovente non evidenziato dai mass media (ossia da
quegli attori sociali che più d’ogni altro abusano di questo termine, contribuendo peraltro, così
facendo, alla sua diffusione all’interno dell’opinione pubblica). La questione deve essere difatti
portata sull’esistenza di più d’un processo di globalizzazione, rilevando piuttosto la presenza di
diversi fenomeni analoghi nello svolgimento e nella strutturazione, ma differenziati in merito ad
alcuni aspetti cruciali. Si pensi, a titolo d’esempio, agli attori coinvolti dai processi di
globalizzazione economica ed a quelli investiti, o meglio partecipanti, alla mondializzazione
politica (la quale non è nemmeno così globale come viene da alcuni definita); od ancora si rifletta
sulle società e sui settori delle stesse contribuenti alla creazione di quella che è appellabile come la
società civile mondiale o, più pertinentemente, la nuova sfera pubblica (non più soltanto borghese,
però). Abbiamo qui alcuni casi i quali, seppur appena accennati, già illustrano la varietà dei processi
di mondializzazione esistenti e degli attori in questi stessi coinvolti, sollevando istantaneamente la
problematicità d’una definizione unica e comprensiva.
Indubbiamente, a livello di analisi generale, è possibile e conveniente unificare tale insieme di
processi di globalizzazione sotto una sola etichetta valente come riferimento di massima salvo
specificare, caso per caso, i tratti peculiari e distintivi d’ogni singolo fenomeno. Si può pertanto
trattare di globalizzazione intendendo questa come la pluralità di legami intercorrenti tra Stati,
società e settori di queste stesse.
Secondo McGrew ed i suoi colleghi la presenza delle suddette relazioni comporta che <<eventi,
decisioni e attività in una parte del mondo abbiano conseguenze significative per gli individui e le
comunità in parti del globo anche molto distanti>> (McGrew, Lewis e altri, citati in Lisbona,
1995). Così intesa, la globalizzazione si presenterebbe come un fenomeno largamente esteso e per
così dire colloso, in quanto in grado d’unire e ricomporre aree e Paesi geograficamente lontani,
realizzando una unità laddove prima esistevano delle entità separate; in questo modo, uno
spostamento d’un qualche oggetto su un lato del campo investirebbe in effetti il campo intero (in
ambito economico, si pensi alle fluttuazioni immediate delle Borse in risposta ad eventi e notizie
provenienti dall’altro capo del mondo, a cui abbiamo assistito sovente nell’arco degli ultimi anni).
McGrew individua, a tal proposito, due manifestazioni della globalizzazione: la dimensione o
allargamento, in senso puramente spaziale, dei processi mondializzati; l’intensità od
approfondimento dell’interazione, ciò che esprime la crescente capacità d’influenza degli eventi
globalizzati, cogenti ad un livello sopranazionale.
7
In merito alla definizione del fenomeno qui analizzato, s’intende ora richiamare una distinzione
avanzata da alcuni studiosi, relativamente alle differenze esistenti tra globalizzazione,
multinazionalizzazione ed internazionalizzazione (Lisbona, 1995).
Quest’ultima, difatti, è definibile come l’insieme dei flussi di scambio, specialmente in campo
economico, tra due o più Stati (in particolare, tali scambi riguardano le materie prime, i capitali, i
prodotti, ma anche persone ed idee). Per multinazionalizzazione si deve intendere invece il
fenomeno di trasferimento del capitale, ed in parte anche del lavoro, da una economia nazionale ad
un’altra; in quanto tale, questo processo si regge sulla delocalizzazione delle risorse.
Ecco allora emergere, grazie a tale distinzione, la natura di un fraintendimento diffuso nell’ambito
delle analisi economiche ed organizzative, ossia l’idea per la quale la globalizzazione sia, tra i
processi su indicati, il fenomeno in grado di spiegare la genesi dell’attenzione per il tema della
conoscenza organizzativa. In realtà, è la multinazionalizzazione, in prima battuta, a costituire un
fattore esplicativo efficace per l’emersione di tale focus, avendo la mondializzazione una funzione
complementare, seppure di una certa cogenza.
