6
svolte, non si è in grado di controllare in maniera pressoché perfetta i vari
input produttivi, e in particolare il fattore lavoro.
Con riferimento a quest’ultimo caso, nel corso del lavoro si avrà modo di
evidenziare come la condivisione dei valori e la definizione di codici etici
di comportamento favoriscono la gestione delle suddette attività, in
quanto la convergenza di obiettivi tra impresa e input consente di ridurre
i costi di monitoraggio e di coordinamento, grazie ad un possibile
superamento di problematiche riconducibili al modello principal/agent.
In un’impresa cooperativa, infatti, poiché i soci-imprenditori svolgono, il
più delle volte, una diretta attività lavorativa, non si rende necessario
adottare tutti quegli incentivi cui ricorrono gli imprenditori al fine di
orientare la produttività del lavoro verso i propri interessi.
La tendenziale sovrapposizione dei ruoli e la centralità della figura del
socio-lavoratore implica, inoltre, l’adozione di scelte gestionali del tutto
particolari; innanzitutto, la stessa natura giuridica dell’impresa
cooperativa lascia ampi spazi di interpretazione dato che, nonostante la
nuova disciplina Mirone – Castelli abbia formulato la c.d. cooperazione
costituzionalmente riconosciuta, la definizione di scopo mutualistico (che
si differenza dallo scopo lucrativo di un’impresa ordinaria), risulta ancora
abbastanza ambigua e controversa.
La scelta del legislatore di una definizione imprecisa di mutualità
consiste nella possibilità concessa alle strutture cooperative non solo di
perseguire un immediato vantaggio ai soci, ma aprirsi anche all’esterno
producendo utile a favore di terzi. Sulla base di questa considerazione
sarà possibile illustrare come la formulazione della mission aziendale
della moderna impresa cooperativa possa essere ricondotta alle tematiche
teoriche affrontate dalla più recente posizione mutualistica, la quale
propone di coniugare una gestione lucrativa nei confronti dei conferitori
dei vari input produttivi, con una gestione socio-mutualistica a favore dei
soci; ciò anche perché svolgere l’attività di impresa in pieno equilibrio
economico e finanziario favorisce il perseguimento della finalità
mutualistica.
La partecipazione dei soci alla gestione della cooperativa, in effetti,
costituisce il tratto peculiare di tale struttura e si spiega attraverso il
7
conseguimento di determinati vantaggi rappresentati, generalmente,
dall’ottenimento di beni, servizi e occasioni di lavoro con la minore spesa
e/o la massima retribuzione possibile; si tratta di vantaggi altrimenti non
ottenibili con un’azione individuale e diretta sul mercato, oppure, seppur
possibili, realizzabili in misura inferiore. Il diretto coinvolgimento dei
soci all’attività dell’impresa si concretizza, inoltre, nella realizzazione di
una gestione democratica, per la quale si individuano sia benefici che
costi.
Una simile gestione, infatti, consente ad ogni socio di esprimere le
proprie idee ed esplicare le proprie capacità, grazie alla valorizzazione
delle risorse umane; ciò dovrebbe garantire una migliore qualità delle
prestazioni, dato che i membri del gruppo lavorano in un ambiente
altamente motivante. Tuttavia, si è rilevato che la democraticità delle
decisioni potrebbe rendere lo stesso processo troppo lungo, con la
conseguenza che determinate scelte di business sarebbero sottovalutate o
addirittura non considerate. A tali problematiche economiche si
aggiungono quelle di natura finanziaria, sia dal lato del capitale di rischio
che per il capitale di terzi.
La gestione economico-lucrativa, pertanto, incontra molte difficoltà, e
rende spesso poco indicativi determinati parametri impiegati per una
valutazione complessiva dell’iniziativa. Ecco perché si propone di
integrare i tradizionali strumenti di controllo formali, utilizzati
nell’analisi di bilancio, con il calcolo di un nuovo indice (l’indice ROM)
che sintetizza l’insieme dei menzionati vantaggi conseguibili
dall’associato per i diversi ruoli svolti. I soci, infatti, non solo assumono
l’iniziativa imprenditoriale ma conferiscono anche i fattori specifici della
produzione, divenendo espressione di diversificate classi di interessi, in
quanto finanziatori, proprietari, lavoratori e, a volte, anche clienti.
