8
assoluto essi si attestano su livelli molto differenti tra loro. A metà del
1998, infatti, l'OECD rileva un tasso di disoccupazione del 2,2% in
Lussemburgo, tra il 4% e il 4,6% in Olanda, Austria e Danimarca; tra
il 6,4% e il 9,2% in Portogallo, Regno Unito, Svezia, Belgio e Irlanda;
tra il 9.8% e il 12,5% in Germania, Francia, Italia e Finlandia; del
18,9% in Spagna.
Nonostante le previsioni per il 1999 indichino la persistenza di questo
trend decrescente per quasi tutti i paesi dell'UE (eccetto che per la
Grecia, il Lussemburgo e il Regno Unito) l'OECD ammonisce che
"unemployment in European Union will remain a serious economic
and social problem"(OECD, 1998, p. 3). Questo risulta essere tanto
più vero se si analizzano i dati riguardanti il tasso di disoccupazione
dal 1973 a oggi: ciò permette di individuare un andamento
costantemente crescente, con temporanee inversioni di tendenza
attribuibili a fasi cicliche di espansione. Nel 1973 nei paesi dell'attuale
Unione Europea il valore medio era del 2,7%; esso è ininterrottamente
cresciuto fino al 1986 dove si attestava al 10,5%; dal 1987 al 1990
subiva un decremento fino all'8,1%; nel 1991 riprendeva a salire, fino
a raggiungere il livello dell'11,1% nel 1996, corrispondente a
17.364.000 disoccupati: un valore quattro volte più alto rispetto a
quello rilevato nel 1973. Analizzando più da vicino i dati dei singoli
paesi si possono individuare alcuni casi limite, come quello della
Spagna, dove il tasso di disoccupazione è aumentato dal 2,5% (1973)
al 20,8% (1997); oppure quello della Finlandia che ha registrato un
incremento dal 2,3% (1973) al 14,5% (1997).
9
Anche in Italia l'andamento del tasso di disoccupazione presenta
caratteristiche non difformi dal resto d'Europa nel periodo preso in
considerazione. A fronte di un livello del 5,3% nel 1974, all'inizio del
1998 se ne individuava uno del 12%, corrispondente a 2.782.000
disoccupati, in particolare concentrati tra i giovani (nella fascia di età
tra i 14 e i 24 anni esso è del 32%), le donne e i lavoratori
dell'industria. Il tasso di disoccupazione femminile nel 1997 era
stimato al 16,2%, di molti punti più alto di quello maschile, pari al
9,3%. Anche dal punto di vista territoriale la differenza appare netta
tra il dato rilevato per le regioni del centro-nord (7,8%) e quelle del
sud (21%). Preoccupante risulta essere anche l'alta percentuale di
disoccupati di lunga durata sul totale (coloro, cioè, che sono in cerca
di un lavoro da più di un anno), che nel 1997 era pari al 62,9%. Per
quanto riguarda i diversi settori dell'economia, l'andamento negativo
dell'occupazione è particolarmente pronunciato nell'agricoltura e
nell'industria, sia nel settore manifatturiero che in quello delle
costruzioni, mentre nel terziario le statistiche mostrano una ripresa a
partire dal 1995.
Guardando all'economia italiana nel suo complesso si nota, infine, che
l'incremento del tasso di disoccupazione è risultato costante dal 1974
al 1998 con leggere inversioni di tendenza tra il 1989 e il 1991 (dove
si passava dal 12,1% all'11%) e nel 1993 (dove in un solo anno si
registrava una riduzione dell'1,3%).
Nel complesso dei paesi industriali, ed in particolare nei paesi dell'UE,
si rileva una crescita della disoccupazione che solo marginalmente, e
temporaneamente, è stata scalfita nelle fasi cicliche espansive che si
10
sono registrate negli ultimi venticinque anni. In questo periodo di
tempo si è dovuta registrare una caratteristica della disoccupazione
nuova rispetto alla esperienza maturata a partire dal secondo
dopoguerra: la sua persistenza nel tempo. L'andamento della
disoccupazione e del suo tasso di crescita dalla prima metà degli anni
'70, ha dato vita, allora, ad un ampio dibattito tra gli economisti volto
ad individuarne le cause. La base di partenza consiste
nell'individuazione del carattere strutturale e non congiunturale
dell'attuale disoccupazione, o quantomeno nella crescita della quota di
disoccupazione strutturale sul totale, il cui significato può essere colto
nell'affermazione che quando la produzione cala, anche l'occupazione
diminuisce, ma quando cresce la produzione, l'occupazione non cresce
più.
