7
e, quindi, per la creazione di valore che può scaturire da un’attenta e
monitorata allocazione di capitale economico che tenga conto anche
del fattore rischio quando si valutano le performance delle varie
Business Unit.
Necessità imprescindibile delle banche è, allora, riuscire ad
individuare le unità risk taking, la tipologia di rischio che incide sulla
loro redditività e mettere in atto strategie di espansione o riduzione
dell’attività nelle varie unità a seconda della redditività aggiustata per
il rischio che si riesce a conseguire in tali unità tenendo sempre
presente la propensione al rischio espressa dalla proprietà.
Le tecniche di Risk Management, volte alla misurazione e alla
gestione dei rischi, si stanno diffondendo sempre di più nelle imprese
bancarie anche se vi è un differente livello di sviluppo dei modelli di
misurazione con tecniche ormai consolidate a livello internazionale
per quanto riguarda il rischio di mercato, tecniche che hanno
raggiunto un buon livello di affidabilità e condivisione per quanto
riguarda il rischio di credito e tecniche in via di sviluppo per quanto
riguarda il rischio operativo.
L’attenzione verso la gestione dei rischi negli ultimi anni è cresciuta
anche a livello di Vigilanza e la modifica dell’Accordo di Basilea del
1988 ne è la riprova.
8
L’atteggiamento delle Autorità di Vigilanza, in seguito al
cambiamento dello scenario di riferimento, è divenuto più flessibile e
collaborativo nei confronti dell’industria bancaria.
Le Autorità di Vigilanza, infatti, non si limitano più all’emanazione di
regole stringenti e di requisiti patrimoniali da far rispettare ad ogni
costo, ma la loro attività è orientata anche alla valutazione dei presidi
organizzativi che le singole banche pongono in essere per l’esatto
monitoraggio dell’esposizione al rischio incentivando l’introduzione
di modelli interni di misurazione che, anche se sono più complessi
rispetto ai modelli base forniti dalle Autorità di Vigilanza, comportano
una più precisa quantificazione dei rischi accompagnata da un
risparmio di capitale da allocare in quanto, tramite l’utilizzo dei
modelli elaborati internamente, si riesce meglio ad individuare la
rischiosità della specifica banca prendendo in considerazione anche
fattori qualitativi quali l’efficienza della struttura dei controlli interni.
In particolare è suggerito alle banche di creare apposite strutture
organizzative che si occupino della misurazione, monitoraggio e
controllo dell’esposizione al rischio e che siano caratterizzate da una
collocazione all’interno dell’organigramma delle banche che possa
permettere loro una piena visibilità dei processi gestionali da cui
9
promanano i rischi e che contribuisca all’affermazione di una cultura
del rischio condivisa in tutti i livelli operativi.
Gli ultimi sviluppi nella normativa di Vigilanza si sono avuti (in
seguito alla proposta del Nuovo Accordo di Basilea) con
l’introduzione di un requisito patrimoniale a fronte del rischio
operativo che non è un rischio caratteristico delle banche ma che,
soprattutto negli ultimi anni, è stato oggetto di una grande attenzione
da parte del settore bancario in seguito alle ingenti perdite dovute al
manifestarsi di questo rischio che pervade l’intera struttura della banca
in quanto può celarsi dietro qualsiasi attività da essa svolta.
Diviene fondamentale, allora, introdurre la cultura del rischio anche in
quelle unità della banca che storicamente non si sono mai trovate a
dover affrontare alcun tipo di rischio a causa della loro attività non
soggetta a rischi di credito o di mercato.
Più ancora delle normative sui rischi di credito e di mercato, inoltre, la
normativa sui rischi operativi è quella che avrà le maggiori
ripercussioni sulle strutture organizzative delle banche.
Non viene proposto un particolare modello organizzativo dalle
Autorità di Vigilanza, ma gli standard richiesti per i controlli e la
rilevazione della perdita operativa, obbligano le banche a
10
intraprendere una revisione su vasta scala di strutture e procedure
operative interne.
Requisito indispensabile, infatti, per fronteggiare il rischio operativo è
una struttura dei controlli interni alla banca volta a prevenire tale
rischio, o per lo meno a limitare gli effetti da esso derivanti nel caso in
cui la causa della perdita operativa sia esogena alla banca (terremoti,
attentati, etc.).