Diviene pertanto possibile, a questo punto, evidenziare i legami intercorrenti tra tali
macrofenomeni e la valorizzazione corrente della conoscenza organizzativa.
Si prenderanno qui le mosse dall’analisi della misura e dei termini in cui la multinazionalizzazione
contribuisce a creare un contesto sociale favorevole alla nascita della prospettiva culturale
analizzata in questo capitolo.
Concentrare l’attenzione sulla multinazionalizzazione significa, data la definizione su fornita,
dirigere lo sguardo sull’impresa, ed in particolare sulla<<impresa le cui attività si sono
gradualmente estese ad altri paesi>> (Lisbona, 1995), ciò che si manifesta, principalmente almeno,
con la creazione di filiali, la stipulazione di accordi di varia natura, la realizzazione di acquisizioni e
rilevamenti, l’estensione della partecipazione azionaria ecc. Una categoria di esempi
particolarmente illustrativi di tale dinamica è rappresenta dalle ramificazioni nazionali di grandi
gruppi industriali i quali danno vita, in ogni nazione in cui sono presenti, a “sotto-aziende” di vaste
dimensioni, tutte raccolte sotto un’unica e riconoscibile egida (si pensi al riguardo al settore della
telefonia mobile e fissa, ambito nel quale proliferano marchi nazionalizzati, quali Telecom Italia,
France Telecom, Deutsch Telekom o Telekom Serbia; casi analoghi sono emersi anche in campo
informatico, con particolare riferimento ad alcune attività interamente gestite attraverso Internet –
organizzazioni virtuali, di cui si parlerà in seguito – quali i motori di ricerca declinati secondo le
principali lingue e paesi del mondo occidentale – Altavista.com, Altavista.it, Altavista.uk oppure
Vitaminic.it, Vitaminic.uk ecc.).
Quali sfide porta all’impresa tale gestione, per così dire moltiplicata, del business? Poggiandosi
sulle riflessioni presenti in letteratura, s’individuano qui tre questioni cruciali legate al processo di
8
multinazionalizzazione: operare con mercati diversificati, mantenere un profilo comune nonostante
la pluralità dei mercati stessi, sostenere una cooperazione efficiente con altre organizzazioni.
L’espansione del business delle imprese multinazionali le pone innanzitutto di fronte alla necessità
di sbarcare su nuovi mercati e, quantomeno, di contenere le perdite nella prima fase di “attacco” o
“invasione” (nessuno dei due termini è in realtà pienamente pertinente rispetto al tema, ma se ne
intende sfruttare la forza evocativa). Tale operazione è però inevitabilmente condizionata, come
rileva Ruggles, dalla capacità dell’impresa stessa di sfruttare tutte le opportunità offerte dai
processi, questi sì, di globalizzazione economica, politica e culturale. In relazione a ciò, è inoltre
necessario che l’organizzazione che intenda “multinazionalizzarsi” disponga di conoscenze puntuali
sulle caratteristiche dei mercati su cui mira ad installarsi. Ciò significa dunque avere coscienza delle
peculiarità che i mercati, per quanto globalizzati ed omogenei siano, tuttavia ancora conservano.
Le questioni relative alle tecniche di penetrazione sul mercato investono le strategie di marketing
ed i singoli programmi aziendali, in relazione con le visioni organizzative adottate e le disponibilità
finanziarie e cognitive, e pertanto non ci riguardano direttamente; semmai è importante sottolineare
come tali operazioni promozionali debbano poggiarsi su conoscenze precise e profonde della realtà
socio-economica interessata. Una nuova priorità per l’impresa, dunque, emergente contestualmente
alla sua espansione in senso spaziale, è quella di detenere o acquisire conoscenze sulle società
estere, relativamente alle dinamiche economiche, alle legislazioni vigenti, alle tendenze culturali
dominanti ed ai valori tradizionali soggiacenti la trama sociale ancora in grado di influenzare e
condizionare stili di vita e di consumo. Tutto questo apre quindi per l’organizzazione
multinazionale una nuova area di competenza e di fabbisogno, specificamente centrata sulle risorse
cognitive ed intangibili.
