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Da Gennaio a Giugno 2001 ho seguito un corso di Psiconcologia,
necessario per l’aggiornamento degli operatori sanitari, medici,
infermieri, tecnici di laboratorio, ma aperto a tutti gli interessati. Le
quattro sessioni sono state seguite da circa cinquanta persone ogni
volta a segnalare l’evidente necessità di conoscenza psicologica del
personale sanitario.
Chiunque si mette a cercare qualcosa crede consapevolmente o non
di poter trovare quello che fino a quel momento non è stato trovato.
E’ evidente che ognuno di noi, aspiranti educatori, sia
profondamente interessato al “sociale”; gli anni di studio ci hanno
fatto capire che le motivazioni possono essere più o meno consce.
A prescindere dalla ragione di questo interesse è probabile che
spesso le esperienze che gli studenti investigano con impegno non
tocchino la sfera personale.
Ma è più che sicuro che qualsiasi cosa si creda riguardo a questa
esperienza, tutti ci troveremo alla fine dei nostri giorni, prima o
dopo.
Euripide ha scritto dell’uomo:“verso nessun evento futuro va privo
di risorse; solo dalla morte non troverà scampo”. Da allora sono
passati diversi secoli, e sebbene l’uomo si sia dimostrato molto più
ingegnoso di quanto Euripide potesse immaginare e abbia
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escogitato rimedi a malanni a suo tempo considerati inguaribili, la
sua conclusione rimane vera. La morte è un’esperienza cui nessuno
sfugge, ma è soggettiva e assolutamente personale. Può essere
fulminea, brevissima: un incidente stradale, un malore improvviso
e il cuore che ha battuto il tempo della vita smette di funzionare.
Tantissimi anziani, malati da anni, stanchi, aspettano con
rassegnazione una morte serena.
Ma ci sono circostanze per cui degli strani sintomi mettono in
allarme una persona che si riteneva sana; si scopre malata e di
fronte alla fine della propria vita, improvvisamente più vicina.
Come aiutare chi muore, a trovare valore nella fine della propria
vita?
Innanzitutto bisogna considerare il significato dell’aiuto. Nel
primo capitolo di questo lavoro si affronta l’argomento della
relazione di aiuto. Il sostegno di altri uomini è quello che gli
uomini ricercano nelle situazioni più difficili. È per questo motivo
che si è indagato tanto e con cura, nei misteri delle relazioni umane.
La scienza vuole dare risposte esatte e anche le scienze
dell’educazione hanno bisogno di dati e risposte. Le problematiche
connesse al tentativo di comprensione di esseri umani è una
questione che attanaglia psicologi, pedagogisti, sociologi, da
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quando cercano confrontare le proprie discipline con le scienze
esatte, eppure la parola mistero in questo ambito non è del tutto
scorretta.
Avere qualcuno accanto o vivere da soli non è lo stesso; anzi l’idea
di essere sempre da soli non ha senso perché comunque si è con gli
altri.
Ma stare insieme non vuol dire necessariamente combattere la
solitudine. Ciò che cambia tutto è sempre la relazione significativa,
a volte un pò scomoda, fastidiosa, fonte di delusioni, frustrazioni,
che costringe anche se davvero non si vorrebbe a cambiare idea e a
spostarsi dal comodo posto che ci si era scavati nella vita.
La relazione prevede due o più persone che siano disposte a
stabilire una comunicazione autentica. Colui che presta aiuto deve
avere una disposizione particolare ed essere pronto all’azione per
aiutare l’altro; che a sua volta fornirà il “materiale” per essere
aiutato, cioè la propria storia, ricca di significato che solo lui può
portare nella relazione.
Relazionarsi può significare incontrare il dolore degli altri, la
malattia che distrugge il loro corpo, la loro morte in cui
inevitabilmente ci si specchia. Questa identificazione, la possibilità
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pur remota di essere vulnerabile, spinge l’uomo a rifuggire la
vicinanza con chi soffre.
Nel secondo capitolo si parla della malattia. Come reagisce chi
non può separarsi dal proprio corpo malato? Con sgomento, rifiuto,
rabbia, disperazione.
La malattia è attacco al corpo, che contribuisce a costruire l’identità
di ciascuno e la “contiene”. Spesso compagno fastidioso e mai
silenzioso della malattia è il dolore, che separa l’uomo sano da
quello malato, per la sua incomunicabilità.
