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SEZIONE  I 
 
LA DISCIPLINA VIGENTE NELL’ORDINAMENTO ITALIANO 
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CAPITOLO 1 
PROFILO STORICO 
 
 
SOMMARIO:   1. La codificazione civilistica del 1865 e del 1942. L’impostazione liberale. 
2. Dalla Costituzione repubblicana agli accordi interconfederali del 1947, 1950 e 1965. 3. La legge 
604 del 1966 e la nuova impostazione sociale. 4. Lo Statuto dei lavoratori e la legge 108 del 1990. 
 
 
 
1. LA CODIFICAZIONE CIVILISTICA DEL 1865 E DEL 1942. 
L’IMPOSTAZIONE LIBERALE.  
 
Il licenziamento è, probabilmente, l’istituto del diritto del lavoro che più 
d’ogni altro rappresenta il frutto della profonda mutazione che i principi del diritto 
contrattuale subirono a cagione dell’affermarsi della rivoluzione industriale. 
Il vecchio sistema europeo-continentale del diritto dei contratti, infatti, che 
ancor si reggeva sull’eredità dello ius privatum romano, dovette subire una 
progressiva quanto rapida evoluzione, in seguito alle pressanti esigenze della 
nascente economia industriale che, nella prima metà del XIX secolo, si diffuse 
gradualmente dalla Gran Bretagna all’intera Europa occidentale.  
Nell’ambito giuslavoristico, attraverso il progressivo affermarsi 
dell’istituto giuridico del licenziamento, si assiste parimenti all’evoluzione, dal 
 3
nucleo della vecchia locatio-conductio, attraverso la locatio operarum, di una 
nuova fattispecie di rapporto contrattuale tra due soggetti, rapporto conosciuto 
come contratto di lavoro (Arbeitsvertrag). 
La maggior frattura causata al vecchio sistema contrattualistico di matrice 
romana è infatti dovuta al concetto presto elaborato di recedibilità, il quale 
determina la crisi del radicato principio del mutuus dissensus quale unico 
strumento di risoluzione di un contratto a prestazioni sinallagmatiche. La 
recedibilità diviene l’attributo caratterizzante il “nuovo” contratto di lavoro che, 
ponendo fine al principio dell’intangibilità del vincolo che era stato proprio della 
vecchia locatio-conductio, si presenta quindi al nascente diritto del lavoro come 
fattispecie cui inerisce una facoltà di recesso della parte
1
. 
È nella riflessione del Barassi che, in Italia, questo conflitto tra tradizione 
giuridica e nuove istanze sociali ed economiche riceve l’analisi più approfondita. 
L’ordinamento giuridico dell’Italia post-unitaria infatti è saldamente ancorato al 
suddetto principio dell’intangibilità del vincolo obbligatorio, che può essere 
risolto unicamente sulla base del mutuo dissenso delle parti: l’art. 1123 del codice 
civile del 1865 stabilisce infatti che “i contratti non possono essere rivocati che 
per mutuo consenso o per cause autorizzate dalla legge”. Accanto a tale 
disposizione trova luogo la previsione dell’art. 1165, giusta la quale la risoluzione 
anticipata del contratto sinallagmatico, in assenza di mutuo dissenso, poteva 
essere provocata da una pronuncia giudiziale: “Il contratto non è sciolto di diritto; 
la parte, verso cui non fu eseguita l’obbligazione, ha la scelta di costringere l’altro 
                                                 