La seconda sfida portata dalla multinazionalizzazione alle imprese è stata riconosciuta nella
necessità di tali organizzazioni di mantenere un profilo comune nell’ambito delle proprie attività,
nel momento in cui il business aziendale si espande oltre i confini nazionali, e magari continentali.
Tale problema sorge pertanto di fronte alla creazione di filiali installate su mercati omogenei e
delimitati. Ognuno di questi, difatti, presenta caratteristiche e tendenze proprie, in una certa misura
resistenti ai fenomeni di globalizzazione ed alle novità provenienti dall’esterno, o quantomeno
sufficientemente compatti da presentare peculiarità l’adeguamento alle quali è indifferibile da parte
dell’impresa multinazionale, pena la sua incapacità di inserirsi e sopravvivere in quella data realtà
economica.
Anche in questo caso, quale che sia la strategia selezionata dal top management per penetrare su di
un mercato, il problema che interessa in questa sede è di diversa natura. L’azienda, difatti, necessita
forzatamente di mantenere, anch’essa al pari del mercato stesso, i propri tratti fondamentali, quelli
grazie ai quali essa ed i suoi prodotti risultino immediatamente riconoscibili dal pubblico.
9
Tale problema è declinabile in due sensi. In primo luogo, i prodotti distribuiti nei diversi mercati
debbono attenersi tutti ad un identico standard, il che richiede che siano diffuse in ogni ramo
dell’organizzazione le competenze e le conoscenze basilari e necessarie, quelle “core competencies”
che Prahalad e Hamel hanno riconosciuto essere i fattori cruciali della sopravvivenza dell’impresa
nel tempo, oltre che del suo successo commerciale (Prahalad e Hamel, 1994).
In secondo luogo, i prodotti potranno richiedere di essere diversificati in alcuni aspetti,
relativamente ai mercati in cui vengono immessi. Tali modifiche potranno riguardare, ad esempio, i
momenti più favorevoli alla commercializzazione d’un nuovo bene (un dato mercato può difatti
essere più pronto di un altro ad accogliere un’innovazione per l’utilizzo della quale mancano
ancora, nel primo dei due, le competenze minime necessarie a livello del pubblico di riferimento;
così, la precoce messa in vendita del prodotto rischierebbe di essere un clamoroso buco nell’acqua,
data l’ancora bassa diffusione delle capacità di utilizzo richieste); è però anche possibile ipotizzare
che si rendano convenienti delle correzioni proprio a livello di prodotto, nei termini della sua
struttura o di alcune sue caratteristiche o componenti (si pensi al caso di legislazioni nazionali
richiedenti espressamente la dotazione alle autovetture di date misure di sicurezza minime o di
limitazioni alle emissioni inquinanti
3
, od ancora si rifletta sull’eventualità di forti pressioni da parte
di associazioni di tutela dei consumatori, ad esempio, le quali siano in grado di influenzare a tal
punto l’opinione pubblica da indurla a rifiutare l’acquisto di computer i cui monitor siano sprovvisti
di protezioni per la vista; in tali situazioni, si registra un automatico adeguamento da parte della
casa produttrice, indotta a ridefinire almeno le procedure di realizzazione della merce).
I casi qui richiamati evidenziano dunque alcune priorità e criticità per l’impresa multinazionale, la
quale deve da un lato sviluppare efficaci strumenti d’informazione ed addestramento interno in ogni
sua sede (non solo relativamente ai reparti produttivi industriali, ma più ancora per quanto riguarda
le imprese di fornitura di servizi), dall’altro invece deve coordinare strategie di realizzazione e di
implementazione dei prodotti in modo tale da generare un solido vantaggio competitivo sui mercati,
senza perdere però la specificità dei propri articoli a causa dei cambiamenti resi necessari dalla
strutturazione dei mercati di riferimento.
