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É caratterizzato dal montaggio e viene ad essere un tipo di messaggio
sintetico che non ha un carattere utilitaristico, in quanto non prepara
all’azione, bensì si riferisce al repertorio di conoscenze comuni al regista e
allo spettatore” (Tessarolo, 1991, pag. 204).
Il cinema, per strutturarsi in modo da poter comunicare, presenta i tre
elementi fondamentali della comunicazione: produttore, opera e spettatore.
Si può riconoscere, cioè, una “fonte” (gruppo di persone da cui parte un
messaggio, ossia il “produttore”) che, attraverso lo “strumento tecnologico”
(fra i quali citiamo la radio, la televisione, la stampa e appunto il cinema),
che separano l’“emittente” dal “ricevente”, veicola un “messaggio”
(l’opera), che raggiunge un’“audience” (sempre una pluralità di individui)
che riceve interamente o in parte il messaggio.
Il film così “aziona un meccanismo, la narrazione, che viene attuato
mediante tecniche particolari quali lo stacco, la trasformazione continua e la
ripetizione. La comunicazione infatti avviene nel cambiamento ed è
proporzionale all’originalità del messaggio” (Tessarolo, ibidem).
Così il cinema e gli altri mezzi tecnologici hanno il compito di
permettere la trasmissione di informazioni, di avvenimenti, di conoscenze,
di opinioni e, soprattutto, di cultura, che possono così giungere in possesso
di un numero molto ampio di persone
Però, oltre a questa funzione, senz’altro la più immediata, il cinema si
colloca anche a un livello diverso, quello che Braga chiama “livello di
comunicazione culturale” dove abbiamo un “primo comunicante” (nel
nostro caso specifico il regista del film) che, attraverso la codificazione e la
trasformazione del materiale che ha scelto, crea un’“opera” (il film,
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appunto) che ha valore di “consumo simbolico”. A questo punto interviene
il “secondo comunicante”, che per noi è lo spettatore, che deve attuare un
processo di decodifica per interpretare l’opera stessa, intesa proprio come
un prodotto di cultura.
Si deve quindi considerare che un film viene realizzato pensando al
fruitore, e, nel momento stesso in cui viene proiettato, stabilisce un ruolo
per lo spettatore nel quale ciascuno può o meno riconoscersi o identificarsi.
Come si può facilmente immaginare, questo tipo di comunicazione non
è caratterizzata dall’“immediatezza” e dalla “reciprocità”, come nel caso di
un’interazione faccia a faccia, ma si distingue per la presenza di una
dimensione di “temporalità” (il messaggio può essere recepito solo quando
l’opera è stata terminata e quando il fruitore, di fatto, entra in contatto con
essa), dove non è possibile una “retrocomunicazione diretta” fra i due
comunicanti.
Infatti, come in ogni produzione artistica, anche nel cinema l’autore
crea una “trama” particolare di significati con uno specifico e preciso
valore simbolico.
Però, questi significati non è detto che vengano recepiti allo stesso
modo dal fruitore, che, a sua volta, interpreta i segni presenti nell’opera
secondo il suo schema mentale di riferimento. É così possibile che il tutto
assuma un significato diverso da quello che aveva in origine per l’autore.
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In ogni caso si tratta sempre di rintracciare e scoprire qualcosa in più
rispetto al semplice aspetto superficiale, di scavare al di là delle banali
apparenze; ed è in questo senso che la psicoanalisi ha svolto un ruolo di
primo piano aprendo nuovi orizzonti nella comprensione dei prodotti
artistici in genere e anche, e soprattutto, del cinema.
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2. Il cinema sul lettino
Ma in che modo i principi della psicoanalisi si applicano e si
inseriscono nelle dinamiche del cinema e dei film? In quale maniera si
caratterizza, a livello teorico, il rapporto fra queste due discipline che a
prima vista sembrano così diverse e distanti fra loro?