1
 Cfr. ZANGARI, Licenziamento, voce Enciclopedia del Diritto, Giuffrè, Milano, 1974 
 4
all’adempimento del contratto, quando sia possibile, o di domandarne lo 
scioglimento, oltre il risarcimento dei danni in ambedue i casi. La risoluzione del 
contratto deve domandarsi giudizialmente, e può essere concessa al convenuto 
una dilazione secondo le circostanze”. 
La quaestio iuris si pone allora nei termini del rinvenimento della 
possibilità di un recesso unilaterale, che si ponga come derogatorio  rispetto al 
diritto ordinario contrattuale che vorrebbe, come detto, lo scioglimento del 
vincolo mediante l’accordo dei soggetti che lo posero in essere. Scrive infatti il 
Barassi: “La questione grave e di grande importanza pratica è se il contratto di 
lavoro possa essere rivocato per la pura e semplice volontà di una delle parti; e 
se, in altre parole, possa essere ammesso il recesso unilaterale”
2
. Come si vede, 
la questione principe dell’epoca era esattamente antitetica a quella 
contemporanea, fondata com’è sull’esigenza di garantire il lavoratore da un 
licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo: la ratio della ricerca 
barassiana per contro si fondava sull’esigenza di difendere la libertà del lavoratore 
da un possibile vincolo sine die al datore di lavoro, non ritenendo il termine 
apponibile al contratto una garanzia sufficiente della medesima libertà del 
lavoratore. 
Ciò che manca alla ricerca barassiana è un’autentica indagine approfondita 
di quegli aspetti d’incertezza, per la verità già posti in evidenza al tempo, che 
discendevano dall’abbandono della garanzia giudiziale e ponevano il potere di 
recesso dal contratto nelle mani delle parti, per cui anche dell’imprenditore. In 
                                                 
2
 BARASSI, Il contratto di lavoro, II, Milano, 1917, p. 794 
 5
merito il Barassi, che delineava il nuovo contratto di lavoro sui due binari 
dell’elemento fiduciario e dell’elemento di durata, sosteneva che “i giusti motivi 
(ricavabili dalla relazione fiduciaria che unisce le parti) non sono necessari a 
fondare il recesso […] ma lo sono soltanto perché possa essere escluso il 
preavviso”
3
. 
Ad onor di completezza, è da dire che all’interno della dottrina erano sorte 
correnti che negavano la possibilità di giungere ad un potere di recesso 
discrezionale dal rapporto di lavoro, in assenza di esplicita previsione legislativa, 
non accogliendo peraltro la proposta avanzata dal Carnelutti dell’applicazione in 
via analogica dell’art. 1609 del c.c. del 1865, che prevedeva la disdetta volontaria 
della locazione cui non era stato apposto un termine
4
. Tali orientamenti erano 
tuttavia destinati a rimanere inascoltati dalla giurisprudenza probivirale, che 
applicava sistematicamente il potere di recesso. 
Nell’opera del Barassi emergono dunque le linee fondamentali che 
caratterizzeranno la disciplina del nuovo codice civile del 1942, e prima d’esso, 
della legge sul contratto d’impiego privato, il r.d.l. 13 novembre 1924, n. 1825. Se 
in quest’ultima norma trovano luogo i due tipi di licenziamento elaborati dalla 
dottrina e dalla giurisprudenza anche probivirale, ovvero il recesso ad nutum 
eventualmente cautelato dal preavviso ed il recesso giustificato da un lato, e 
dall’altro il recesso giustificato per “grave mancanza” della parte
5
, mancanza che 
                                                 
3
 BARASSI, Il contratto di lavoro, op. cit. 
4
 Cfr. CARNELUTTI, Del licenziamento nella locazione d’opere a tempo indeterminato, RDC, 1911, 
I, p. 389 
5
 Cfr. art. 9  r.d.l. 13 novembre 1924 n. 1825: “[…] il contratto di impiego a tempo indeterminato 
non può essere risolto da nessuna delle due parti senza previa disdetta e senza indennità […]” 
 6
richiama più direttamente il concetto dell’inadempimento o dell’inadempienza 
contrattuale
6
, il codice civile del 1942 accolse, generalizzandola, l’impostazione 
di matrice liberale della piena ed insindacabile facoltà delle parti di recedere ad 
nutum dal contratto di lavoro. Per la verità, la disposizione dell’art. 2118 c.c. 1942 
fu un vero e proprio punto di sintesi di posizioni dottrinali che, una volta aperta la 
strada dall’indagine barassiana verso il recesso unilaterale, dibatterono della 
natura di tale recesso. Se da un lato infatti il recesso viene inserito al di fuori della 
disciplina contrattuale, configurandosi conseguentemente come autonoma causa 
estintiva
7
, da altra parte della dottrina il recesso viene invece concepito come 
forma di espressione della voluntas dei contraenti, sì che essi possano dare una 
disciplina che sia completa al proprio rapporto contrattuale
8
. D’altro canto il 
susseguente art. 2119, rubricato “Recesso per giusta causa”, rifacendosi al 
concetto già accolto peraltro nel codice di commercio italiano nonché a quello 
presente in più codificazioni europee, mira a delineare una causa giustificativa 
onnicomprensiva, sì che vengano ricompresi sia atti di inadempimento e di altre 
species di violazione contrattuali, sia fatti o atti leciti estranei al regolamento del 
contratto ma “che sono tali da influire ugualmente in via notevole sullo 
svolgimento del rapporto, tanto da rivelarsi incompatibili col fatto della 
prosecuzione del rapporto, anche per il periodo del preavviso”
9
. D’altra parte, si 
affermò assai opportunamente che nel contratto di lavoro l’intuitus personae 
                                                 
