nazionale a discapito di quell’universalità del “mercato unico delle
professioni liberali”.
Queste posizioni al momento appaiono sicuramente anacronistiche; non riesce
difficile scorgere all'interno di esse non solo una scarsa sensibilità nei
confronti del nuovo contesto europeo ma anche una spiccata tendenza a
proteggere posizioni fortemente corporativistiche.
L'attuale preminenza delle norme di diritto comunitario sulle norme di diritto
nazionale accompagnata al principio di effettività hanno l'effetto di privare di
ogni fondamento ogni presa di posizione del tipo sopra precisato.
Da un punto di vista legislativo comunitario infatti le cose si stanno
evolvendo da quasi un trentennio: le direttiva 77/249/CEE, la 89/48/CEE e la
più recente 98/5/CE hanno pesantemente modificato il quadro globale: siamo
arrivati, aiutati da una trasformazione socio-economica non indifferente, ad
un mercato legale comunitario dove un avvocato si troverà sempre più spesso
a dover affrontare una concorrenza di livello europeo se non addirittura
internazionale nel più ampio senso.
I principii della libera prestazione dei servizi e del diritto di stabilimento
riconosciuti dal trattato CE alle professioni autonome e le direttive d’altra
parte che hanno fatto sì che tali principi trovassero la più ampia e
indiscriminata applicazione, hanno consentito agli avvocati di estendere di
gran lunga il bacino di utenza.
Alle radici del radicale mutamento di prospettiva e di visione dell’intero
assetto si possono prendere in considerazione due circostanze che hanno
influito in maniera determinante nel dimostrare l’inadeguatezza dei precedenti
assetti.
Da una parte abbiamo il Trattato di Roma nell’ambito del quale viene
assicurata la libera circolazione di persone all’interno del mercato comune e
che ha previsto per coloro che non svolgono attività salariate ( i liberi
professionisti quindi e gli avvocati per quanto ci riguarda ) la possibilità di
stabilirsi e di prestare i propri servizi nel territorio di uno stato membro
differente da quello di appartenenza. Su questa base numerosi sono stati gli
interventi della Corte di Giustizia per rimuovere gli ostacoli normativi che gli
Stati membri avevano frapposto alla libera circolazione delle persone.
Dall’altra invece dobbiamo tenere conto dello sviluppo di un concetto
d’”impresa” più ampia di quella che emerge dal codice civile e capace di
sottoporre l’attività dei liberi professionisti, e quindi degli avvocati come dei
loro organismi rappresentativi, alle regole poste dalla disciplina comunitaria
della concorrenza.
Ma la sfida va ben al di là del contesto europeo: se il General Agreement on
Trade in Services ( GATS ) di cui ci occuperemo nel corso della trattazione
troverà ampia e completa applicazione non tarderà molto il giorno in cui i
servizi legali varcheranno realmente i confini delle UE per estendersi al resto
del mondo.
La prospettive e le ambizioni di questo accordo vanno ben al di là della
prestazione di servizi legali transfrontalieri: si vuole estendere a tutti i paesi
firmatari dell'accordo ( che sono poi i membri del WTO ) la possibilità di
usufruire in uno scambio reciproco, continuo e assolutamente privo di
restrizioni nazionali delle prestazioni dei liberi professionisti appartenenti a
qualsivoglia nazionalità.
E’ evidente quali e quanti benefici di ordine socio-economico questo nuovo
assetto potrà arrecare a tutti i paesi.
Prima di addentrarsi nell’esame di tutte queste questioni sarà utile fare un
breve excursus introduttivo sui vari modelli utilizzati per regolamentare la
pratica legale transfrontaliera.
Si possono fondamentalmente riconoscere due categorie di modelli.
La prima categoria è caratterizzata da modelli dove non vi è un singola
autorità centrale regolatrice con la potestà di determinare le condizioni in base
alle quali un avvocato può effettuare servizi legali in un altro stato.