Se difficile risulta raggiungere adeguate posizioni di efficienza
economica, l’impresa cooperativa costituisce una struttura più confacente
alle nuove esigenze emerse in tema di responsabilità ed efficienza sociale
delle imprese. La necessità di valutare l’impatto dell’azione
imprenditoriale sul benessere della collettività intesa in senso lato,
rappresenta, per tutte le imprese, atto indispensabile oltre che
8
formalmente espresso tramite la concretizzazione di attività di marketing
sociale e la redazione di un bilancio sociale. L’azione di un’impresa
cooperativa trova, in genere, il consenso dell’ambiente circostante, sia
per l’abitudine nel collaborare e coinvolgere i vari stakeholder, sia per i
benefici effetti realizzati che riguardano, tipicamente, situazioni di
riduzione della disoccupazione (cooperative di produzione e lavoro),
oltre che di ammortizzatore sociale per una maggiore stabilità di lavoro,
valorizzazione dell’ambiente di riferimento, ecc.
Sulla base di queste considerazioni si è, pertanto, cercato di analizzare,
nella seconda parte del lavoro, l’esistenza di elementi che potrebbero
giustificare un potenziale sviluppo della formula cooperativa nel
Mezzogiorno, al fine di risolvere le problematiche socio-economiche, le
quali rappresentano ancora oggi un obiettivo tutt’altro che raggiunto. La
presenza, nel Mezzogiorno, di risorse naturali ed umane particolarmente
floride potrebbe, infatti, costituire l’elemento portante per la costituzione
di un’impresa cooperativa dato che, da più parti, tale struttura è concepita
come istituzione a forte radicamento del territorio, nonché istituzione
volta alla “valorizzazione del capitale umano” e alla risoluzione di
problemi occupazionali.
Queste tematiche hanno dato lo spunto per avviare, come parte
conclusiva del lavoro, un’analisi approfondita sullo studio di una
cooperativa di produzione e lavoro, la GI ELLE Giustizia e Libertà. Si
tratta, infatti, di un’impresa cooperativa svolgente attività agricola che
tende a conciliare sia le possibilità offerte dal territorio di riferimento,
(ovvero la zona dell’agro-nocerino sarnese) rappresentate dalla tipicità ed
originalità di alcune produzioni ortofrutticole riprodotte con tecniche di
coltivazione biologica (ciò si traduce altresì ad una valorizzazione del
territorio, grazie alla tutela dell’ambiente circostante), sia le necessità dei
vari associati, interessati, innanzitutto, a garantirsi un posto di lavoro,
nonché ricercare tutte quelle condizioni attraverso le quali ottenere una
migliore retribuzione rispetto a quella realizzabile dal mercato,
compatibilmente, però, con le esigenze di sopravvivenza che, qualunque
impresa, compresa quella cooperativa, deve essere in grado di assicurare.
9
Capitolo 1
LE ORIGINI STORICO-ECONOMICHE
E LA CONCEZIONE MODERNA DELL’IMPRESA
COOPERATIVA.
1 Le origini storiche della cooperazione
1.1 La situazione in Europa
Una breve ma significativa analisi storica dell’ambiente economico e
sociale, in cui si è affermato il movimento cooperativo, si rende
necessaria per comprendere a pieno sia il ruolo effettivo che lo stesso ha
svolto in passato, sia la realtà della moderna impresa cooperativa.
Lo sviluppo di questo fenomeno risale all’epoca della “rivoluzione
industriale” intorno alla metà del XIX secolo in Inghilterra dove, grazie
all’introduzione di innovazioni tecnologiche e di moderni macchinari, si
registrò un rapido incremento della produttività agricola e manifatturiera
1
.
Il processo di industrializzazione, però, causò ingenti costi sociali; infatti,
i proprietari dei nuovi mezzi di produzione cacciarono dalle campagne
milioni di contadini che emigrarono verso le città industriali, creando così
un forte sovrappopolamento delle aree urbane. Inoltre, le nascenti
imprese industriali, se da un lato gettarono le basi di un imponente
sviluppo economico, dall’altro provocarono situazioni di forte disagio
sociale. Le misere condizioni di vita dei lavoratori, i bassi salari, lo
sfruttamento del lavoro minorile e femminile sono solo alcuni esempi del
degrado realizzato.
Tale situazione suscitò l’interesse di economisti e studiosi, che
affermavano l’esigenza di trovare una nuova solidarietà capace di
conciliare capitale e lavoro. Il primo sostenitore di questa tesi fu Robert
1
Leonardi A., (1986), Modernizzazione economica e cooperazione in Europa, in
“Rivista della Cooperazione”, n. 2, Istituto Luigi Luzzatti.