6
 Cfr. ZANGARI, Licenziamento, op. cit., p. 646 
7
 Cfr. MANCINI, Il recesso unilaterale ed i rapporti di lavoro, vol. I – Individuazione della 
fattispecie. Il recesso ordinario, Giuffré, Milano, 1962 
8
 V. ex plurimis GABRIELLI, Vincolo contrattuale e recesso unilaterale, Milano, 1985 
9
 Cfr. ZANGARI, Licenziamento, op. cit., ibidem 
 7
accresce quella funzione di integrazione del contratto che il principio di buona 
fede ed il dovere di correttezza (v. artt. 1175 e 1375 c.c.) svolgono per ogni altro 
contratto
10
, aumentando così le ipotesi degli obblighi strumentali e dei doveri di 
protezione in capo alle parti
11
. L’art. 2119, in ultima analisi, esonera dal preavviso 
nonché dal versamento della relativa indennità sostitutiva il recedente, il quale 
identifichi a fondamento del proprio recesso un fatto la cui responsabilità egli 
affermi risiedere nella controparte, garantendo così, ed ecco l’autentica ratio 
frutto dell’ideologia liberale, non solo la fiduciarietà del contratto, ma soprattutto 
l’interesse alla temporaneità del vincolo. 
Il carattere ed al contempo il limite dell’impostazione liberale del codice 
del 1942 fu la considerazione assolutamente paritaria delle due parti, senza che vi 
fosse alcuna differenziazione votata ad una maggior tutela del contraente 
obiettivamente più debole, il lavoratore. In verità il combinato disposto degli artt. 
2118 e 2119 c.c. convive con la previsione dell’art. 2097, per il quale il contratto 
di lavoro, salvo che ciò sia dovuto alla «specialità» del rapporto, deve sempre 
presumersi a tempo indeterminato. Il favor legis così dimostrato al rapporto privo 
di termine avrebbe potuto divenire la radice sulla quale fondare una 
differenziazione per quanto in nuce delle due parti contrattuali, giusta la diversità 
delle conseguenze anzitutto sociali del recesso che ricadono sul lavoratore, spesso 
unica fonte di reddito del nucleo familiare, rispetto a quelle emergenti in capo al 
datore di lavoro. Per contro, la disposizione dell’art. 2097 rispondeva alla più 
                                                 
10
 Cfr. BIANCA, Diritto civile, vol. III Il contratto, Giuffrè, Milano, 1998, p. 471 ss. 
11
 Così GHEZZI, Il concetto di giusta causa nell’evoluzione della dottrina e della giurisprudenza, in 
Giusta causa e giustificati motivi nei licenziamenti individuali, Milano, 1967, p. 35 ss. 
 8
semplice esigenza di evitare che l’imprenditore, abusando di ripetuti contratti a 
termine, privasse di fatto il lavoratore del già riconosciuto diritto al trattamento di 
fine rapporto
12
. 
 
2. DALLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA AGLI ACCORDI 
INTERCONFEDERALI DEL 1947, 1950 E 1965.  
 
L’avvento della Repubblica ed il sovvertimento dei valori politici e 
conseguentemente giuridici che caratterizzarono l’instaurazione della nuova 
forma di Stato non poterono non influenzare il sistema giuslavoristico, 
storicamente uno dei principali ricettori dei mutamenti socioeconomici di un 
Paese. La nuova Repubblica si definisce nel primo articolo della sua Costituzione 
“fondata sul lavoro”, e la garanzia del diritto al lavoro veniva poi sancita dal 
successivo art. 4: questo largo impegno sociale di cui la carta costituzionale si 
faceva portatrice indusse gran parte della dottrina all’elaborazione del 
superamento della possibilità del licenziamento ad nutum così come prevista dal 
Codice Civile. Al di là della corrente dottrinaria
13
 che interpretava il rapporto di 
lavoro non già in termini di prestazioni corrispettive che nel rapporto ricevevano 
una mediazione, bensì in termini associativi, ovvero come espressione 
dell’interesse comune delle due parti che interagivano in reciproca collaborazione, 
la principale tesi (Mortati) si definì costituzionalistica in quanto muoveva 
                                                 
12
 Cfr. ZANGARI, Licenziamento, op. cit., p. 648 
13
 V. ex plurimis GRASSETTI, Relazione, in Tutela della libertà dei rapporti di lavoro (Atti del 
convegno di Torino, 20-21 novembre 1954), Milano, 1955 
 9
essenzialmente dagli artt. 41 co. 2 e soprattutto 4 del testo costituzionale. Se dalla 
prima disposizione
14
 si coglieva il carattere di socialità con cui l’economia ed il 
mondo del lavoro dovevano intendersi nel mutato quadro di valori della 
Repubblica, dalla garanzia del diritto al lavoro (art. 4 Cost.)
15
 si faceva derivare 
l’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro acquisito, 
interpretando così il licenziamento privo di giustificato motivo come abuso del 
diritto ad opera della parte recedente (datoriale). Quest’interpretazione così 
radicalmente progressista fu però largamente disattesa dalla dottrina con 
motivazioni varie, che nel loro complesso erano riconducibili all’argomentazione 
secondo la quale il diritto al lavoro sancito dall’art. 4 Cost. si sostanziava 
essenzialmente nel dovere dello Stato di creare quelle condizioni economiche e 
sociali che avrebbero dovuto favorire la piena occupazione, ma che lo sviluppo di 
tali condizioni erano comunque compatibile con la regola della libera recedibilità 
sancito dal Codice
16
. 
Il sistema vetero-liberale che informava il Codice Civile del ’42 ricevette 
un ulteriore scossone di fronte alle nuove esigenze nascenti nell’economia del 
Secondo Dopoguerra, esigenze che trovarono un primo accoglimento in una serie 
di Accordi Interconfederali che constava innanzitutto dell’Accordo del 1947, sulle 
procedure in tema di licenziamenti, e soprattutto dei due successivi Accordi del 
                                                 
