5
Le censure nella loro globalità, possono essere ricondotte a
ragioni sia d’ordine etico, riproposte nel tempo con una certa
omogenea continuità, sia di natura giuridica, pur mutevoli in
ragione delle trasformazioni che hanno investito l’ordinamento.
Per ciò che attiene alle prime, il rilevato, più frequente ricorso
alla norma per ipotesi di collaborazione di “confidenti di
professione” ha indotto ad affermare che questi ne fossero i reali
beneficiari, considerazione ritenuta sufficiente per aborrire uno
strumento fruito, per il tramite del silenzio opposto
dall'investigatore, da individui abietti, in uno delinquenti e
delatori, “a Dio spiacenti e a li nemici sui”
1
.
Non può tacersi al riguardo, che nel formulare tali
valutazioni si sia verosimilmente trascurato di soffermare
l’attenzione su due parametri, invero notevoli, afferenti, da un
lato, alla pertinenza dell’indagine penale allo stesso ecosistema in
cui, pur opposto ontologicamente e finalisticamente, si muove il
criminale, e, dall’altro, alla congruità dello strumento rispetto allo
scopo perseguito.
Il primo rilievo impedisce di condividere argomentazioni
che sono minate dal malcelato intento di separare con stagne
compartimentazioni entità soggettive, ripeto diverse, che invece
interagiscono costantemente, in una prospettiva d’insieme che non
consente all’operatore di polizia di sottrarsi a contatti,
quand’anche spiacevoli, con criminali, la dove i doveri
1
Oliva, Aspetti giuridici e pratici dei rapporti degli organi di polizia con gli informatori, in Rivista di polizia
del 1975 pag.3.
6
professionali, strumentali alle finalità di giustizia, contemplano
anche siffatte frequentazioni.
Non pare, infatti, possibile condurre una valida azione
investigativa, e siamo alla seconda osservazione, senza un
adeguato supporto informativo che, spesso, può essere acquisito
solo con proiezioni nell’ambiente che si intende penetrare, da
realizzarsi per il tramite dell’infiltrazione di propri agenti,
ovvero, appunto, della collaborazione di chi è già interno o almeno
vicino al sistema. Ciò è ancora più vero là dove l’attività
informativa sia volta a penetrare realtà delinquenziali fortemente
compartimentate e operanti in contesti per i quali le pretese
antistatuali del crimine, il tessuto sociale subisce un’essenziale,
costante azione intimidatrice tale da ridurre ulteriormente la
possibilità di conoscenza dei fatti per il tramite della
collaborazione di terzi. A tal proposito, a titolo d’esempio, si
riporta l’art.15 del Disegno di Legge n.1509 del 12 gennaio 1989
che suggerisce l’introduzione, nell’ambito della Legge 22 dicembre
1975, n.689, di un articolo 84 bis (acquisto simulato di droga) di
estremo interesse in una prospettiva di perseguita
funzionalizzazione dei servizi investigativi in condizioni di
particolare impermeabilità delle dinamiche criminali
2
.
Non v’è dubbio, attesa l’irrinunziabilità delle informazioni,
che la seconda soluzione presenti momenti di minore
problematicità, operativa e giuridica, non disgiunta
2
Scandone, Profili di novità in tema di segreto di Stato e segreto di polizia alla luce del nuovo codice di
procedura penale, in Rivista di polizia del 1989 pag.413 ss.
7
dall’opportunità di evitare, quando possibile, coinvolgimenti
diretti di organi istituzionali in circuiti criminali.
In conclusione meritano di essere citati due significativi
pareri il primo dell’antesignano della scienza strategica, il
secondo di un soldato piuttosto particolare. Sun-Tze, nel suo
“origini della strategia, arte della guerra” (databile intorno al 600
a.C.), affermava: << Non si può ottenere quella che viene chiamata
preconoscenza per mezzo degli spiriti o degli dei, né per
un’analogia con avvenimenti del passato, né attraverso calcoli e
deduzioni. Bisogna ottenerla frequentando uomini che conoscano la
situazione del nemico >>. Napoleone I dal canto suo, ha ribadito:
<< Credete a me: esaminando i risultati delle campagne militari, si
constata che né il coraggio della fanteria, né quello della
cavalleria o dell’artiglieria hanno deciso le sorti di tante battaglie,
quanto l’arma maledetta ed invisibile delle spie >>.
8
1.2 LA DISCIPLINA DEL SEGRETO DI POLIZIA NEI
CODICI PREVIGENTI.
Preliminarmente è opportuno accennare all’origine e
all’evoluzione storica della disposizione in modo tale da
comprendere meglio il fondamento giuridico che la giustifica e al
modo in cui si inquadra nella vigente normativa sull’esame
testimoniale
3
.