La malattia è con speranza associata all’idea di guarigione, in
un’epoca nella quale la medicina ha “escogitato scampo da mali
incurabili”, come avrebbe detto Euripide.
Ma ci sono malattie contro cui la medicina ha ingaggiato da anni
una durissima guerra, non ancora vinta. Il tumore è una di queste
malattie, anzi un insieme di malattie.
Anche se già moltissimi sono i casi di guarigione di malati
oncologici, ancora troppo spesso il tumore fa incontrare la morte
sul percorso della vita con un notevole anticipo, come per una
condanna. Il tumore rimane sinonimo di sofferenza prolungata e
morte prematura: “cellule impazzite” e “giorni contati”, sono le
frasi fatte più comunemente associate alle malattie neoplastiche.
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Il terzo capitolo affronta il problema della morte. Chi riceve la
condanna a morte da un medico, deve rielaborare la propria vita, i
progetti che vanno distrutti e deve difendersi. Nel viaggio verso la
fine i compagni sono il dolore, i ricordi, la vita passata, perché il
tratto in cui si aspetta la morte non è già più vita.
Un moribondo viene visto come un essere già morto. Non ha voce
in capitolo per quanto riguarda le cure, a volte non è pienamente
consapevole delle sue reali condizioni, ma se sa, è difficile
comunicare con lui e la sua condizione è quasi imbarazzante.
Il malato terminale non è colui che aspetta con tristezza e in
silenzio la morte. Va verso la morte pensando la vita. La sua morte
offre l’opportunità, rispetto ad altre, di pensare la vita e vivere
anche l’esperienza che sembra non abbia niente a che fare con la
vita ed è invece il suo naturale epilogo. Dà la possibilità di
riesaminare la vita, di fare un bilancio e può tramutarsi in una fine
di pace, come di tortura.
Come il dolore colpisce in modo personale il malato, un dolore
diverso e intenso colpisce il nucleo famigliare. La relazione è
stretta e originale. Il dolore fisico non è condiviso, ma la sofferenza
della famiglia è forse più grande. I problemi, le crisi irrisolte si
ripercuotono sul modo di affrontare la malattia. La morte può
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essere uno specchio delle relazioni più profonde che si intrecciano
nella vita.
Ma a volte, quando la relazione è così stretta, non è più solo il
famigliare a poter aiutare il malato. L’aiuto necessario è quello
professionale, con il distanziamento improponibile ad un parente.
Il luogo della cura del morente può essere la sua stessa casa, nella
quale entrano le persone capaci di curarlo al meglio, oppure uno
speciale ospedale, il cui fine non è la guarigione dell’assistito, ma il
raggiungimento di una qualità di vita per lui, con l’aiuto di diverse
persone che più che occuparsi di lui, dovrebbero prendersene cura.
Il quarto capitolo offre una riflessione sulle diverse
professionalità impegnate nel raggiungimento della migliore
qualità di vita per il malato oncologico.
Medici, psichiatri ed infermieri hanno competenze curative, ma
devono saper mediare tra il malato e la sua malattia. Quando si
tratta di cancro bisogna contemplare la possibilità che la cura, a un
certo momento, non sia più possibile: agli operatori sanitari sarà
allora richiesto un intervento di che miri soltanto ad evitare al
malato sofferenza inutile.
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Sul versante non-medico sacerdoti, assistenti sociali, psicoterapeuti
e psicologi devono accompagnare il malato nella sua nuova
avventura di vita.
Con questo lavoro si è voluto scoprire come “questi compagni”
possano valorizzare la parte finale della vita altrui come “lo stadio
finale della crescita”, senza pretendere di travalicare il muro di
isolamento che inevitabilmente la morte erige fra la vittima e il
mondo esterno.
L’educatore di fronte alla morte di altre persone. Se è vero che si
cresce fino alla morte, l’educatore non è un estraneo o un profano
nelle corsie dell’Ospedale, ma vi trova uno spazio di professionalità.
L’educatore, quale esperto di relazioni d’aiuto, può contribuire al
miglioramento della qualità di vita dei moribondi, perché sono
patrimonio della sua professionalità competenze necessarie nelle
relazione con i morenti.
È proprio lui che saprà aiutare il malato a trovare in sé, nella
propria storia non ancora conclusa, il significato della sua vita.