I principali filoni interpretativi emersi nello spiegare tale fenomeno
sono tre:
1) alcune interpretazioni vedono la disoccupazione strutturale
come conseguenza di problemi che sorgono dal lato
dell'offerta, e fanno riferimento essenzialmente alle
caratteristiche del mercato del lavoro;
2) alcune attribuiscono l'origine della disoccupazione strutturale
alla presenza e all'incidenza di determinati fattori strutturali
che possono determinare shock sia dal lato dell'offerta che
della domanda;
3) altre, infine, ritengono che la disoccupazione sia un fenomeno
connesso con gli sviluppi tecnologici e l'evoluzione del
processo produttivo.
11
2. La disoccupazione strutturale nell'analisi degli sviluppi
della teoria neoclassica
In base alla teoria neoclassica, in condizioni di concorrenza perfetta si
determina una situazione di pieno impiego delle risorse; la
disoccupazione nasce dunque da imperfezioni e vincoli alla
concorrenza sui diversi mercati, in particolare su quello del lavoro. Gli
sviluppi di questa teoria tendono a spiegare l'elevato livello di
disoccupazione esistente attualmente in Italia e in Europa in termini di
rigidità esistenti sul mercato del lavoro, che costituirebbero un
ostacolo all'assunzione di nuovi lavoratori da parte delle imprese.
Nell'analizzare le cause della disoccupazione strutturale essi hanno
perciò concentrato l'attenzione su alcune caratteristiche strutturali del
mercato del lavoro, in particolare sugli aspetti di flessibilità, e sul
ruolo che possono rivestire nei confronti della disoccupazione.
12
2.1 La flessibilità
2.1.2 La flessibilità esterna
Dal punto di vista microeconomico con il termine flessibilità si
intendono principalmente i concetti di flessibilità salariale e
flessibilità in termini di mobilità del lavoro: si parla in questo caso di
flessibilità esterna. La durata delle ferie, i limiti posti alla lunghezza
della giornata e della settimana lavorativa, i vincoli al licenziamento,
la necessità di pagare la liquidazione alla chiusura del rapporto
lavorativo, gli oneri sociali attribuiscono al mercato del lavoro forti
connotati di regolamentazione e rigidità che scoraggerebbero
dall'assumere nuovi lavoratori. Ma sarebbe soprattutto la rigidità dei
salari verso il basso, determinata dai minimi salariali fissati
istituzionalmente e dall'azione svolta dai sindacati, ad essere causa
della disoccupazione che, se durevole, assumerebbe le caratteristiche
di disoccupazione naturale.
Il tasso di disoccupazione naturale o NAIRU (not accelerating
inflation rate of unemployment) è quello che, secondo l'approccio
neoclassico, viene determinato dalle condizioni di equilibrio sul
mercato del lavoro: è il tasso di disoccupazione al quale l'inflazione
rimane costante. Esso includerebbe, quindi, anche gli effetti di tali
aspetti di rigidità sul mercato del lavoro.
13
Questo tipo di impostazione, quella cioè di utilizzare i concetti di
flessibilità/rigidità salariale per spiegare tassi di disoccupazione
naturale, è attribuibile in particolare alla Supply-Side Economics,
quel filone teorico che ha sottolineato la necessità del recupero del
funzionamento dei meccanismi di mercato e delle conseguenti
strategie di deregolamentazione volte a favorire tali meccanismi.
Stante l'ipotesi di dipendenza del tasso di disoccupazione naturale
dalla rigidità salariale, si è sostenuta la possibilità di incidere sui livelli
di disoccupazione agendo sulle cause stesse della rigidità, in
particolare attraverso l'allentamento dei vincoli normativi in materia di
lavoro e il contenimento del potere contrattuale dei sindacati.
Un'altra causa della disoccupazione sarebbe, nell'ambito di questo
schema, la mancanza di flessibilità nei differenziali salariali. Essa
sarebbe dovuta ad ostacoli, interventi pubblici e strategie sindacali che
avrebbero ostacolato lo spostamento dei lavoratori dai mercati con
eccedenza di offerta di lavoro a quelli con eccesso di domanda.
Un altro aspetto importante della flessibilità è la mobilità del lavoro,
intesa come quei diversi istituti contrattuali, quali i contratti a termine,
il lavoro a tempo parziale, il tirocinio, i contratti di inserimento, il
lavoro interinale, i contratti di formazione diretti a ridurre il tasso
naturale di disoccupazione.