10
Owen, imprenditore tessile che si impegnò a migliorare le condizioni di
vita dei suoi operai introducendo piccole riforme sociali e creando la c.d.
“New Harmony”, una comunità nella quale i prodotti agricoli si sarebbero
distribuiti in proporzione al fabbisogno di ciascun membro.
Ma la nascita della vera cooperazione si ebbe nel 1844 per opera di
ventotto tessitori di Rochdale
2
(una cittadina del Lancashire), i c.d.
“Probi Pionieri”
3
, che aprirono uno spaccio cooperativo nel quale si
vendevano ai soci i beni di prima necessità e si ripartivano tra gli stessi
gli eventuali utili realizzati (principio del ristorno). L’esperienza di
Rochdale ebbe enorme successo, e nel 1863 fu creata la “Cooperative
Wholesale Society”, la quale riuniva 59 cooperative di consumo con ben
18.337 soci. Più tardi si svilupparono altre forme di cooperative (di
credito, di produzione, agricole, ecc.), ma il loro ruolo restò strumentale a
quella di consumo. Il diffondersi del movimento fu rilevante non solo dal
punto di vista commerciale, ma anche da quello culturale, contribuendo
così alla trasformazione sociale della popolazione inglese.
Estendendo l’analisi agli altri Paesi europei si può notare che, rispetto al
Regno Unito, il fenomeno in questione si diffuse in maniera meno
eclatante; le cause furono individuate negli aspri conflitti politici e nelle
continue lotte d’indipendenza, contrasti ormai superati in Gran Bretagna
che invece si presentava un paese politicamente unito.
Nonostante ciò, in Francia si svilupparono le prime ed importanti
cooperative di produzione: promotore delle stesse fu Charles Fourier
4
che, con le sue “comptoirs communaux” (casse comuni), aveva
l’obiettivo di fornire ai soci i mezzi di produzione necessari alla
realizzazione di determinati beni. Tuttavia, le vere e proprie cooperative
di produzione sono riconducibili agli “ateliers nationaux” che davano
2
Si veda Mazzotti G., (1996), in Società cooperative, edito da AGCI.
3
Per un ulteriore approfondimento si veda Holyoake G.J., (1953). Storia dei Probi
Pionieri di Rochdale. Citato in Mazzotti G., (1996), op. cit.
4
Charles Fourier studiò politica ed economia; famosa è l’opera “teoria dei quattro
movimenti” nella quale ipotizzava che la società poteva essere gestita come
un’organizzazione cooperativa, affinché si potesse affermare una vita libera nel rispetto
dei diritti umani. La società doveva essere ripartita in falangi di circa 1600 persone
riunite ognuna in un falanstero, gestito attraverso norme che favorivano l’occupazione ai
soggetti più meritevoli e l’eliminazione delle differenze sociali. Il progetto, però non
ebbe successo e Fourier continuò ad occuparsi dei suoi commerci.
Muzzioli G., (1999),
Riandando alle origini, in “Rivista della Cooperazione”, n. 2, Istituto Luigi Luzzatti.
11
lavoro a disoccupati impiegandoli in opere pubbliche. Verso la seconda
metà del XIX secolo in Francia si svilupparono anche le cooperative
agricole, che favorivano i soci nei processi di trasformazione e
commercializzazione dei prodotti. A sostegno di tali cooperative si
istituirono gli istituti di credito agrario preposti al finanziamento delle
suddette attività.
L’insorgere di questi istituti trova un primo sviluppo in Germania, dove
nacquero due forme di credito cooperativo: le “banche popolari” basate
sulla responsabilità solidale dei soci, e le “casse rurali” costituite su
iniziativa di Raiffesen
5
. Queste ultime, a differenza delle banche popolari,
finanziavano il credito a medio-lungo termine e contribuirono
enormemente alla repressione dell’usura nell’ambito della compravendita
del bestiame, acquistando lo stesso per i soci e diventandone proprietari
fino a quando il socio non avesse onorato il debito.