Secondo l’ipotesi di Francesco Casetti, in un primo contesto, la
psicoanalisi nel cinema si caratterizza come un “metodo critico”: in parole
semplici si tratta di individuare e riorganizzare una serie di segni in un
determinato film per “cogliere, sotto la superficie di ciò che appare
perfettamente palese, un qualcosa di taciuto o di appena accennato, che
fissa una verità più profonda, più completa, più autentica” (Casetti, 1993,
pag. 172).
Cioè si tratta di svelare cosa sta sotto il contenuto manifesto del film,
che, in questo modo, viene considerato come una sorta di estensione di una
seduta analitica, dove il regista funge da “paziente”, il film da “materiale” e
lo spettatore accorto assume la veste di “psicoanalista”, che usa le sue
conoscenze e i suoi strumenti per dare un senso alle “informazioni cliniche”
che ha raccolto e per giungere a una conoscenza del “contenuto latente”
della storia, sulla base del “contenuto manifesto”.
Oltre a questo approccio, che senza dubbio è il più usato e il più
diffuso, ne esiste un altro in cui i film vengono utilizzati per “mettere in
luce i tratti di pertinenza della psicoanalisi” (Casetti, 1993, pag. 172), cioè
si cerca di analizzare le analogie tra i film e certi prodotti dell’inconscio
(come nel caso dei sogni), per vedere se i processi psichici possono spiegare
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il “funzionamento” dei film. Interessante, a questo proposito, è la teoria di
Lebovici (1949), il quale ipotizza un sostanziale parallelismo fra cinema e
sogno, in quanto entrambi si basano su un insieme visuale, dove i legami
spaziali e temporali vengono indeboliti, utilizzano la suggestività e l’uso dei
rapporti logici è ridotto.
Inoltre lo spettatore di film è paragonato al sognatore per quanto
riguarda le caratteristiche “fisiche” della sala di proiezione (oscurità,
isolamento e l’abbandono dei corpi, irrealtà delle immagini, processi di
identificazione e proiezione, ecc.), che ricordano molto da vicino la
condizione onirica.
Tutte queste argomentazioni hanno fatto giungere Casetti e numerosi
studiosi alla conclusione che il cinema è un qualcosa modellato
direttamente sul nostro apparato psichico: “più che un mezzo per arrivare a
certi nodi segreti, o più che un equivalente di certe manifestazioni del
nostro inconscio, appare un fenomeno che prolunga e ingloba le strutture e
le dinamiche studiate dalla psicoanalisi. Ecco allora che nella situazione
cinematografica si scopre una riproposta dei momenti chiave che
presiedono la formazione del nostro Io” (Casetti, 1993, pag. 174).
Si scopre, così, una sorta di “inconscio del cinema” che deve essere
svelato, ed anche in questa prospettiva lo scopo principale è quello di
trovare nuovi significati più profondi e più complessi, dove la psicoanalisi
diventa la chiave di volta per interpretare e per capire il significato e il
significante del fenomeno cinematografico.
Direttamente connessa con questo aspetto esiste un’altra corrente molto
interessante che lega il cinema e la psicoanalisi.
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In questo caso l’interesse si focalizza sul “processo di significazione”
attivato dai film e cioè sul meccanismo attraverso cui vengono prodotti certi
significati; si studia l’intrecciarsi, il combinarsi e il ricombinarsi dei
significati che portano alla costituzione di un “significato manifesto”, che
tuttavia rimanda sempre a un “significato latente”.
In questo caso, parliamo di “lavoro filmico”, chiaramente modellato sul
concetto di “lavoro onirico”, in cui ritroviamo tutti i meccanismi attivati per
la produzione dei sogni: rimozione, censura, spostamento, condensazione,
ecc., un’ulteriore prova del parallelismo e dello stretto legame tra cinema e
funzionamento psichico.
Infine possiamo anche soffermarci brevemente e sottolineare l’uso che
la psicologia, e in special modo l’approccio cognitivista, ha fatto del cinema
per evidenziare gli effetti delle immagini sulla psiche e per la verifica dei
processi mentali e delle dinamiche psicologiche che si dispiegano nella
situazione cinematografica, quali, ad esempio, la percezione, la
comprensione, la memorizzazione e la partecipazione, riducendo, per certi
versi, il film a una semplice situazione test da somministrare al soggetto in
esame (Casetti, 1993 pag. 110 e seguenti).