14
2.1.2 La flessibilità interna
Accanto alla flessibilità esterna, è stato preso in considerazione il
concetto di flessibilità interna, intesa come sicurezza del posto di
lavoro e funzionamento dei mercati del lavoro interni o flessibilità
funzionale.
Per quanto riguarda il primo aspetto, si argomenta che le rigidità
derivanti dalle politiche sindacali e pubbliche volte a garantire la
sicurezza del posto di lavoro comporterebbero costi di lavoro
maggiori, contribuendo così a scoraggiare la domanda di lavoro. Vi è
però chi sostiene che gli effetti in termini di occupazione di tali fattori
di rigidità siano incerti: da un lato essi potrebbero portare addirittura
ad una diminuzione dei costi attraverso la possibilità di poter
perseguire altre forme di flessibilità nei mercati del lavoro interni che
altrimenti non sarebbero possibili; e dall'altro potrebbero contribuire a
contenere la disoccupazione causata dall'andamento congiunturale
della domanda e della produzione. L'opinione prevalente è, quindi, che
"la rigidità in termini di sicurezza del posto di lavoro non sia
sicuramente un fattore determinante della disoccupazione strutturale"
(Frey, 1996, p. 189).
Per quanto riguarda il secondo aspetto, quello del funzionamento dei
mercati del lavoro interni, con esso si intende la possibilità per
l'impresa di adattare il proprio mercato del lavoro interno ai
cambiamenti tecnologici, sociali e produttivi che si trovi di volta in
volta a fronteggiare. Esso fa riferimento ad aspetti quali la mobilità
professionale dei lavoratori occupati, l'organizzazione del lavoro, la
15
gestione del tempo di lavoro. Un'ipotesi accettata dagli studiosi
sostiene che un maggiore grado di flessibilità funzionale
accrescerebbe la produttività media del lavoro. Su questa base si è
diffusa l'opinione dell'elevato rischio in termini di peggioramento
della dinamica occupazionale associato al perseguimento di alti livelli
di flessibilità funzionale: da un lato le imprese avrebbero interesse a
porre in atto strategie volte ad aumentare la produttività del lavoro;
dall'altro i lavoratori insiders avrebbero interesse a perseguire prima, e
a preservare poi, determinati vantaggi salariali escludendo gli
outsiders e facendo in modo che essi non vengano assunti da tali
imprese: questo processo potrebbe determinare una internalizzazione
dei mercati del lavoro e una conseguente emarginazione dei
disoccupati che verrebbero incanalati verso forme di precarizzazione o
assorbiti in una situazione di disoccupazione di lunga durata.
Un ulteriore aspetto rilevante della flessibilità interna è stato
individuato nella flessibilità del tempo di lavoro, le cui modalità
rispondono sia all'esigenza di adattamento della capacità produttiva in
termini di capitale e di lavoro all'andamento mutevole della domanda
di prodotti, sia all'opportunità di sostituire lavoro particolarmente
costoso per unità di prodotto con lavoro meno oneroso. Tale aspetto
della flessibilità interna è visto, cioè, come parte di più ampie
modifiche dell'organizzazione del lavoro che possono favorire
l'aumento della produttività media del lavoro e ridurre il costo del
lavoro per unità di prodotto. Accanto a questo, però, viene identificato
un ulteriore aspetto della flessibilità del tempo di lavoro che rende
controversi i suoi risultati in termini occupazionali. Si ritiene, infatti,
16
che in alcune situazioni, particolarmente in quelle dove sia favorito un
ampio ricorso al lavoro straordinario, tali misure di flessibilità
potrebbero influire negativamente sulla disoccupazione di lunga
durata "rafforzando ed accentuando la netta separazione tra lavoratori
occupati e lavoratori disoccupati" (Frey, 1996, p. 193).
3. L'analisi strutturalista
L'importanza di fattori strutturali che, agendo attraverso shock sia dal
lato della domanda che da quello dell'offerta, siano in grado di
provocare disoccupazione strutturale, è posta al centro dell'analisi
strutturalista. In base all'effettiva incidenza dei fattori strutturali che
sono all'origine dello shock, si possono determinare mutamenti
permanenti nelle condizioni di equilibrio economico generale del
sistema e, quindi, anche nell'occupazione di equilibrio: in
corrispondenza delle diverse posizioni di equilibrio possibili,
esisterebbero allora diversi tassi di disoccupazione naturale.
Ciascun fattore strutturale può assumere una diversa incidenza in
differenti situazioni, in modo tale da poter spiegare l'esistenza di tassi
di disoccupazione naturali diversi tra paesi differenti nello stesso
periodo e nello stesso paese in periodi di tempo diversi.