Fu l’assenza di un’apposita norma a determinare, quando era
in vigore il codice del 1865, i primi contrasti: una parte della
giurisprudenza, argomentando ex art.288 che prevedeva la facoltà
di astenersi dal testimoniare per segreto professionale o per
segreto d’ufficio, riteneva che il funzionario della polizia
giudiziaria potesse deporre sulle circostanze apprese dai confidenti
senza l’obbligo di indicare la fonte delle sue informazioni e senza
togliere valore probatorio alla testimonianza così resa. In
contrasto con tale orientamento, altre decisioni affermavano che
l’ufficiale di polizia giudiziaria, pur non essendo obbligato a
riferire i fatti confidati, o li riferiva, nel qual caso non poteva
astenersi dal declinare di chi fece la confidenza, oppure doveva
astenersi dal deporre. Proprio a proposito vi è un autorevole parere
del Carrara, il quale sosteneva: “che questo sistema infernale si
praticò in certi tempi dagli agenti della bassa polizia. Fu loro arte
3
Scandone, in, Rivista di Polizia del 1983, pag.413 ss.
9
comparire come testimoni in giustizia e deporre di sapere con
certezza che l’accusato era autore del delitto obiettandogli per
essersi ciò a loro narrato da persone di ottima fede che erano stati
testimoni di vista e partecipi del delitto medesimo; ma non potere
far palese il nome di quei fiduciari, né produrli per conseguenza
come testimoni. Con tale metodo gli agenti di polizia ebbero balia
per rovinare impunemente la riputazione di ogni onesto cittadino.
La giustizia non ha simpatia per le maschere e non si pasce di
tenebre”
4
. La dottrina concordava con quest’ultimo indirizzo
giurisprudenziale, rilevando fra l’altro che il segreto, con l’avere
per oggetto la circostanza rivelata, e non il fatto dalla rivelazione,
non poteva essere invocato per l’accessorio (la fonte) se non si
riteneva di avvalersene per il principale (la notizia rivelata),
altrimenti, non si sarebbe consentito al giudice il controllo sulla
verità delle deposizioni.
L'art. 246 comma 2° del codice del 1913 -stabilendo che "i
pubblici ufficiali non debbono esporre notizie raccolte da persone i
cui nomi non credono di manifestare al giudice"- risolse sul piano
legislativo le precedenti dispute, pur non andando esente da
ulteriori critiche: il fatto che il pubblico ufficiale fosse libero di
tacere non solo il nome del <<confidente>>, ma anche la notizia
rivelata, indusse ad affermare che in tal modo si lasciava il teste
<<arbitro>> di occultare le prove utili al processo e, quindi di
frapporre <<un ostacolo al retto funzionamento
dell'amministrazione della giustizia>> (Cass.29 ottobre 1920).
4
Carrara, Programma del corso di diritto criminale, parte generale, vol.II, 1907, pag.488
10
Nel codice Rocco del 1930 all'art.349 ult. comma, fu
riproposta sostanzialmente la disposizione del codice che lo
precedeva, apportandovi due modifiche di rilevante portata: l'una
sulla titolarità del diritto, riconosciuto solo agli ufficiali ed agenti
di polizia giudiziaria, <<gli unici che possono ritenersi
autorizzati, e nella necessità, di servirsi dell'opera dei
confidenti>>, l'altra sulla sanzione per l'inosservanza del disposto,
stabilita tassativamente nella forma della nullità evidentemente
relativa.
Quanto alla ratio di tale disposizione, è opportuno
premettere che -stante una certa identità di contenuto normativo
fra l'art. 349 ultimo comma del codice del 1930, l'art.246 ultimo
comma del 1913 e una delle interpretazioni data all'art.288 del
codice 1865- l'indagine presuppone necessariamente un accenno al
fondamento giuridico delle disposizioni abrogate. A tal proposito,
mentre i lavori preparatori del codice 1913
5
ed una parte della
dottrina parlavano di tutela del <<segreto di polizia>>,
riconducendolo al segreto d'ufficio e al segreto professionale, la
giurisprudenza ed un'altra parte della dottrina, con una visione più
realistica della questione, non nascondevano che la disposizione
intendeva sostanzialmente tutelare i c.d.<<confidenti>> della
5
Si legge nella Relazione ministeriale sul progetto del 1905 (pag.508), a commento del modificato art.445:
<<Non si tratta di decidere se si debba fare il nome del confidente, ma più precisamente se si debba deporre
sulla fede del confidente, di cui l'ufficiale di polizia giudiziaria non crede di fare il nome, e che, di
conseguenza, non può essere chiamato a testimoniare personalmente in giudizio. Ora, ciò è così contrario ai
principi fondamentali dell'oralità e della personalità della prova testimoniale e del contraddittorio nei giudizi,
che la risposta non può essere che una sola e negativa. E in conformità di questi principi, è stata dettata la
norma che si legge nell’art. 445, ecc., con la quale, mentre si rispettano i “segreti di polizia”, non obbligando i
suoi agenti a svelare il nome del confidente, non s’introduce nel giudizio una prova, la cui sorgente è ignota al
giudice e sottratta in tal modo al suo sindacato>>.