14
 Art. 41 co. 2 Cost: “[L’iniziativa economica] non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale 
o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” 
15
 Art. 4. co. 1 Cost: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le 
condizioni che rendano effettivo questo diritto” 
16
 Così anche la Corte Costituzionale, sent. 45/65: “L’art. 4 Cost., come non garantisce a ciascun 
cittadino il diritto al conseguimento di un’occupazione, così non garantisce il diritto alla 
conservazione del lavoro, che nel primo dovrebbe trovare il suo logico necessario presupposto” 
 10
1950, i quali si occupavano rispettivamente di licenziamenti individuali e 
licenziamenti collettivi per riduzione di personale, e che furono successivamente 
sostituiti da due ulteriori accordi del 29 aprile e 5 maggio 1965. Come detto, su 
sollecitazioni provenienti dal mondo del lavoro, in tali accordi, in quelli del ’50 
prima e in quelli del ’65 poi, apparve per la prima volta l’enunciazione del 
principio del “giustificato motivo”, che doveva assurgere a limite del potere di 
parte datoriale di utilizzare in modo indiscriminato ed arbitrario la propria 
posizione di effettiva superiorità giuridica e politica nell’ambito del rapporto di 
lavoro, evitando così la comminazione di licenziamenti non fondati su motivi 
attinenti unicamente al comportamento del lavoratore ovvero ad autentiche 
esigenze aziendali. Secondo l’Accordo il lavoratore poteva impugnare innanzi ad 
un collegio di conciliazione il quale, ove riconoscesse l’effettiva carenza del 
giustificato motivo, poneva il datore di lavoro dinanzi alla scelta se reintegrare 
ovvero risarcire il lavoratore licenziato. 
Se è pur vero che, nel preambolo dell’accordo del ’65, si ebbe 
l’esplicitazione della nuova ideologia progressista giuridica, dandosi così 
finalmente seguito alle sempre più pressanti richieste nascenti e dalla dottrina e 
dallo stesso mondo del lavoro di una più autentica tutela del lavoratore, è da dire 
che gran parte di queste petizioni di principio rimasero inattuate nel testo 
dell’accordo. La mancanza di una definizione del concetto di giustificato motivo 
ed il rinvio sistematico alla “giusta causa” ex art. 2119 c.c. resero l’efficacia dei 
controlli in sede arbitrale alquanto sterile, anche per la contemporanea vigenza di 
una norma di diritto oggettivo, l’art. 2118, il quale sancisce la possibilità di 
 11
recesso ad nutum con il solo onere del preavviso. Infatti, la grande parte dei lodi si 
risolvevano in termini di conciliazione e ristorazione economica del licenziato. La 
condizione di sostanziale costrizione ad adire la via del combinato disposto degli 
artt. 2118 e 2119 c.c. rende di fatto meramente formale il controllo sull’esistenza 
del giustificato motivo, facendo in realtà sì che, sotto lo scudo della giusta causa e 
dell’elemento fiduciario sulla cui cessazione si fonda il recesso, passi ogni forma 
di licenziamento ad nutum
17
. 
Sul valore dei contenuti di questo corpus di Accordi Interconfederali, la 
dottrina ha profuso, soprattutto dopo l’immediatamente successiva emanazione 
della legge 604 e dello Statuto dei lavoratori, numerose e contrastanti opinioni. Se 
da un lato, parte di essa ha criticato aspramente la soluzione monca ed alla prova 
dei fatti inefficace di questi accordi, arrivando a definirli “una sconfitta storica dei 
sindacati”
18
, è da dire che una vera e serena valutazione può essere condotta 
unicamente inquadrando sotto un punto di vista storico e socio-economico tali 
Accordi. Di fronte ad un’economia in improvvisa crescita dopo lo sfascio 
conseguito allo sforzo bellico, ad un diritto oggettivo che come detto, poco o nullo 
spazio lasciava ad una limitazione del potere di licenziare in capo al datore di 
lavoro, il complesso degli Accordi del ’50 e del ’65 costituiscono una prima 
breccia apportata al muro dell’assoluta parità delle parti sancita dal codice civile, 
in seno al rapporto di lavoro. In aggiunta, l’inefficacia e le manchevolezze 
possono essere comprese se si pone mente alla natura di accordo, ovvero pattizia, 
                                                 
17
 Cfr. ZANGARI, Licenziamento, op. cit., p. 652 
18
 MANCINI, Art. 18, in Commentario del Codice Civile a cura di Scialoja e Branca, Libro Quinto – 
Del lavoro, suppl. Statuto dei diritti dei lavoratori, Bologna – Roma, 1972 
 12
di tali fonti, per quanto comunque tale fonte ricopra un rilievo notevole in ambito 
giuslavoristico. Queste fonti, in ultima analisi, costituiscono un importante punto 
di passaggio nella complessa vicenda che condurrà alla stagione della tutela del 
lavoratore illegittimamente licenziato
19
. 
 
3. LA LEGGE 15 LUGLIO 1966, N. 604 E LA NUOVA 
IMPOSTAZIONE SOCIALE 
 
L’autentico passo innanzi verso la tutela efficace contro il licenziamento 
ingiustificato avvenne con l’emanazione della legge 15 luglio 1966, n. 604, sulla 
disciplina dei “Licenziamenti individuali”, primo testo normativo a porre il limite 
della giusta causa o di un giustificato motivo al licenziamento, rovesciando così 
completamente l’ottica codicistica. 
Ad onor del vero, vi è stata parte della dottrina che ha giudicato  
sfavorevolmente la legge 604: se la più parte dei giudizi negativi si fondò sul 
ritenere che la legge in esame fosse solo un timido passo in avanti, con troppe 
concessioni a quella libertà di licenziamento per non deludere le aspettative e del 
mondo del lavoro e della corrente più progressista della dottrina, che invocava un 
brusco mutamente di rotta
20
, ad un esame più approfondito vi fu chi addusse a 
fondamento della propria critica l’aver la legge 604 inglobato nel sistema della 
stabilità obbligatoria anche il licenziamento intimato per giusta causa, ai sensi 
                                                 