Nonostante possano esistere casi in cui un singolo ente sia nelle condizioni di
determinare regole e condizioni per la pratica transfrontaliera in realtà è un
caso tutt’altro che comune; in tale situazione possiamo riconoscere quattro
modelli:
• Il modello individualista, o non-negoziale, secondo il quale è il singolo
stato che, agendo da solo, svincolato da qualsiasi entità sopranazionale,
determina quali saranno le regole che un legale proveniente da un altro
stato dovrà ottemperare per poter fornire servizi legali
1
.
• Il modello negoziale tra i governi di due paesi. Questo è quanto è accaduto
per esempio recentemente tra gli Stati Uniti ed il Giappone.
• Un terzo modello ricorre spesso nei casi in cui dei settori privati
rappresentativi di categorie professionali agendo da soli negoziano per
giungere a degli standards ai fini di facilitare la pratica legale
transfrontaliera. Questo è il caso dell’IBA (International Bar Association)
che da tempo tenta di definire le linee fondamentali per la consulenza
legale straniera. Ma possiamo anche ricordare il lavoro intrapreso dal
CCBE (Council of the Bars and Law Societies of the European Union)
con il Code of Conduct che mira a porre le basi per un comune codice
deontologico applicabile a tutti gli avvocati europei.
• Il quarto modello, definibile ibrido, ha come protagonisti i rappresentanti
di un settore privato ed un soggetto con poteri regolatori. L’accordo fra
l’ABA ( American Bar Association ) e il cosiddetto Brussels Bars ( nel
quale confluiscono gli ordini degli avvocati tedeschi ed olandesi) è un
esempio di questo quarto modello. L’ABA infatti ha poteri meramente
propositivi mentre il Brussels Bars determina le condizioni per l’iscrizione
degli avvocati che vogliano apparire di fronte alla Corte di Brussels.
1
Nello Stato di New York per fare un esempio è stato adottato un regolamento concernente il
“FLC” ( Foreign Legal Consultant ) che determina le condizioni che dovranno essere adempiute da
un avvocato straniero per esercitare in detto Stato. Ma questo non è un caso isolato; tutti gli Stati
americani individualmente emanano regolamenti simili.
La seconda categoria comprende invece tutte le situazioni in cui invece
un’autorità centrale regolatrice esiste. Questa autorità centrale è determinata
dall’incontro delle volontà di più paesi che delegano ad essa la responsabilità
per la regolamentazione di determinati settori. Per quanto qui rileva, ai fini del
nostro discorso, questa autorità è responsabile per la determinazione delle
norme regolanti gli spostamenti e la prestazione dei servizi legali
transfrontalieri.
I due approcci che sono stati seguiti sono definibili come “modello
legislativo” e “delegazione legislativa”. I due modelli non sono limpidamente
definiti ma tornano utili per avere una visione d’insieme delle soluzioni
adottate.
Il primo modello è riscontrabile nel sistema delineato dal Trattato UE: i paesi
membri hanno affidato ad un’ autorità centrale, priva di nazionalità, la
determinazione delle regole per determinate materie di comune interesse che,
nel caso dei servizi legali interni alla Comunità, ha promulgato una serie di
atti vincolanti gli Stati membri.
Il secondo modello invece prevede che venga creato un’ente in grado di
determinare gli standards legislativi, le guide linea a cui attenersi,
governanti il settore dei servizi legali. Poi interverrà eventualmente un
cosiddetto working party per la determinazione delle specifiche regole da
applicare nei campi più disparati della pratica legale. Anche se il working
party potrebbe anche non avere un potere autoritativo definitivo la sua
importanza non viene meno date le indicazioni o i suggerimenti che possono
essere date all’Autorità relegatrice che comunque non ne rimane mai
vincolata.
Questo ultimo modello è riscontrabile nel già citato GATS oppure nel
NAFTA ( North American Free Trade Agreement ) che annovera come paesi
segnatari Stati Uniti, Messico e Canada.
Capitolo I
Il Trattato CE e le libere professioni: aspetti introduttivi.
1.1 Le libere professioni secondo l’art. 50 del Trattato: problemi di
definizione.