11
polizia, sia pure al " nobilissimo fine dell'amministrazione della
giustizia".
La Corte costituzionale, pur orientandosi a favore della
prima tesi, non ha potuto fare a meno di rilevare che l'esercizio
della pubblica funzione è resa più difficile per gli organi di polizia
giudiziaria " dal persistere di mentalità e fatti di costume" che non
inducono certo i cittadini a collaborare lealmente con la giustizia
(Corte cost. 21 novembre 1968).
Il fondamento giuridico della disposizione in esame va
distinto dal suo fondamento di fatto: sotto il primo aspetto non vi
è dubbio che il legislatore abbia inteso tutelare il <<segreto di
polizia>>, mentre, sotto il secondo profilo, non si può negare che
l'art.349 ult.comma, per ragioni di indole pratica e di costume,
intendeva tutelare chi è in possesso di notizie utili
all'accertamento della verità
6
. A questo riguardo, però, va
purtroppo osservato che la norma in questione, lungi
dall'incoraggiare i cittadini a fornire lealmente le notizie apprese,
serviva soltanto a tutelare i <<confidenti di professione>>, coloro
cioè che vivono ai margini della società e che spesso non sono i
migliori collaboratori per le indagini di polizia: è evidente, in
sostanza, che la disposizione non si adattava al sistema
democratico al quale si andava sempre più ispirando il nostro
processo penale.
6
Perchinunno, Limiti soggettivi della testimonianza penale, Milano 1972, pag.220.
12
Vieppiù non furono immediatamente abrogate disposizioni
che addirittura favorirono il proliferare di delatori professionali,
mediante fondi posti a disposizione degli organi di polizia per il
compenso a chi compiva indagini riservate, ad esempio vi era il
regio decreto n.1602 del 12 luglio 1923 che autorizzava il direttore
generale della pubblica sicurezza ad affidare incarichi speciali per
indagini riservate di pubblica sicurezza a persone estranee
all'amministrazione, determinando con criteri discrezionali la
misura dei relativi compensi. In proposito si osservò
immediatamente che i confidenti di professione - anche se in tal
caso non si poteva parlare di un vero e proprio vincolo
contrattuale, idoneo a fondare un diritto azionabile innanzi al
magistrato - venivano a trovarsi in una posizione di fatto analoga a
quella che sarebbe potuta scaturire da un rapporto di lavoro!.
Bisogna riconoscere che certe norme contrastavano con quelle
condizioni di "particolare elevatezza e di limpida lealtà",
indispensabili all'autorità giudiziaria per conseguire la massima
fiducia pubblica e il massimo prestigio.
Anche ad ammettere che l'art.349 ult.comma era giustificato
solo dall'intento di tutelare il segreto di polizia, bisognerà pure
accertare quale sia il fine che in tal modo si intendeva conseguire,
non essendo ipotizzabile la garanzia del segreto di polizia fine a se
stesso. All'uopo, l'indagine deve partire dalla considerazione che
l'attività di polizia giudiziaria coperta dal segreto è un'attività
che, attraverso la raccolta delle prove utili al processo, tende a
13
fornire al giudice i risultati degli accertamenti esperiti. E'
d'intuitiva evidenza che il segreto di polizia, essendo il mezzo per
raggiungere il fine della realizzazione della giustizia, dovrebbe
cedere di fronte a quest'ultimo quando ne venga in contrasto.
Nell’ipotesi in esame, invece, accadeva il contrario in quanto, non
potendo il giudice obbligare gli ufficiali e gli agenti di polizia
giudiziaria a rivelare i nomi dei confidenti si dava prevalenza al
mezzo (segreto di polizia) rispetto al fine (realizzazione della
giustizia.
In tal modo l'ultimo comma dell'art.349 si poneva in
contrasto con altre norme disciplinanti il processo penale, in
particolare con l'art.219 dello stesso codice che, tra le funzioni
della polizia giudiziaria, includeva quella di assicurare le prove al
giudice. La dissonanza è ancora più evidente se si osserva che,
mentre non mancavano le ipotesi in cui il giudice era tenuto al
segreto rispetto alla polizia giudiziaria, nel caso in esame si
verificava l'abnormità di un segreto degli organi di polizia
giudiziaria rispetto al giudice.