Perché, sì, il morente ha da insegnare qualcosa ai viventi. Chi si
trova a faccia a faccia con la morte può dire qualcosa in più degli
altri, insegnando loro proprio a vivere. Accade che i moribondi
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insegnino a chi li circonda come guardare l’esperienza che essi
stanno vivendo senza temerla e senza quindi temere loro.
Il capitolo finale presenta la relazione della mia esperienza di
Tirocinio nel reparto di Oncologia Medica del Policlinico di
Perugia. Ci sono aspetti positivi, come quello di aver ispirato l’idea
di scrivere questa Tesi e altri meno positivi, ma è stata comunque
un’esperienza piena di significato.
Così come il Corso di Psiconcologia, del quale si riportano gli
interventi dei relatori; l’esperienza ha gettato luce sulle profonde
necessità di conoscenze psicologiche che hanno i medici che
lavorano ogni giorno vicino alla morte e al dolore. È stato
utilissimo e incoraggiante scoprire come i medici che hanno questo
tipo di sensibilità non disedegnano affatto il confronto con altre
professionalità, fra le quali anche quella dell’educatore.
E nonostante le difficoltà, questo spiraglio è sembrato un terreno
solido su cui costruire concretamente la professionalità
dell’educatore nella relazione d’aiuto ai malati terminali.
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CAPITOLO I
La relazione di aiuto.
Per parlare di relazione di aiuto è necessario capire cosa sia una
relazione, la cornice in cui l’aiuto trova spazio e possibilità di essere.
“Il mondo entra in vari modi dentro di noi, e lo troviamo già costruito,
già predisposto e organizzato. Questo significa che siamo in continua
relazione, anzi, è proprio la relazione a permetterci di essere noi stessi, a
renderci consapevoli di essere vivi. La solitudine non permette di essere
se stessi. È quindi inequivocabilmente necessario ammettere l’alterità.
L’altro è la sorgente della consapevolezza di noi stessi e della nostra
realtà profonda. E l’altro non è soltanto quella parte che riconosciamo
come “nostra”, come costitutiva della nostra identità: è anche quella parte
che sentiamo estranea o contraria alla nostra identità.”
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La relazione è ogni forma di legame esistente tra due o più persone, che
va al di là dell’incontro casuale e fortuito. Stando alle affermazioni di
Arrigo Chieregatti, ci sono altri che sentiamo più “vicini”, in cui ci
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CANEVARO A., CHIEREGATTI, A., La relazione di aiuto, Carocci, Roma, 1999, p.
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identifichiamo, e altri che sentiamo “lontani” da noi, i nemici e coloro i
quali, con la loro vicinanza farebbero vacillare la nostra identità.
Le relazioni permettono agli esseri umani di diventare se stessi;
attraverso i contatti umani scoprono chi sono veramente, cosa
preferiscono, ciò che non sopportano, come reagiscono alle circostanze.
Spesso la conoscenza di noi stessi passa attraverso la conoscenza
dell’altro. Chieregatti afferma che la solitudine non permette di essere se
stessi, perché nell’isolamento non c’è confronto, non c’è un altro in cui
specchiarsi. L’uomo può capire il perché dei suoi pensieri e delle sue idee
a partire dai rapporti che ha con gli sta accanto; può imparare cosa sia la
fiducia e in chi riporla dopo un tradimento. Il prossimo dona i sentimenti
più disparati, può essere fonte di gioia, amore, disperazione, infelicità,
causa problemi o invece risolve situazioni difficili. Gli uomini esercitano
un potere, a volte moto sottile, gli uni sugli altri.
“La relazione è il rapporto o il legame esistente tra due oggetti, tra due
persone o tra una persona e un oggetto. Può realizzarsi secondo modalità
diverse ma in ogni caso è il fondamento di ogni nostra conoscenza…le
relazioni interpersonali che sono il fondamento di qualsiasi azione
educativa (consapevole o no, volontaria o no) e consentono al soggetto di
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procedere verso una progressiva costruzione di sé distinguendosi
dall’altro come individuo diverso, comunicando e interagendo con lui.”
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Le relazioni si stabiliscono fra persone diverse, perché ogni essere umano
è differente dall’altro. “L’alterità della singola persona, il diritto cioè di
ciascuna persona di interpretare come crede la propria esperienza e di
trovare in essa i propri valori, è una delle potenzialità più preziose della
vita.”