Tutto ciò pertanto mette in luce l’importanza, per l’organizzazione multinazionale, di mantenere un
corpus di competenze e conoscenze distintivo, inimitabile e resistente alla complessità sollevata
dall’espansione del business, ma pone anche in essere la questione relativa alla capacità di far
fruttare tale insieme di abilità professionali nonostante la dispersione delle locazioni produttive e
gestionali dell’azienda. Emerge così l’idea della conoscenza organizzativa come risorsa variamente
situata in persone, procedure, prodotti, vero fondamento dell’impresa nel mercato globalizzato.
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Al riguardo, vi è un caso recente di legislazione ecologista, rappresentato dalla California, ormai da qualche decennio
all’avanguardia su tali temi, la quale ha varato, nel maggio 2002, una legge che fissa il tetto delle emissioni gas
contribuenti all’effetto-serra, individuando innanzitutto nei responsabili gli scarichi di camion ed autovetture. Cfr. su
questo punto Rampini, 2002.
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Uno dei portati del fenomeno della multinazionalizzazione è costituito dall’espansione, oltre che
del business, delle collaborazioni e degli accordi che l’azienda crea. La natura di tali intese è
differente e variegata, andando dalle alleanze finanziarie a quelle tecnologiche, fino a quelle basate
su rapporti strettamente commerciali, passando per l’incremento delle partecipazioni azionarie.
Sempre più, pertanto, l’impresa multinazionale attiva cooperazioni e scambi, integrazioni di
competenze e conoscenze, in ultima istanza.
Come esemplificano Hildreth, Wright e Kimble, <<informazione e conoscenza devono essere
condivise fra individui e società che probabilmente mai si sarebbero aspettate di lavorare insieme>>
(Hildreth, Wright, Kimble, 1999, trad.mia). A questo punto, si rende necessaria la predisposizione
di strumenti e tecniche che consentano efficaci processi di integrazione delle conoscenze tra
lavoratori e dirigenti provenienti da organizzazioni distinte (una differenza cruciale è qui
rappresentata dalla cultura organizzativa, condizionante in misura rilevante le modalità di
cooperazione, negoziazione e contrattazione), ognuna portatrice di modi di fare e competenze
peculiari, ora invece poste di fronte ad un’esigenza di collaborazione in vista del raggiungimento di
un fine d’interesse comune.
E’ importante sottolineare, inoltre, che gli accordi istituiti dalle organizzazioni multinazionali sono
fondati specificamente sulla conoscenza, intesa come trait d’union tra le diverse imprese
partecipanti alla convenzione, come base comune su cui instaurare un rapporto di collaborazione.
L’elemento fondamentale per l’uniformazione di prospettive ed azioni di team internazionali,
difatti, può essere più difficilmente, oltre che meno opportunamente, ritrovato a livello del sistema
incentivante, oppure al livello culturale (ad esempio nella vision dell’organizzazione).
Le profonde differenze intercorrenti, mettiamo, tra un’impresa francese ed una giapponese, dovute
in particolar modo ad una cultura generale radicalmente diversa e reciprocamente altra, sono difatti
riducibili, appianabili o superabili intendendo il lavoro di gruppo come un interscambio,
un’integrazione od una condivisione di conoscenze. Impostare una collaborazione tra persone
vicendevolmente straniere, portatrici ognuna di personali valori culturali e caratteristiche cognitive,
risulta difficile e rischiosa se si assumono come elementi di stimolo al lavoro di gruppo dei sistemi
incentivanti omogenei ed unificati, i quali facciano perno su vantaggi che possano, in linea teorica,
essere percepiti come tali da entrambi, o più, le parti coinvolte. D’altra parte, le operazione
dovrebbero essere organizzate e strutturate secondo procedure almeno in una certa misura
coincidenti e comuni, ma non per questo saranno accettabili senza problemi da ogni attore
interessato.