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3. La psicoanalisi sbarca a Hollywood
Ora, ponendoci da un punto di vista prettamente storico-descrittivo,
possiamo rilevare che l’industria cinematografica (in special modo quella
americana, sempre all’avanguardia in ogni circostanza) è sempre stata
molto sensibile a quelle che sono le tematiche psicologico-psicoanalitiche,
tanto che nel corso dei decenni la produzione e l’interesse per questo genere
di cinema sono notevolmente aumentati.
a) Dalle origini...
Infatti, da quanto risulta dalla ricerca di Alceo Melchiori “Lo psicologo
nei film”, a partire dal dopoguerra fino ai giorni nostri, il numero di
pellicole a connotazione psicologico-psicoanalitica ha avuto un incremento
costante, tanto che “si può ritenere che nel prossimo futuro ci sarà un
ulteriore aumento... di tali problematiche introspettive affrontate in modo
più o meno scientifico” (Melchiori, 1991, pag. 34).
Non è un caso, quindi, che “cinema e psicoanalisi, come spesso è stato
notato, nascono pressoché contemporaneamente: nel 1892-1895 vengono
pubblicati Studi sull’isteria di Freud e Breuer; il 1895 è l’anno del brevetto
dei fratelli Lumière; nel 1900 esce l’opera fondamentale di Freud
L’interpretazione dei sogni” (Argentieri-Sapori, 1988, pag. 11) e che in
America, a causa dell’avvento del III Reich che sconvolge i fragili equilibri
dell’Europa, migreranno numerosi luminari della psicoanalisi.
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Questi diffonderanno i principi della disciplina oltreoceano e
influenzeranno profondamente tutte le fasce e tutti gli ambiti della cultura
americana, che fin dall’inizio si dimostrò entusiasta ed affascinata dai
misteri della teoria freudiana.
Ma, come affermano Argentieri e Sapori, già prima della massiccia
diffusione della psicoanalisi, nella Hollywood degli anni ‘30 si potevano
riconoscere in parecchie pellicole personaggi che anticipavano la figura
dello psicoanalista e i tipici temi psicoanalitici, soprattutto in quel genere di
film che venne poi denominato “commedia sofisticata”, dove è quasi
sempre presente una figura “angelica” che si prodiga ad alleviare le
sofferenze altrui, senza volere nulla in cambio.
Si tratta di “baristi, tassisti, angeli, preti, per così dire a mezza via tra la
consapevolezza e l’innocenza..., si prendono cura degli umani e dei loro
errori, pasticci e nevrosi; danno consigli, interpretazioni, sostegno morale e
materiale, incoraggiamenti e amorose sgridate” (Argentieri-Sapori, 1988,
pag. 37); insomma possono essere considerati alla stregua di analisti
“selvaggi”, cioè di coloro che praticano clandestinamente la cura
dell’anima, senza possedere alcun titolo accademico.
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b) ... al “sogno americano”...
Sarà, invece, a partire dagli anni ‘40 che in alcuni film si incomincerà a
parlare esplicitamente di psicoanalisi e di psicoterapia, anche se in modo
banale, ingenuo e un po’confuso, con risultati apprezzabili, ma anche con
involontari effetti comici (specialmente nelle divertenti “commedie
psicologiche” con sfumature tra il rosa e il nero); ma sarà proprio da questo
momento che la figura dello psicoanalista incomincerà a rivestire un ruolo
di primo piano nelle pellicole hollywoodiane.
A queste premesse, può essere collegato il fatto che la produzione di
film a carattere psicologico-psicoanalitico si innalza proprio in quei periodi
di incertezza, confusione, crisi, come appunto gli anni ‘40 (segnati dalle
tragiche conseguenze della Seconda Guerra Mondiale) e come, attualmente,
gli anni ‘90, periodo di grave crisi per l’identità individuale e sociale.