Le banche popolari, più orientate al breve termine, furono promosse da
un magistrato di orientamento liberale, Hermann Schultze-Delitzsch. La
prima cooperativa di credito sorse nel 1850 e nell’arco di una decina di
anni raggiunsero il numero di 111 banche popolari
6
. Queste erano
costituite tramite i conferimenti dei soci, consistenti nei mezzi necessari
all’attività d’impresa, nonché l’obbligo degli stessi di rispondere agli
impegni assunti limitatamente alla quota conferita. L’orientamento al
breve termine era incompatibile con le esigenze del credito agrario,
pertanto fu nominata una commissione per affrontare il problema. Fu
deciso, quindi, di costituire casse di risparmio per la piccola agricoltura,
società mutualistiche tra i contadini e associazioni per tutelare il bestiame
contro le malattie infettive.
Se la Germania può essere considerata la patria delle cooperative di
credito, in altri Paesi, come la Svizzera, presero piede una serie di
cooperative di consumo di stampo rochdaliano, oltre a quelle di
trasformazione di prodotti caseari, agricoli, latteari.
5
Muzzioli G., (1999), op. cit.
6
Sul tema si veda Mangili F., (1883), Il credito agrario. Citato in Muzzioli G., op.cit.
12
Si può affermare, quindi, che la cooperazione assumeva configurazioni
diverse secondo le singole realtà nazionali, ma con un unico orientamento
comune: migliorare le condizioni di vita di quell’ampia fascia della
popolazione collocata ai margini della società e che sentiva l’esigenza di
emergere e di migliorarsi.
1.2 La diffusione e lo sviluppo della cooperazione in Italia
Lo sviluppo del movimento cooperativo italiano presenta caratteristiche
del tutto particolari rispetto agli altri Paesi europei. In primo luogo, è
opportuno evidenziare il ritardo della sua diffusione, legato alle vicende
riguardanti l’unificazione politica, alla precaria situazione economico-
sociale, causata in primis da un altrettanto ritardato sviluppo industriale,
ed infine all’assenza di norme a tutela della cooperazione; in secondo
luogo, le origini del fenomeno si legano al c.d. “movimento associativo di
classe”
7
.
All’epoca dell’unificazione, l’Italia era ancora considerata un paese
prevalentemente agricolo; le prime industrie, nate in Lombardia ed in
Piemonte, realizzavano essenzialmente prodotti artigianali, pertanto l’uso
delle macchine era molto limitato; inoltre, anche lo sviluppo del
movimento operaio si caratterizzava per un certo grado di arretratezza
8
.
La prima cooperativa di consumo risale al 1854: situata a Torino e
promossa dall’“Associazione generale degli operai”, fu costituita per
fronteggiare gli effetti della carestia, attraverso la vendita di merci a
prezzo di costo. La prima cooperativa di produzione fu fondata ad Altare
(GE) su iniziativa di operai e vetrai e tra il biennio 1864-1866 furono
costituite diverse cooperative di consumo di tipo rochdaliano, quali
l’“Alleanza cooperativa” di Sampierdarena e l’unione cooperativa di
Milano.
7
Si veda Muzzioli, (1999), op. cit..
8
Per un ulteriore approfondimento si veda Degl’Innocenti M., (1977), Storia della
cooperazione in Italia 1866-1925, Editori Riuniti.
13
Un contributo notevole allo sviluppo della cooperazione fu dato dalle idee
di Mazzini; quest’ultimo, infatti, affrontò la “questione sociale” non solo
dal punto di vista politico, ma anche sul piano economico
9
. Egli riteneva
indispensabile la creazione di norme per agevolare il reperimento di
capitale attraverso risparmi fiscali, la creazione di banche di credito
cooperativo, azioni tutte orientate a contribuire alla diffusione di questo
fenomeno.
È nel decennio successivo al 1870 che si registra un ampio sviluppo delle
imprese cooperative italiane; tuttavia, si può osservare che la cooperativa
di consumo affrontava maggiori difficoltà di sviluppo rispetto alle altre
attività cooperativistiche. Una delle principali motivazioni riguardava la
modalità di vendita: vendendo a prezzo di costo, l’impresa non era in
grado di accumulare capitali sufficienti per fronteggiare crisi improvvise;
così cominciarono a diffondersi cooperative di consumo sul modello
inglese
10
, delle quali si ricorda in particolare quella di Como.
Un maggior sviluppo ebbe invece la cooperazione di credito sulla base
del modello Schulze Delitzsch. La prima cooperativa nacque a Lodi nel
1864 su iniziativa di Luzzatti, un giovane di orientamento liberale, a
testimonianza del fatto che della cooperazione si interessavano non solo i
democratici di ispirazione mazziniana. Diverso però era il punto di
osservazione: mentre Mazzini guardava la cooperazione principalmente
come mezzo per creare un nuovo assetto sociale, Luzzatti vedeva la stessa
come una forma d’impresa inserita nel contesto capitalistico con la
particolare differenza, rispetto alle imprese private, di poter crescere con
il solo risparmio dei soci.