I fattori strutturali presi in considerazione sono le variazioni della
produttività, le variazioni dei costi per unità di prodotto, le variazioni
negli stock di popolazione, quelle del valore reale delle attività
17
finanziarie e della ricchezza posseduta, le variazioni esogene dei tassi
di interesse, le modifiche dei sistemi di trasferimento di reddito a fini
sociali, le modifiche del sistema tributario, le modifiche del sistema
doganale, le modifiche nella struttura dell'indebitamento pubblico,
quelle nella struttura della spesa pubblica e nelle dimensioni di
specifiche componenti di essa, i mutamenti nelle preferenze
intertemporali degli operatori economici del sistema.
Si noti come in questi schemi il progresso tecnologico viene
individuato come un fattore che può determinare disoccupazione
strutturale: ad esso viene attribuita un'importanza ancora maggiore in
altri filoni teorici, per cui tale problematica risulta centrale nel
contesto del dibattito sulla disoccupazione tecnologica.
4. Il progresso tecnico e la problematica occupazionale
Nell'ambito del dibattito sulle origini della disoccupazione in Europa e
in Italia negli ultimi venticinque anni, molti economisti hanno
analizzato la relazione tra progresso tecnologico e disoccupazione. Al
centro della discussione non viene posta la questione dell'esistenza
della relazione tra i due fenomeni, che risulta evidente dal punto di
vista empirico per il periodo preso in considerazione, ma quella del
riconoscimento o meno del progresso tecnico come fattore strutturale
che genera disoccupazione strutturale.
18
Gli schemi considerati possono essere distinti in tre gruppi. La
diversità non riguarda, però, le opinioni circa l'essenza del progresso
tecnologico. Viene da tutti, cioè, riconosciuto come esso per sua stessa
natura abbia effetti controversi sull'occupazione: da un lato determina
richieste di nuovi lavoratori per i nuovi processi produttivi da
realizzare e per l'espansione della produzione (creazione, cioè, di
nuovi posti di lavoro); dall'altro porta ad un fenomeno diametralmente
opposto, ossia una espulsione dei lavoratori dai processi produttivi, a
parità di produzione, conseguente all'aumento della produttività del
lavoro (distruzione di posti di lavoro). Il saldo di questa incessante
creazione/distruzione di posti di lavoro può essere positivo o negativo.
Sulla base di queste comuni premesse, i diversi schemi presi qui in
considerazione giungono all'individuazione di differenti relazioni tra il
progresso tecnologico e gli attuali elevatissimi livelli di
disoccupazione:
1) alcuni considerano il progresso tecnico come una risorsa
essenziale per la crescita del sistema economico, i cui
potenziali effetti positivi sull'occupazione si manifestano in
seguito a fasi di transizione la cui lunghezza è subordinata da
un lato all'incapacità del sistema produttivo e delle istituzioni
di rimuovere i vincoli che impediscono di metabolizzare il
progresso tecnico stesso; e dall'altro ai meccanismi di
diffusione delle singole innovazioni, concernenti le loro
caratteristiche intrinseche;
2) altri evidenziano l'esistenza di meccanismi compensativi che
necessariamente accompagnano il progresso tecnico e che
19
sono potenzialmente in grado di generare un saldo
occupazionale positivo: il fatto che ciò non stia avvenendo
nelle economie industrializzate contemporanee è da mettere in
relazione con l'insufficiente intensità di tali meccanismi;
3) altri, infine, ritengono che il fenomeno della disoccupazione,
date le caratteristiche del sistema economico, abbia origine
nelle forme attuali del cambiamento tecnologico e
organizzativo: si parla allora di disoccupazione tecnologica
che, se affrontata con gli strumenti tradizionali, avrebbe
carattere irreversibile. Non è sostenibile, in tale contesto,
alcuna teoria della compensazione in quanto "non è plausibile
che la crescita del prodotto, ai tassi ai quali può effettivamente
e durevolmente realizzarsi, comporti una crescita
dell'occupazione" (Lunghini, 1997, p. 273).
20
4.1 Il progresso tecnologico e l'esistenza di fasi di
transizione necessarie al dispiegamento dei suoi effetti
positivi sull'occupazione
In base a un primo gruppo di schemi il progresso tecnico trasmette al
sistema economico una serie di impulsi che stimolano la crescita, ma
che operano in modo contraddittorio sull'andamento dell'occupazione.