Di fronte alla necessità di veicolare gli interventi di attori sociali provenienti da realtà organizzative
differenti per cultura e strutturazione in un’unica direzione, dirigendo le attività e le energie verso
un unico punto, emerge come cruciale per le multinazionali l’integrazione delle squadre di lavoro
sulla base, per mezzo del lavoro stesso, e principalmente in virtù di questo. Ossia, il gruppo
internazionale dovrà essere identificabile, per convenienza, grazie alla sua attività, lasciando invece
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la definizione delle procedure operative non coincidenti e la realizzazione di meccanismi
d’incentivazione alla libera organizzazione delle singole imprese.
Due ultime questioni debbono essere ora affrontate. Innanzitutto, nell’ambito della letteratura sul
tema del lavoro basato sulla conoscenza (knowledge-work), è frequente il riferimento alla
globalizzazione come uno dei fattori generativi della valorizzazione della conoscenza organizzativa,
mentre è pressoché assente la considerazione del ruolo della multinazionalizzazione. Ad un’analisi
più approfondita, però, emerge la vera natura di questo problema: trattasi difatti d’un
fraintendimento, di una sorta di impasse terminologico, d’una fallacia definitoria tale per cui, in
luogo d’un fenomeno (la multinazionalizzazione), se ne individua uno differente (la
globalizzazione), nella forma propria, però, del primo (ancora la multinazionalizzazione). Così
facendo, si ascrivono ad un fatto le conseguenze dell’altro, in un certo senso, s’incolpa il fratello
maggiore invece del fratello minore.
Gli esempi riportati e richiamati dai succitati Ruggles ed Hildreth, Wright e Kimble, ad esempio,
sono catalogabili sotto la categoria dei fenomeni causati dalla multinazionalizzazione, e si sono
adattati con una certa efficacia all’illustrazione degli effetti che tale processo ha sull’attuale focus
d’attenzione privilegiato sulla conoscenza. Ciò nonostante, gli autori stessi attribuiscono i problemi
da loro evidenziati alle criticità sollevate dalla globalizzazione, la quale costringerebbe le imprese
<<ad una qualche forma di cambiamento strutturale in ordine da lottare con l’incrementata
internazionalizzazione dei commerci >> (Hildreth, Wright, Kimble, 1999, trad.mia). Nessuna
chiara menzione, né qui né oltre, a quella precisa e diversa (nei modi, cause, conseguenze e tempi)
realtà che è la multinazionalizzazione; solo un generico riferimento ad una internazionalizzazione
che, altrove, assume le forme della mondializzazione.
Stando così i fatti, allora, la globalizzazione non avrebbe alcun ruolo in queste vicende? Qui sta la
seconda questione da chiarire. In effetti, nonostante la non pertinenza degli esempi di cui sopra ed il
correlato errore di individuazione del fenomeno causante le problematiche discusse da quegli autori,
la mondializzazione parrebbe comunque in grado di incidere sul focus sulla conoscenza registratosi
negli ultimi dieci, quindici anni.
D’altra parte, la cogenza della multinazionalizzazione rispetto a questo tema sembrerebbe limitata
dall’estensione del fenomeno stesso, e segnatamente troverebbe il proprio confine nel numero delle
aziende coinvolte da tale processo, una quota invero minoritaria rispetto al totale delle attività
produttive e di servizio esistenti, oltre che in confronto all’insieme dei fenomeni organizzativi non
commerciali (enti pubblici, associazioni senza fini di lucro ecc.).
La globalizzazione, dal canto suo, è una realtà maggiormente pervasiva. Inoltre, occorre ricordare
che esiste una molteplicità di fattori genetici della valorizzazione della conoscenza organizzativa,
all’interno di questo eterogeneo insieme potendosi rinvenire fenomeni più estesi della elitaria
multinazionalizzazione.