Inoltre, in questi anni si rafforzava la consapevolezza dei lavoratori di
costituire forme cooperative per migliorare le proprie condizioni di vita,
combattere la disoccupazione e l’usura, fenomeno allora profondamente
radicato nella società dell’epoca. Importante, pertanto, fu lo sviluppo
delle cooperative di produzione e di lavoro, delle quali si ricorda la
cooperativa metallurgica di Sampierdarena, quella tipografica degli
operai di Milano, nonché la costituzione dell’Associazione generale
9
Zangheri R., (1978), Storia del movimento cooperativo in Italia, Einaudi Editore.
10
Il modello inglese di stampo rochdaliano prevedeva la vendita a prezzi di mercato e la
ripartizione fra i soci degli eventuali utili realizzati.
14
operai e braccianti di Ravenna impegnata nell’esecuzione di lavori
pubblici
11
.
Altre associazioni di questo tipo si costituirono tra i braccianti di lavoro
della Valle Padana; le cooperative bracciantili non richiedevano alti
investimenti e producevano su specifica richiesta di un committente,
contenendo in tal modo il rischio commerciale. Da una serie di rilevazioni
statistiche fu rilevato che tra il 1893-94 le cooperative di lavoro tra
braccianti regolarmente riconosciute erano 525 così ripartite: 125 in
Emilia, 87 nel Veneto, 76 in Lombardia, 44 in Toscana, 42 nel Lazio, 22
in Campania, 21 in Sicilia, 8 nelle Marche, 7 in Basilicata, 7 in Puglia, 6
in Umbria, 6 in Calabria, 2 in Sardegna e una in Abruzzo
12
.
La peculiarità del movimento cooperativo italiano si identificava nel
continuo appoggio da parte di uomini di diversi schieramenti politici. Due
erano le linee di tendenza dominanti: da un lato i repubblicani, radicali e
liberali diffondevano la c.d. “cooperazione neutrale”, consistente nel
sostegno allo sviluppo in senso corporativo in alternativa alla lotta di
classe; dall’altro lato i socialisti, che ritenevano la cooperazione
espressione dell’emancipazione dei lavoratori
13
.
La diffusione del movimento fu tale che culminò nella costituzione di una
federazione riconosciuta a livello nazionale, la ”Federazione fra le
cooperative italiane” che nel 1893 si sarebbe trasformata in “Lega
nazionale delle società cooperative italiane” (attuale LEGACOOP).
Inizialmente alla federazione aderirono 148 cooperative, principalmente
del settore del credito, del consumo e della produzione, collocate
nell’area centro-settentrionale del Paese; il primato spettava alla
Lombardia, seguita dall’Emilia considerata area emergente e la Toscana,
regione ad alta intensità cooperativa.
11
Alla creazione dell’Associazione contribuì enormemente l’influenza di Andrea Costa,
eletto alla Camera dei Deputati nel collegio di Ravenna.
12
Maic, Statistica delle società cooperative. Società cooperative di lavoro fra
braccianti, lavoratori ed affini al 31 dicembre 1894. Citato in Muzzioli, (1999), op. cit.
13
Sui rapporti tra il movimento cooperativo e il PSI in quegli anni, si veda
Degl’Innocenti M., (1988), Cooperazione e movimento socialista (1886-1900), a cura di
Il movimento cooperativo nella storia d’Europa, Autori vari, Franco Angeli Editore.
15
Ben presto, però, l’Emilia diventa la patria della cooperazione italiana
alla quale facevano ricorso non solo operai, bracciantili e artigiani, ma
anche imprenditori, piccoli proprietari terrieri convinti di doversi
associare autonomamente per raggiungere obiettivi comuni d’ordine
economico, sociale e politico. Ed è proprio questa concezione matura
della cooperazione che ha permesso alla regione un florido sviluppo, e
che rappresenta tutt’oggi un esempio da poter seguire per chi voglia
“cooperare per raggiungere determinate finalità e interessi”.
16
2 Il concetto economico della cooperazione
2.1 Alcune teorie economico-organizzative
La cooperazione trova fondamento non solo in una serie di vicende
storiche e politiche che ne hanno caratterizzato la nascita e lo sviluppo,
ma anche in una forte connotazione economica e soprattutto
organizzativa.