Le strategie volte al contenimento dei rischi operativi, allora, hanno
profonde ripercussioni sull’assetto organizzativo della banca che deve
puntare soprattutto sull’efficienza dei controlli interni, facendo in
modo che ogni organo all’interno della banca si assuma le proprie
responsabilità relativamente alla gestione dei rischi a partire dai vertici
fino al singolo operatore di sportello.
11
CAPITOLO I
I Rischi in banca:
implicazioni strategiche ed organizzative
1.1 L’evoluzione dell’attività bancaria e la necessità di un
maggior controllo dei rischi assunti.
La continua evoluzione ed il crescente dinamismo che hanno
interessato il sistema bancario internazionale nel corso degli ultimi
venticinque anni, hanno avuto come effetto fondamentale un
incremento del livello di rischio che le istituzioni creditizie si sono
trovate ad affrontare.
I fattori che hanno inciso maggiormente sull’operatività e sui rischi
dell’attività bancaria sono:
a. La deregolamentazione che ha comportato in Italia, con
l’introduzione del d. lgs 1° Settembre 1993 n. 385 (Nuova
Legge bancaria), una maggiore libertà alle banche in termini di
prodotti, servizi, mercati e canali di vendita con conseguente
esposizione a maggiori rischi.
12
b. La globalizzazione che ha inasprito la concorrenza tra
intermediari a livello internazionale1 e che ha provocato una
riduzione dei margini derivanti dall’attività creditizia.
c. La volatilità dei mercati finanziari sempre più accentuata che
espone le banche a rischi di mercato quando investono in
maniera diretta e a rischi di reputazione quando, investendo per
conto della clientela, incorrono in ingenti perdite.
d. La tecnologia che con il suo incessante sviluppo ha modificato
il modo di fare banca (vedi sviluppo della banca virtuale) e fa sì
che l’intermediario debba adeguarsi rivedendo le proprie
strategie e correndo il rischio di non sfruttare appieno le enormi
potenzialità derivanti dall’information technology restando
dietro al mercato e favorendo la concorrenza più avveduta.
La natura dei rischi che il singolo intermediario affronta non è
cambiata rispetto alla tradizionale distinzione (rischi di credito, di
mercato e operativi), ciò che cambia è la vastità e la complessità
dell’attività operativa della banca2 che, in seguito alla riduzione dei
margini dell’attività creditizia e all’aumento delle pressioni
competitive derivanti anche da intermediari non bancari, ha fatto si
1
Soprattutto tra Paesi all’interno della comunità Europea a seguito dell’introduzione dell’Euro e
dell’emanazione della direttiva europea sulla libertà di stabilimento e di libera prestazione di
servizi per gli enti creditizi. MASERA R. (2001), “Il rischio e le banche”. Il sole 24 ore.
2
BIANCHI B. (2000), “La valutazione del rischio nell’attività bancaria”. Mondo Bancario.
Maggio-Giugno 2000.
13
che le banche ampliassero sempre più la propria operatività verso
l’area finanza facendo aumentare, di conseguenza, le componenti di
reddito fee based rispetto a quelle interest based.
Operando sui mercati finanziari, le banche cercano strumenti in grado
di offrire combinazioni rischio/rendimento che soddisfino le
aspettative degli azionisti non trascurando però la necessità di un
monitoraggio sull’attività creditizia che resta pur sempre il core
business dell’intermediario bancario.
L’operatività in strumenti complessi (quali opzioni, swaps, etc…)
offre maggiore possibilità di guadagni ma al tempo stesso necessita di
un maggior monitoraggio dei rischi che aumentano sensibilmente a
causa dell’elevata volatilità di tali strumenti.
Tutto ciò ha fatto si che le banche, soprattutto di medio-piccole
dimensioni, non fossero in grado da sole di competere in un ambiente
così dinamico ed instabile quindi sono in corso fenomeni di M&A che
portano alla formazione di gruppi bancari.3
A questo punto risulta fondamentale per l’intermediario riuscire a
quantificare e monitorare la propria esposizione al rischio,
3
“All’accresciuta complessità degli strumenti finanziari e delle tecniche di gestione dei rischi,
corrisponde lo sviluppo di forme organizzative, quali la banca multispecialist o banca-gruppo, che
superano i modelli della banca universale o polifunzionale; rappresentano un portafoglio
coordinato di attività di intermediazione specializzate ma complementari, ciascuna svolta secondo
criteri analoghi a quelli di una singola impresa e ciascuna caratterizzata da propri profili
competitivi e organizzativi”. MASERA R. (2001), op. cit.