Il Trattato che istituisce la Comunità Europea inserisce le libere professioni
intellettuali tra i servizi. L’articolo 50 infatti definisce i servizi come: « le
prestazioni fornite normalmente dietro retribuzione, in quanto non siano
regolate dalle disposizioni relative alla libera circolazione delle merci, dei
capitali e delle persone » comprendendovi esplicitamente alla lettera d) le
«attività delle libere professioni».
Tuttavia non viene detto quali siano queste libere professioni né gli Stati
membri ne hanno mai dato definizioni positive ed anche se alcuni paesi
membri, come Regno Unito, Francia o Lussemburgo hanno fornito definizioni
fiscali questi sono stati per lo più tentativi pragmatici sistematici ideati per
settori specifici di riferimento.
L’avvocato generale Jacobs nella causa Pavlov
2
ha indicato come criteri di
massima per la delimitazione del concetto di “professione liberale” una serie
di criteri per lo più di natura empirica, e fa riferimento a medici, avvocati,
architetti o professioni simili. Il punto è che la natura dei servizi prestati non
solo è differente tra le varie categorie professionali ma anche all’interno di
una categoria diversi sono i tipi di servizi che possono essere prestati ( i
chirurghi e gli psichiatri ad esempio offrono servizi differenti pur
appartenendo entrambi alla medesima categoria professionale ).
2
CGCE, Conclusioni dell’avvocato generale Jacobs del 23 Marzo 2000, Pavlov, cause riunite C-
180/98 e C-184/98, raccolta pp. 1-6451
E la constatazione inoltre che in prospettiva comparatistica le medesime
professioni possono avere nei vari paesi di riferimento iter formativi e tipi di
prestazioni differenti rendono difficile dare una definizione comunemente
accettata di “libera professione”.
Le direttive comunitarie d’altro canto non hanno aiutato nella individuazione
di un concetto comunitario di libera professione. Queste solitamente invece
preferiscono utilizzare le definizioni più oggettive di professioni
regolamentate, professioni non regolamentate, attività professionale
regolamentata e attività professionale non regolamentata.
La professione regolamentata viene definita come l’attività o insieme di
attività professionali regolamentate che costituiscono questa professione in
almeno uno Stato membro. L’attività professionale regolamentata è quella
attività professionale il cui accesso in uno Stato sia subordinato al possesso di
un diploma.
Per attività professionale regolamentata si intende quella attività professionale
esercitata dai membri di un’associazione o organizzazione che oltre allo scopo
di mantenere alto il livello nel settore in questione è oggetto di
riconoscimento specifico da parte dello Stato membro. Inoltre tale
associazione o organizzazione rilascia ai suoi membri un diploma oltre a
pretendere da loro il rispetto di un certo codice deontologico e a conferire agli
stessi il diritto ad un titolo o la possibilità di beneficiare di uno status
corrispondente a tale diploma.
L’attività professionale non regolamentata è tale quando, e qui ci viene
incontro la sentenza sul caso Aranitis
3
, nessuna disposizione di legge o
amministrativa regoli nello Stato membro l’accesso alla professione , il suo
esercizio o una delle sue modalità di esercizio, anche se l’unica formazione
che vi conduca sia un ciclo di studi di almeno quattro anni e mezzo,
sanzionato da un diploma e, di conseguenza, soltanto i titolari di tale diploma
3
CGCE, Sentenza del 1° Febbraio 1996, causa C-164/94, racc. pp. I-0135.
di studi superiori si presentino, di norma, sul mercato del lavoro e esercitino
in detto stato tale professione.
La Corte di giustizia inoltre ha inserito l’attività dei liberi professionisti tra
l’attività d’impresa: è giurisprudenza pacifica che la nozione d’impresa
abbraccia qualsiasi entità che eserciti un’attività economica, a prescindere dal
suo status giuridico. Quindi se attività economica è da intendersi come
l’offerta di beni e servizi in un determinato mercato
4
allora l’attività dei liberi
professionisti avrà natura economica. Questi infatti offrono, contro
retribuzione, servizi di cui si assumono i rischi finanziari connessi con
l’esercizio di tale attività. Perciò il fatto che tale attività sia di natura
intellettuale non la sottrae minimamente dalla sua dominante natura
imprenditoriale.