La teoria economica classica ha sempre considerato l’impresa cooperativa
come un’organizzazione inefficiente perché, in una sorta di meccanismo
di “selezione naturale darwiana”, emergerebbe l’impresa for profit
capace di realizzare un’allocazione delle risorse produttive in maniera più
efficiente
14
. Inoltre, la teoria neo-istituzionalista evidenzia che la struttura
dei diritti di proprietà dell’impresa cooperativa realizza la c.d.
“inefficienza tecnica”: mancando un capitalista titolare del surplus
realizzato, i lavoratori sarebbero incentivati ad adottare comportamenti
che limitano lo sforzo produttivo individuale.
Recenti verifiche empiriche
15
hanno però dimostrato come, a determinate
condizioni e sotto l’influenza di particolari elementi di natura “sociale”, è
possibile identificare l’esistenza di vantaggi comparati delle imprese
cooperative. Si verificherà, infatti, in che modo si possono ridurre i
fenomeni di free-rider, in termini di diminuzione di opportunismo
individuale a vantaggio della collettività, un problema che, negli ultimi
anni, affligge anche le imprese private. Inoltre, considerando la tipica
struttura organizzativa dell’impresa cooperativa, e utilizzando apposite
teorie a tal uopo formulate, si evidenzierà la possibilità di:
1) risolvere problemi di asimmetrie informative (in termini di adverse
selection e moral hazard);
2) ridurre i costi di transazione legati all’incompletezza dei contratti e
alla specificità delle risorse;
14
Pantaleoni, infatti, accusava le cooperative di trasformarsi in “organismi chiusi che
riservano a se medesimi i benefizi di cui sono fecondi”. Citato da Angeli F. (1992),
Cooperazione benessere e organizzazione economica, Franco Angeli Editore, pag.7.
15
Si tratta, in effetti, di dati di fonte Confcooperative e Legacoop relativi ognuno ad un
campione di imprese loro affiliate.
17
3) mitigare i problemi relativi alla separazione tra proprietà e controllo
(mentre nelle imprese capitalistiche il monitoraggio dei manager è
abbastanza costoso, l’organizzazione cooperativa internalizza i costi
di controllo e riduce la possibilità di comportamenti opportunistici);
4) assicurare una maggiore flessibilità in termini di capacità di risposta
ai mutamenti del mercato, date le limitate dimensioni di una
tradizionale impresa cooperativa.
Prima di sviluppare queste ultime tematiche, però, si rende necessario
esporre, in sintesi, il risultato del modello classico di Ward, per
comprendere in che termini possa essere spiegata l’inefficienza
economica delle imprese cooperative.
2.2 Dal modello di Ward alla teoria della desiderabilità sociale
Il modello neoclassico di Ward dimostra che, in regime di monopolio e in
ipotesi di simmetria informativa, l’impresa capitalista vince il confronto
sull’efficienza economica rispetto all’impresa cooperativa, valutando le
diverse funzioni obiettivo delle due forme organizzative che, per
l’impresa for profit, com’è noto, riguarda la massimizzazione del profitto,
mentre per l’impresa cooperativa concerne la massimizzazione del
“surplus per lavoratore”
16
.
16
Faccioli D., Scarpa C., (2000), Il vantaggio comparato delle imprese cooperative:
aspetti teorici, in Fiorentini G., Scarpa C., “Cooperative e mercato. Aspetti finanziari,
organizzativi e di strategie”, Carocci Editore.
È possibile verificare, in via analitica, il risultato del modello di Ward esplicitando le
rispettive funzioni obiettivo.
La funzione obiettivo dell’impresa capitalista è pari alla differenza tra i ricavi e i costi
totali:
∏ = RT-CT
I RT sono espressi in funzione dell’output realizzato, cioè R(Q).
I CT sono pari alla somma della remunerazione del fattore lavoro e quella del fattore
capitale:
CT= w L(Q) + r K(Q) L= n. lavoratori.
Il profitto per l’impresa capitalista è:
∏=R(Q)-w L(Q)-r K(Q)
L’impresa cooperativa, invece, massimizza il “surplus per lavoratore” che si ottiene
come rapporto tra la differenza dei ricavi conseguiti e la remunerazione del fattore
capitale (surplus) il tutto diviso per il n. dei lavoratori.
Indicando questo risultato con:
V=
L
QrKQR )()( −