Si ritiene che il processo innovativo distrugga e crei unità produttive
in misura non simmetrica. Gli effetti diretti delle innovazioni di
processo sono di tipo labour-saving, ma le innovazioni di prodotto
inducono la nascita di interi settori e di una nuova domanda con effetti
addizionali sull'occupazione. Le cause di questi effetti controversi
sull'occupazione non vanno ricercate negli andamenti della
produttività: l'attuale progresso tecnico non è di per sé causa della
disoccupazione nei paesi industriali. Anzi, esso "è condizione
necessaria affinché si creino posti di lavoro in una economia
dinamica" (Ciocca, 1997, p. 20) attraverso lo stimolo che genera nei
confronti della concorrenza. La concorrenza, intesa come "sprone
all'impresa, a chi la guida, a chi vi lavora" (Ciocca, 1997, p. 21) e non
come semplice laissez-faire, è il motore che permette di innescare un
circolo virtuoso tra incrementi di produttività e occupazione, da un
lato attraverso la spinta a smobilitare le attività non più redditizie
individuando e sollecitando nel contempo nuove produzioni; dall'altro
guidando e promuovendo l'impiego delle risorse nei rami della
produzione verso cui la domanda si orienta e nei quali è conveniente
21
espandere l'offerta. In altre parole, essa costituisce il rimedio al
ristagno dell'economia e la forza propulsiva del suo sviluppo
attraverso l'efficienza.
Ma perché il progresso tecnico, attraverso lo stimolo che esercita sulla
concorrenza, possa sviluppare i suoi effetti virtuosi sulla dinamica
occupazionale, il sistema economico, le istituzioni, i moduli
organizzativi devono saperlo assecondare e incoraggiare, devono
saperlo, cioè, metabolizzare. L'impedimento al pieno sfruttamento
delle nuove tecnologie deriva, quindi, dai limiti con cui il sistema
economico-istituzionale accomoda e complementa il progresso
tecnico. Viene, allora, attribuito un ruolo centrale alla esistenza di fasi
di transizione, la cui lunghezza è dovuta all'inerzia e alle frizioni delle
vecchie istituzioni e alle complementarietà che si devono instaurare,
come già era avvenuto per il sistema fordista, per consentire
cambiamenti coerenti con il nuovo paradigma tecnologico: in tali fasi,
cioè, si intrecciano e non si incontrano automaticamente le specificità
delle nuove tecnologie e un assetto economico e istituzionale tagliato
a misura del precedente regime tecnologico. Si intendono qui
istituzioni quali le modalità di formazione del salario e le relazioni
industriali, le condizioni della concorrenza e le forme di mercato, il
modo di interazione con il sistema economico internazionale, le forme
di intervento dello stato, le relazioni monetarie e creditizie: esse,
sebbene assicurino un contesto adatto alla valorizzazione del modo di
sviluppo disponibile, possono divenire controproduttive nei confronti
dei nuovi paradigmi tecnologici, favorendo l'inerzia e ostacolando il
cambiamento "attraverso le esternalità positive offerte al vecchio
22
modo di sviluppo (e, specularmente, negative al nuovo)" (Mariotti,
1997).
Ciò vale in particolare per il settore dei servizi. Le potenzialità di dar
lavoro in molti rami del terziario non trovano corrispondenza nel
quadro istituzionale, che può ostacolare lo sviluppo di servizi
innovativi attraverso vincoli diretti su ciò che si può produrre, oppure
attraverso barriere all'ingresso di nuove imprese in settori dominati da
monopoli spesso pubblici: in questo modo vengono a mancare sbocchi
occupazionali alternativi rispetto ai settori in contrazione strutturale.
Sulla lunghezza delle fasi di transizione influiscono anche i
meccanismi che determinano i sentieri di diffusione delle singole
innovazioni. Tali meccanismi sono connessi alle caratteristiche
proprie di ogni singola innovazione. Ad esempio, si mette in evidenza
come molte di esse, soprattutto quelle maggiori, possono rimanere a
lungo non competitive rispetto alle tecnologie precedenti perché,
essendo alla loro nascita molto primitive, la loro velocità di diffusione
dipende dal succedersi nel tempo di modifiche che migliorino il
rapporto tra costi e prestazioni. La pressione competitiva delle nuove
tecnologie può, inoltre, generare miglioramenti in quelle vecchie tali
da ritardare l'adozione delle nuove. Vi è, infine, il pericolo della
formazione di strutture di offerta monopolistiche che, ritardando la
caduta dei prezzi delle nuove tecnologie, ne frena la diffusione.