14
considerandolo un vero e proprio fattore produttivo che deve essere
remunerato al pari degli altri e, considerando la relazione
capitale/rischio/rendimento, scegliere in modo ottimale quali sono i
rischi da assumere e quali da trasferire al mercato.
Ciò è reso possibile grazie all’introduzione di sistemi di Risk
Management con elevato grado di sofisticazione riguardo la misura
dei rischi, inoltre, grazie anche agli impulsi derivanti dalla Vigilanza
(es. Banca d’Italia, Comitato di Basilea), vengono introdotti controlli
interni e di gestione sempre più mirati e attenti alla complessa realtà
operativa bancaria con riguardo all’assunzione, monitoraggio e
valutazione dei rischi, creando apposite strutture organizzative a ciò
deputate e ponendo l’attenzione in particolar modo sulla redditività e
sulla creazione di valore delle varie Business Unit.4
1.2 Il ruolo del capitale in banca.
Abbiamo visto che, essenzialmente, l’attività bancaria si caratterizza
per una continua assunzione di rischi5. Di particolare importanza, a
4
“La situazione del sistema bancario italiano è stata per lungo tempo caratterizzata, invece, da una
situazione di competitività controllata che portava spesso le banche, soprattutto di minori
dimensioni, ad anteporre ai risultati reddituali, finalità di carattere sociale legate allo sviluppo del
territorio di tradizionale insediamento” P. A. CUCURACHI (2000), “Controlli interni e Internal
Audit dell’ area finanza” in BARAVELLI M. e VIGANO’ A. (a cura di) “L’ Internal Audit nelle
banche” Bancaria editrice pag.120
5
“Nelle imprese il rischio è rappresentato dalla volatilità dei risultati aziendali e dalle potenziali
discontinuità nella formazione dei flussi di cassa. Tale volatilità rappresenta, in ultima istanza, il
rischio complessivo sostenuto anche dall’intermediario bancario in qualità d’impresa, derivante sia
15
questo punto è considerare, allora, il ruolo svolto dal capitale nelle
imprese bancarie; difatti, mentre per le perdite attese le banche
predispongono opportuni accantonamenti e riserve, per le perdite
inattese –che rappresentano la manifestazione “tangibile” del rischio–,
subentra il ruolo del capitale che agisce da “cuscino” per assorbire tali
perdite.
Il livello di capitale, quindi, che una banca deve detenere è
direttamente correlato alla sua esposizione ai rischi e al livello di
sicurezza che si vuole mantenere: è evidente che, a parità di rischio, il
capitale in eccesso rappresenta una garanzia aggiuntiva di solvibilità
della banca.6
Nel momento in cui una banca va a decidere circa il livello di
dotazione patrimoniale e quindi di leva finanziaria7, deve tener conto
delle esigenze di diverse categorie di stakeholder quali:8
a. Le esigenze delle Autorità di Vigilanza per le quali è
auspicabile una elevata patrimonializzazione onde evitare il
rischio sistemico9 .
dall’attività di servizio (utili/perdite operative) sia dai mutamenti di valore degli investimenti
iscritti sui libri aziendali.” MASERA R. e MAINO R. (2002), “Capitale e rischio: recenti tendenze
e prospettive nella patrimonializzazione delle banche italiane.” A.S.S.B.B. Quaderno N. 196
pag.13
6
TROIANI M. (2000), “Il processo di allocazione del capitale e gli impatti sulla pianificazione e
il controllo di gestione” Bancaria N. 5/2000.
7
Intesa presso gli intermediari come rapporto tra patrimonio e attivo totale che, secondo la prassi
della Vigilanza viene ponderato per il rischio e che è un’espressione delle tensioni cui è sottoposta
la banca nel proprio ambito finanziario, operativo e regolamentare, nel passaggio da banca-
istituzione a banca-impresa. Cfr MASERA e MAINO (2002), op cit. pag.19
8
TROIANI M. (2000), op cit.