14
1.3 I LAVORI PREPARATORI DELLA COMMISSIONE
MINISTERIALE NELLA RELAZIONE AL PROGETTO
PRELIMINARE DEL NUOVO CODICE
Le riserve di carattere giuridico, maturate soprattutto dopo
l’entrate in vigore della Costituzione del 1948, rilevano l’asserita
confligenza della norma sia col principio della dipendenza della
polizia giudiziaria dall’Autorità Giudiziaria, alla luce della quale
la prerogativa in argomento era considerata un'inaccettabile
deroga, sia col principio di uguaglianza, che si assume violato per
la mancata estensione dell’esenzione alle altre categorie di
soggetti comunque obbligati a riferire all’Autorità Giudiziaria
notizie di reato.
La Corte Costituzionale, investita di entrambe le censure, ha
invece affermato la piena legittimità della norma: da un lato,
infatti, non emergerebbe alcun contrasto col rapporto di
dipendenza dall’A.G., giacchè la dinamica processuale presenta il
soggetto nella sua qualità di testimone e non già nella veste di
ufficiale o di agente di polizia giudiziaria; dall’altro la diversità
del trattamento non concreterebbe una discriminazione, essendo
determinata da obiettive ragioni inerenti alla pubblica funzione,
svolta in circostanze sempre più difficili.
Non è mancato neppure il rilievo del rischio che la norma
potesse tramutarsi in uno strumento a disposizione della P.G.per
pagare il prezzo delle confidenze, omettendo di riferire i nomi di
15
persone che avrebbero potuto assumere, piuttosto che la veste di
testimoni, quella di imputati. La Corte, intervenendo anche su
questo punto, ha declinato la propria competenza, pertinendo
l’osservazione ad una patologia comportamentale che, come tale,
esula dall’esame di legittimità costituzionale.
Tra l’altro è il caso di ricordare che non vi è contrasto
neanche con gli articoli 3, 24 e 109 della Costituzione della
previsione che consente l’opposizione del segreto da parte di
singoli ufficiali o agenti di P.G. senza che sia prevista alcuna
forma di verifica delle esigenze complessive di realizzazione della
giustizia ad opera di altro organo superiore investito di
responsabilità a livello governativo. Un’impostazione come quella
prospettata è del tutto estranea all’attuale sistema di rapporti tra
l’A.G. e la P.G., laddove la seconda, collegata direttamente alla
prima sotto il profilo funzionale, deve addirittura osservare il
segreto istruttorio nei confronti dei propri superiori gerarchici
della struttura amministrativa in cui è inserita.
Tali timori, peraltro, hanno indotto la Commissione
governativa a studiare, per il nuovo codice, una soluzione che, pur
non privando la polizia giudiziaria di un utile e legittimo
strumento di investigazione, garantisse contro l’eventualità che la
facoltà di non rivelare i nomi degli informatori fosse usata per
portare di fatto all’impunità i complici. All’uopo, scartata la
soluzione di far conoscere al giudice i nomi degli informatori in
camera di consiglio, poiché avrebbe sottratto al contraddittorio
16
processuale ogni possibilità di controllo sulla loro fonte, si è
ricercato un meccanismo che tenesse conto dei rapporti che il
nuovo sistema processuale dovrebbe prefigurare fra pubblico
ministero e polizia giudiziaria, accentuando la dipendenza di
questa da quello.
Confermando quindi il divieto per il giudice di obbligare gli
ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria a rivelare i nomi di
propri informatori, si era previsto che le notizie da questi fornite
venissero comunicate in forma orale (e non scritta, per evitare che
ne rimanesse traccia) al pubblico ministero, cui era conferito il
potere di ordinare che gli fossero rivelati i nomi solo quando
avesse ritenuta necessaria la testimonianza.
7
La considerazione, però, di una certa macchinosità nel
sistema, in uno con la consapevolezza del sostanziale incrinamento
dell’istituto del segreto di polizia, hanno però indotto ad escludere
una simile disciplina, facendole preferire la formulazione già
conosciuta nel vecchio codice, tale, senza dubbio, da non impedire
al pubblico ministero di avvalersi ai fini delle indagini delle
notizie acquisite dalla polizia giudiziaria attraverso i suoi
informatori, ferma restando l’inutilizzabilità delle stesse da parte
del giudice, anche quello delle indagini preliminari, nei
provvedimenti richiestigli dall’organo dell’accusa
8
.
7
Relazione al progetto preliminare del nuovo codice di procedura penale, pag. 132.
8
Relazione al progetto preliminare del nuovo codice di procedura penale, pag. 133.