Impresa e attività economica vengono senza dubbio sempre intese in senso
piuttosto lato; sono in ultima analisi conditio sine qua non per stabilire se
l’attività di un ente o di un’autorità amministrativa sia di carattere
commerciale o pubblico. La valutazione in merito a questo punto viene
effettuata indipendentemente dal soggetto che esercita tale attività e viene
infatti affermato
5
:« lo Stato può agire vuoi esercitando il potere d’imperio,
vuoi svolgendo attività economiche di natura industriale o commerciale che
consistono nell’offrire beni e servizi sul mercato » anche se « per poter fare
detta distinzione ( tra impresa commerciale o pubblica N.d.T. ) è quindi
necessario di volta in volta esaminare le attività svolte dallo Stato e
determinare a quale categoria esse appartengano ».
Nella stessa causa l’avvocato Lenz ha rilevato che :« la nozione d’”impresa”
deve manifestamente essere interpretata secondo un criterio funzionale e
quindi si applica senz’altro anche alle persone fisiche, purché esercitino
un’attività indipendente». Ne consegue che l’attività economica consiste
4
CGCE, Sentenza del 16 Giugno 1987, causa C-118/85, Commissione/Italia, racc. p. 2599, punto
7.
5
id.
nell’offerta sul mercato di beni e servizi compresi quelli offerti dai liberi
professionisti.
C’è ovviamente anche chi dubita della natura imprenditoriale dell’attività
svolta dai professionisti intellettuali ed i motivi che stanno alla base di tale
presa di posizione sono molti. Innanzitutto si sostiene che i liberi
professionisti possono prestare i loro servizi solo se autorizzati e se sono
soddisfatte determinate condizioni. Poi il Trattato dal canto suo distingue tra
lavoratore autonomo ed impresa come tra attività dipendente o meno ma non
è desumibile se un’attività non subordinata costituisca in sé e per sé attività
imprenditoriale.
Per quanto concerne poi l’attività legale si sostiene che essenzialmente gli
avvocati svolgono la funzione di rappresentanza delle parti in giudizio;
attività che è garantita in primo luogo dalla Costituzione italiana ( art. 24 ) e
poi da altre disposizioni della Convenzione Europea di salvaguardia dei diritti
dell’uomo ( artt. 5 e 6 ) e dalla Carta Europea dei diritti fondamentali ( artt.
48, 49 e 50 ). Inoltre la necessità che in molti paesi l’accesso alla professione
avvenga seguendo un preciso iter formativo predisposto dalla legge e che
l’avvocato sia tenuto ad attenersi ad un determinato codice deontologico
fanno della professione forense qualcosa che assomiglia molto poco alla pura
attività imprenditoriale.
Se si estendesse anche agli avvocati il concetto di impresa , e grande e
giustificato è l’interesse da parte degli Stati che la loro attività venga svolta in
modo regolare, allora potrebbero essere considerati soggetti svolgenti un
servizio di interesse economico generale.
E’ tuttavia da notare che anche se è vero che l’avvocato svolge un servizio di
pubblica necessità dall’altro la sua attività viene remunerata e, come già
abbiamo accennato, la sua è un’attività in cui egli personalmente si assume il
rischio della gestione economica del proprio studio. Inoltre tutto questo
avviene in un regime di competenza sul mercato con altri professionisti
esercenti la stessa attività.
La Direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle
transazioni commerciali in un certo senso risolve questo problema. Difatti
all’art. 2 viene definita “impresa”: « ogni soggetto esercente un'attività
economica organizzata o una libera professione, anche se svolta da una sola
persona», ma allo stesso tempo viene specificato: « il fatto che le professioni
liberali ricadano nell’ambito di applicazione di questa direttiva non comporta
per gli Stati membri l’obbligo di trattarle come imprese o attività commerciali
per fini diversi da quelli della presente direttiva».