16
b. Le esigenze dei creditori (quali obbligazionisti e depositanti) il
cui unico interesse è essere ripagati e risulta quindi importante
che il valore dell’azienda (espressione non solo del capitale ma
di tutti gli asset iscritti in bilancio e non) non sia inferiore a
quello dei debiti che essa ha contratto.10
c. Le esigenze degli azionisti, che si pongono da una visuale
completamente diversa interessati solamente a ricevere una
remunerazione ai propri investimenti adeguata al rischio
sopportato.
Considerando il punto di vista dei vari stakeholder potremmo
giungere a diverse definizioni di capitale quali ad esempio 11:
� Capitale effettivo: rappresenta l’ammontare di risorse
effettivamente disponibili compresi gli asset intangibili oltre a
capitale sociale, riserve e plusvalenze finanziarie e non, che
possono mantenere, ragionevolmente, un valore in caso di
fallimento della banca.
9
Dato dalla possibilità che la crisi di una banca possa trasmettersi ad altri operatori finanziari
generando un effetto domino
10
A questo riguardo Merton interpreta il capitale come la titolarità di un’opzione call iscritta sul
valore dell’impresa, ceduta dai creditori alla proprietà dell’impresa stessa ed esercitabile a
scadenza tramite il rimborso del debito. Se alla scadenza il valore dell’impresa è maggiore del
valore del debito allora la call è in the money e viene esercitata dai proprietari, se invece è il valore
del debito ad essere superiore al valore dell’impresa, la call è out of the money e non viene
esercitata lasciando l’impresa nelle mani dei creditori che potranno rivalersi sul valore contingent
degli asset aziendali.Con tale analogia Merton lega il valore (ed il ruolo) economico del capitale
con la probabilità d’insolvenza dell’impresa. Cfr MASERAR. e MAINO R. (2002), op. cit. pag.10
11
TROIANI M. (2000), op cit.
17
� Capitale regolamentare: rappresenta il capitale richiesto dalle
Autorità di Vigilanza affinché siano soddisfatti i requisiti
minimi patrimoniali obbligatori che attualmente si riferiscono ai
rischi di credito e di mercato.12
� Capitale economico: rappresenta il livello di capitale
necessario ad “assorbire” un dato livello di rischio ed è
esprimibile in termini di Value-at-Risk (Var).13 Di tale misura ci
si serve oggi per valutare la redditività dell’attività bancaria.
Non bisogna sottovalutare, infatti, il ruolo di investimento che ha il
capitale ed è di fondamentale importanza che la banca riesca a
formulare strategie idonee circa l’allocazione del capitale14 che siano
in grado di equilibrare le varie “pretese” e a creare valore per gli
azionisti.
1.2.1 Il capitale nell’ottica della Vigilanza
Il capitale regolamentare è uno strumento nelle mani delle Autorità di
Vigilanza il cui obiettivo, oltre alla stabilità del sistema finanziario, è
quello di garantire l’efficienza delle banche in un mercato non più
“protetto” bensì concorrenziale. Si è passati così da una Vigilanza
12
La revisione dell’Accordo di Basilea del Gennaio 2001 prevede l’introduzione di requisiti anche
a copertura dei rischi operativi. L’argomento sarà ampiamente trattato in seguito.
13
Il Var esprime la perdita massima potenziale che può subire una determinata esposizione in
titoli, crediti etc., in un determinato intervallo di confidenza (o con una data probabilità) e in un
determinato periodo di tempo detto holding period. Per approfondimenti vedi in seguito.
14
Aspetto che sarà trattato in seguito
18
basata soprattutto sulle autorizzazioni ad una più flessibile basata su
alcune “regole del gioco” entro le quali deve essere svolta l’attività
bancaria.
Tali regole, che mirano ad assicurare una gestione bancaria a rischio
controllato, sono state organizzate attorno al patrimonio delle banche e
sono espresse tramite coefficienti patrimoniali minimi
obbligatori.
15
Tali coefficienti sono definiti a livello internazionale dal
Comitato di Basilea e poi recepiti nei vari Paesi tramite la
regolamentazione delle Autorità di Vigilanza nazionali.