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Il valore della diversità è educazione e fiducia nelle scelte di vita che
privilegiano l’originalità e il perseguimento di obiettivi fortemente voluti
dal singolo, evitando il più possibile l’uniformazione e il livellamento. La
diversità dipende da fattori genetici ma è anche un risultato
dell’apprendimento, perchè imparando nuove cose si cambia proprio la
struttura del cervello e quindi più si impara più si diventa individuo,
distinto da tutti gli altri.
“In quello che chiamiamo individuo c’è sia qualcosa di unico, sia
qualcosa di condiviso e comune, se non in generale con gli altri
appartenenti al genere umano, senz’altro con coloro che appartengono
allo stesso gruppo, che condividono le stesse situazioni sociali.”
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Canevaro scrive che “la differenza è inscritta nella nostra realtà profonda
2
BERTOLINI P., Relazione, in Dizionario di pedagogia e scienze dell’educazione,
Zanichelli, Bologna 1996, p. 500
3
ROGERS C.R., La terapia centrata sul cliente, Feltrinelli, Firenze 1970, p.
4
COZZI D., NIGRIS D., Gesti di cura, Colibrì, Torino 1996, p. 149
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e quotidiana. È una realtà talmente presente in noi, da rischiare di non
essere avvertita come un elemento fondamentale della nostra vita…la
diversità è un intreccio di “dati” e di possibilità. I “dati” possono a loro
volta essere combinati fra loro in molti modi.”
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Da una parte c’è il senso di appartenenza a un gruppo, alla famiglia, le
affinità che l’essere umano ha con altri esseri umani, dall’altra il senso di
profonda unicità. C’è la possibilità di diventare se stessi facendosi ricchi
dell’alterità e della somiglianza con cui si è in contatto. Perché si possa
rimanere se stessi l’uguaglianza non deve diventare identificazione, né la
differenza essere concepita in termini di superiorità o di inferiorità.
Triste caratteristica delle relazioni è il pregiudizio, per mezzo del quale si
etichettano gli altri. Quello negativo ci spinge ad attribuire a chi ci è
prossimo caratteristiche poco lodevoli, quello positivo invece innalza
l’altro e lo pone su un piedistallo: in ogni caso egli è catapultato a una
distanza irraggiungibile e spesso in maniera rigida.
La scoperta effettiva degli altri si fonda sulla capacità di non adagiarsi su
ciò che è fisso e stabilito e di essere disposti a crescere nella conoscenza
di sé e della vita. “l’altro deve essere scoperto. La cosa può stupire, se si
pensa che l’uomo non è mai solo. Né sarebbe ciò che è senza la propria
dimensione sociale…E poiché la scoperta dell’altro percorre diversi gradi
5
CANEVARO A., CHIEREGATTI, A., op. cit., pp. 44-45
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– dall’altro come oggetto, confuso con il mondo circostante, fino all’altro
come soggetto, uguale all’io, ma da esso diverso, con un’infinità di
sfumature intermedie – è possibile trascorrere la vita senza mai giungere
alla piena scoperta dell’altro (sempre che ad essa si possa realmente
arrivare). Ognuno di noi deve sempre ricominciarla personalmente; le
esperienze anteriori non ce ne dispensano, anche se possono insegnarci
quali conseguenze comporta il disconoscerne la necessità.”
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La scoperta dell’altro è un esercizio faticoso, perché mette in crisi
l’uomo, richiede l’investimento di energie che non immediatamente
rendono chiaro il motivo dell’impresa.
Rinnovare continuamente i modi delle proprie relazioni con gli altri e con
il mondo comporta il rischio della novità e del mettere in gioco se stessi.
Richiede coraggio, porta a galla i sentimenti di paura e insicurezza,
perché accettare lo scambio può voler dire entrare in contatto con un
“altro” troppo differente e assolutamente insopportabile, o anche che ci
siano delle affinità con un qualsiasi altro, che si preferisce considerare
alieno. A volte vogliamo difenderci da chi ci è simile, altre volte da chi ci
è dissimile; a volte la diversità è così insopportabile che non voglio
credere che esista, altre volte è così insopportabile che devo fare di tutto
per eliminarla.
6
TODOROV T., La conquista dell’America. Il problema dell’“altro”, Einaudi, Torino
1992, p. 58