Anche se vi sarebbe la tentazione di prendere quest’ultima affermazione per
quella definitiva una valutazione delle tendenze legislative e giurisprudenziali
ci porta ad affermare che vi è una generale tendenza dell’ordinamento
comunitario ad assimilare le libere professioni alle imprese.
1.2 I caratteri generali della professione forense secondo il diritto
comunitario.
Prima di analizzare le tappe fondamentali del processo della progressiva
liberalizzazione della professione forense è opportuno fare alcune
considerazioni generali.
Nel Trattato di Roma è difficile trovare un gruppo di norme valide
unicamente per le professioni liberali, come d’altra parte è estremamente
difficile individuare una nozione comunemente accettata di “libera
professione”. In sede di elaborazione del Trattato si è preferito ricondurre la
relativa disciplina all’interno delle disposizioni applicabili al lavoro
autonomo.
Nell’ambito della generale distinzione di cui al Titolo III ( Libera
circolazione delle persone dei servizi e dei capitali ) tra attività salariate e
attività non salariate – cioè autonome – che emerge dai capi 1 ( i lavoratori )
da una parte e dai capi 2 e 3 ( rispettivamente il diritto di stabilimento e i
servizi) dall’altra è proprio in questi ultimi due capi che si rivengono i principi
in materia di libere professioni
6
e avevamo fra l’altro già visto l’art. 50 per il
quale la nozione di “servizio” si estende anche alle attività delle libere
professioni.
La finalità assunta dalle istituzioni comunitarie di limare il più possibile le
differenze esistenti tra i vari Stati nella regolamentazione giuridica delle varie
professioni al fine di favorire e dare massimo sviluppo a quel principio
cardine, di cui si discuterà più ampiamente oltre, quale è il diritto di
stabilimento ha fatto sì che il Trattato prevedesse l’adozione entro la scadenza
del periodo transitorio di « direttive tese al coordinamento delle disposizioni
legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri relative
all’accesso alle attività non salariate e all’esercizio di queste ».
In parte, e bisogna riconoscerlo nonostante tutti i dubbi legittimi che possono
sorgere ad una disamina del materiale legislativo a tutt’oggi esistente, questo
obiettivo è stato raggiunto ma forse la sua completa attuazione necessiterà di
molto più tempo. In particolare questo varrà per la professione forense che è
nota per essere particolarmente attaccata alle tradizioni locali; non che questo
desti scalpore ma certamente comporta maggiori difformità per gli Stati che
sulla questione delle omogeneizzazione della formazione professionale hanno
mostrato molte resistenze.
L’art. 43 del Trattato da parte sua è chiaro nello stabilire che la libertà di
stabilimento comporterà l’accesso alle attività professionali: « alle condizioni
6
Per quanto attiene la professione d’avvocato in realtà la direttiva 98/5 all’art. 8 permette
l’esercizio di un rapporto di lavoro subordinato « qualora lo stato membro ospitante lo consenta
agli avvocati iscritti con il titolo professionale che esso rilascia » indipendentemente dalla qualifica
che avessero nello Stato d’origine.
definite dalla legislazione del Paese di stabilimento nei confronti dei propri
cittadini». Se si fossero creati i presupporti comuni per questo accesso alla
professione è facile che alla fine sarebbe stato elaborato una sorta di
“euroavvocato”
7
, un soggetto che grazie alla sostanziale uniformità regolante
la formazione professionale avrebbe potuto esercitare la professione nel
territorio comunitario senza limiti.
Così non è purtroppo e le direttive comunitarie, in particolar modo la 89/48 e
la 98/5 su cui ci soffermeremo, non aiutano molto in questo senso: pur
costituendo un notevole passo in avanti nell’attuazione del diritto di
stabilimento degli avvocati non incidono sui sistemi locali di formazione
professionale.