L’Accordo di Basilea del 1988 (che prevedeva requisiti patrimoniali
solo a fronte dei rischi di credito e che è stato “aggiornato” nel 1996
con l’introduzione di requisiti anche per i rischi di mercato), è stato
modificato con un altro del Gennaio 2001 (che probabilmente entrerà
in vigore nel 2005) che prevede requisiti patrimoniali oltre che per i
rischi di credito e di mercato, anche per i rischi operativi.
Riguardo al coefficiente patrimoniale (detto di solvibilità) che le
banche devono rispettare, esso è dato dal rapporto tra patrimonio di
Vigilanza
16
e la somma delle attività ponderate esposte al rischio di
15
Cfr RUOZI R. (2000), “Economia e Gestione della Banca” EGEA. Milano. pag.39
16
Composto da patrimonio di base (Tier 1 capital) e patrimonio supplementare (diviso in Tier 2 e
Tier 3). Il patrimonio di base è composto da capitale sociale, riserve utili e altre riserve esplicite ed
è quindi il capitale economico o equity capital, il patrimonio supplementare è invece composto da
capitale di debito (debito subordinato) e da strumenti ibridi di capitalizzazione. Cfr. CHESINI G. e
GUALANDRI E. (2002), “Il Nuovo Accordo di Basilea sul capitale: trend nella regolamentazione
e nella valutazione del rischio di credito”. Banche e banchieri N. 2 2002
19
credito, del requisito patrimoniale per i rischi di mercato e, con
l’entrata in vigore del Nuovo Accordo, del requisito patrimoniale per i
rischi operativi. Affinché le banche siano sufficientemente
capitalizzate per le Autorità di Vigilanza, tale coefficiente non deve
risultare inferiore all’8%.
1.3 Il Risk Management in banca
Guardando, invece, al ruolo “economico” del capitale, diviene
necessario per la banca gestire correttamente questa risorsa scarsa. A
tal proposito la banca, alloca, in senso figurativo, le risorse
patrimoniali a disposizione per la copertura dei rischi, alle varie
Business Unit in cui è articolata la propria attività, servendosi di
misure in grado di valutare correttamente le performance reddituali e
che consentano un continuo monitoraggio delle esposizioni a rischio
della banca affinché queste siano coerenti con le scelte strategiche
operate in relazione alla propensione al rischio della proprietà e al
target di redditività desiderato.
La propensione al rischio deve, tra l’altro, essere comunicata al
mercato che in questo modo può formarsi le corrette aspettative di
reddito.
20
La banca, ad esempio, potrebbe rivolgersi ad investitori/azionisti con
un prudente profilo rischio/rendimento esplicitando una politica poco
aggressiva di assunzione dei rischi e una prospettiva di rendimenti
contenuti.17
1.3.1 Dall’ALM al Risk Management: il Var come strumento per
una visione “integrata” del rischio.
Riguardo alla quantificazione delle esposizioni a rischio della banca,
le tecniche più “collaudate” si riferiscono alla misurazione dei rischi
di credito e di mercato.18 Riguardo ai rischi di mercato le prime
tecniche adottate sono state quelle di Asset & Liability Management
(gestione integrata attivo/passivo) che hanno avuto come obiettivo
quello di consentire la gestione integrata e coordinata delle fonti di
finanziamento e degli impieghi in modo da tenere sotto controllo
l’esposizione della banca ad una particolare categoria di rischio di
mercato, il rischio di tasso di interesse, nell’ambito dei limiti di rischio
ritenuti compatibili con le preferenze degli azionisti. 19
17
TROIANI M. (2000), op cit.
18Per rischio di credito s’intende il rischio connesso non solo all’insolvenza ma anche al semplice
deterioramento della qualità creditizia della clientela affidata, mentre per rischio di mercato si
intendono i rischi connessi agli effetti sul flusso reddituale e sul valore economico della banca
delle variazioni inattese del livello dei tassi di interesse e di cambio, dei prezzi azionari e delle
merci, nonché della relativa volatilità attesa. Cfr. SAITA F. (2000), “ Il Risk Management in
banca “. EGEA. Milano. pag.108
19
SAITA F. (2000), op. cit. pag.29