19
 Cfr. PERA, Licenziamenti individuali, voce Enciclopedia Giuridica Treccani, vol. XIX, Istituto 
dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1988 
20
 Così MANCINI, Art. 18, in Commentario al Codice civile, op. cit., p. 244 
 13
dell’art. 2119 del Codice Civile, e l’aver quindi ricondotto tanto il “nuovo” 
giustificato motivo, quanto la “vecchia” giusta causa entro la medesima 
concezione di condiciones a cui subordinare l’esercizio del recesso ad nutum da 
parte del datore di lavoro. Tale tesi concludeva affermando che la nuova legge 
avrebbe costituito non già un momento di novità in seno all’evoluzione della 
normativa sul  licenziamento, bensì avrebbe forgiato null’altro che un nuovo 
“vestito” sotto cui ricondurre la formula della parità delle parti enunciata nel 
codice e così invisa a tanta parte della dottrina
21
. Ma invero questa tesi è 
eccessivamente drastica nei confronti di una legge che non solo non è meramente 
recettiva del contenuto degli accordi del ’65, bensì presenta significativi elementi 
di novità, tra i quali uno dei più rilevanti è sicuramente l’enunciazione del 
giustificato motivo quale limite al recesso ad nutum, che rimane quindi 
emarginato ai rarissimi casi di applicabilità tuttora esistenti
22
. 
In realtà, la legge 604 si fece portatrice di un mutamento che affondava le 
proprie radici in un nuovo modello di intendere lo stesso rapporto di lavoro. Se il 
codice civile era stato il campione della libera recedibilità delle parti, in ossequio 
ad una nominale quanto irrealistica parità delle parti stesse, la legge del ’66, 
perseguendo il solco già per la verità tracciato dagli Accordi del ’50 e del ’65, 
rovesciò quest’ottica, ponendosi come interesse da proteggere la meritevolezza 
della cagione del recesso, dimostrando così l’accoglimento di quelle istanze 
sociali che la Costituzione attribuisce al lavoro. Semmai, il limite di questa legge 
                                                 
21
 Cfr. MANCINI, Art. 18, in Commentario al Codice civile, op. cit., p. 251 
22
 Così PERA, Licenziamenti individuali, op. cit. 
 14
fu l’incompletezza, in quanto a tali premesse non seguivano idonee sanzioni. La 
possibilità in capo all’imprenditore in ultima analisi di optare per il pagamento 
dell’indennità, in luogo dell’effettiva reintegrazione nel posto di lavoro, 
dimostrava che il legislatore aveva altresì inteso proteggere l’interesse del 
recedente (leggi l’imprenditore) alla risoluzione del rapporto di lavoro, tanto che 
si giunse ad affermare che la legge aveva soltanto parzialmente modificato la 
situazione preesistente, avendo l’esperienza dei lodi arbitrali ampiamente 
dimostrato che ben rari erano i casi di licenziamento formalmente immotivato, e 
che peraltro la frequente insussistenza dei motivi addotti celavano una libertà 
ancora illimitata di recesso. 
Ma ciò non deve distogliere l’attenzione dalle profonde innovazioni 
apportate dalla legge in esame al diritto previgente: non solo il mutamento di 
prospettiva da cui si considera l’illegittimità del licenziamento (non più ex post 
come in precedenza, ove si individuavano limiti al potere di recesso in capo al 
datore in un momento successivo, mediante il sindacato susseguente all’atto di 
recesso, bensì ex ante, mediante una tipizzazione del giustificato motivo), ma 
soprattutto mediante la nuova configurazione del licenziamento. Con l’art. 1 della 
legge 604, infatti, il licenziamento passa dall’essere un negozio “astratto” a un 
negozio “causale”, poiché, se l’interesse protetto dalla disciplina codicistica era la 
temporaneità del vincolo ottenuta mediante la garanzia del nutus, ora tale interesse 
viene contemperato con quello, contrapposto, della conservazione del rapporto di 
lavoro in capo al lavoratore stesso
23
.  
                                                 
23
 Così ZANGARI, Licenziamento, op. cit., p. 654