E, a titolo critico, possiamo affermare che la direttiva sopra citata, la 89/48,
sul reciproco riconoscimento dei diplomi a ben vedere non vuole altro che
confermare la settorialità del sistema e l’attuale mancanza di volontà politica
nell’attuazione di un sistema di armonizzazione più ampio e completo.
Allo stesso modo, e qui se non altro bisogna rendere merito alla coerenza del
legislatore europeo, la direttiva 98/5 ha cura nell’evidenziare che l’atto
comunitario non lede : « in alcun modo la disciplina nazionale relativa
all’accesso alla professione di avvocato ed al suo esercizio con il titolo
professionale dello Stato membro ospitante ».
Dati questi elementi e tenendo ben presente che a livello comunitario non
esiste una definizione di avvocato né di un insieme di norme sull’ordinamento
professionale forense comune a tutti gli Stati membri, possiamo tuttavia
individuare alcune caratteristiche della professione forense che si possono
trarre dalle varie norme comunitarie.
• La professione forense di norma presuppone lo svolgimento di
un’attività non salariata. E questo è possibile dedurlo
fondamentalmente dal già richiamato art. 43 del Trattato.
7
Viciconte G. (a cura di ), L’Avvocato e l’Europa, Milano, Giuffré, 1999.
• In secondo luogo ai sensi della direttiva 89/48 essa costituisce una
professione “regolamentata”, ossia, a norma dell’art.1, « un’attività
professionale per la quale l’accesso alla medesima o una delle modalità
di esercizio dell’attività in uno Stato membro sono subordinati,
direttamente o indirettamente mediante disposizioni legislative,
regolamentari o amministrative, al possesso di un diploma».
• E’ inoltre una professione, sempre secondo la direttiva 89/48, il cui
esercizio richiede una precisa conoscenza del diritto nazionale e la
consulenza e l’assistenza nelle materie del diritto nazionale ne sono un
elemento essenziale.
• Infine la professione forense è assoggettata alle disposizioni del
Trattato relative al diritto di stabilimento e alla libera prestazione di
servizi, in quanto non presuppone, così come è previsto dall’art. 43 del
Trattato, alcuna partecipazione ai pubblici poteri.
Quest’ultimo punto poi è stato ulteriormente chiarito dalla sentenza Reyners,
una sentenza un po’ risalente nel tempo, ma di estrema importanza
8
.
Tutta questa ricostruzione ha valore sistematico, riepilogativo, ma bisognerà
tenere sempre ben presente il fatto che l’attenzione del legislatore comunitario
così come della giurisprudenza si concentrerà sempre non sulla professione in
sé e per sé quanto su specifiche attività legate ad essa. Questo perché è
l’approccio pragmaticamente più idoneo a far convivere insieme le esigenze
comunitarie e le differenti e talvolta contrastanti discipline dei singoli Stati.
Tutte queste valutazioni non devono far pensare che al momento esistano
insormontabili difficoltà nel creare una figura unica di avvocato e europeo.
Esiste al momento un notevole scambio di professionisti legali fra i vari paesi
europei e la legislazione sviluppata nell’ultimo trentennio e a cui abbiamo
8
Per un’analisi dei fatti e contenuti della sentenza Reyners vedi il paragrafo n. 2.3.1
brevemente accennato prima è stata estremamente efficace nel migliorare la
mobilità del professionista legale.
Nel nostro paese la consulenza legale svolta da professionisti non italiani non
è vastissima ma di una certa rilevanza e questo discorso vale particolarmente
per gli avvocati provenienti da un sistema giuridico simile al nostro.
Nel caso degli avvocati di common law ovviamente il discorso cambia e
sostanzialmente, considerando il loro iter formativo diverso, ma è proprio
nel far avvicinare sistemi giuridici differenti che la legislazione europea è
stata più efficace. Le considerazioni tecniche di merito poi possono essere
numerose, a partire dalle eventuali competenze tecniche degli avvocati
esterni, ma ciò che conta è che si sono fatti i veri primi passi verso la figura
professionale legale che veramente in un futuro probabilmente potrà essere
denominata “euroavvocato”.