Secondo Fausto Galosi e Pino Pellino (Tele+1, speciale “Cinema e
Doppio”, settembre ‘95) la realtà incerta, complessa, non ben definita è un
terreno fertile per il cinema a stampo psicologico-psicoanalitico, perché
questo rappresenta il filo diretto con l’ambiguità, con lo “specchio scuro”
che riflette immagini perturbanti, ambigue, che mettono in discussione le
certezze, la realtà e che rappresentano lo stato di ambivalenza dell’anima,
della coscienza, tutte sensazioni che l’individuo prova di fronte alla crisi e
alla sgretolazione della società in cui vive.
In una società piena di incertezze per il futuro, con una grande quantità
di problemi da risolvere, ma con una grande voglia di rinascere e di ottenere
la stabilità e il benessere, come quella americana del dopoguerra, non
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stupisce certo il fatto che la psicoanalisi venga acclamata come una
“fabbrica di miracoli”, come una sorta di “panacea universale... un magico
talismano in grado di garantire ciò che, per la cultura americana, era sentito
non tanto come un sogno, quanto come un preciso dovere e diritto
costituzionale: il diritto alla felicità” (Argentieri, Sapori, 1988, pag. 36).
Ed ecco che anche il cinema si adegua a questa visione, così nei film lo
psicoanalista è visto come un “Deus ex machina” che in breve tempo può
risolvere i problemi dell’eroe, il tutto in una prospettiva semplicistica e,
oserei dire, quasi fiabesca della teoria psicoanalitica, considerata come una
specie di portentosa magia.
Addirittura la psicoterapia viene connotata in un modo particolare: la
cura per eccellenza è la “cura per amore”, meglio se “Grande Amore”, per
cui è destinato al successo e all’inevitabile “lieto fine” il terapeuta che si
innamora del proprio paziente e che si adopera in tutti i modi per salvarlo
(si veda a tal proposito l’emblematico Io ti salverò, 1945, di Alfred
Hitchcock, in cui la bella dottoressa, nonché psicoanalista Ingrid Bergman,
sfida tutto e tutti per guarire l’amato Gregory Peck, vittima di una tremenda
amnesia per uno shock subito), qualora la cura sia differente, arrivare a una
conclusione positiva pare impossibile.
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c) ... alla brusca disillusione.
Nel corso degli anni, però, questa ottimistica visione della psicoanalisi
è andata via via sparendo, complice probabilmente il mutamento dei valori
della cultura americana, e se da un lato vediamo che “quasi non c’è film
serio o brillante, di ogni livello di qualità o di genere, che non abbia, magari
di striscio, appena nominato o come semplice comparsa, il personaggio di
uno psicoanalista, onnipresente, ormai, come una specie di elemento di
arredo obbligatorio” (Argentieri, Sapori, 1988, pag. 83), dall’altro vediamo
che la loro funzione e il loro operato vengono denigrati.
Infatti, talvolta il terapeuta è egli stesso malato, oppure è inconcludente,
altre volte è un ciarlatano, un incompetente che approfitta delle debolezze
altrui e che cerca di curare gli altri per difendersi e per rassicurarsi dal
pericolo di dover riconoscere e affrontare le proprie nevrosi.
Una visione che sembra diventare sempre di più negativa col passare
degli anni, ma non per questo il fascino e la fiducia nella psicoanalisi
sembra essere venuto meno nella cultura americana; infatti il più delle volte
il medico è malato, ma riesce, in un certo qual modo, a risolvere parte dei
problemi dei pazienti che gli chiedono aiuto.
Questi aspetti non fanno altro che dimostrare che l’opinione pubblica,
si è sempre sentita attratta e attenta alla sfera dello psichico e
dell’inconscio, anche se con qualche dubbio e diffidenza.
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Infatti è stato da molti sottolineato che nella produzione
cinematografica e nella maggior parte dei film le figure professionali
psicologico-psicoanalitiche sono a connotazione negativa o ironica, a
dimostrazione del timore che ancora incute questa disciplina, che se da un
lato affascina e incuriosisce, dall’altro turba, perché è vista come intrusiva,
come una minaccia per il proprio autocontrollo.
Melchiori interpreta questa posizione prevalentemente negativa “come
un modo per sottolineare l’inefficienza generalmente attribuita a chi vuole
andare nel ‘profondo’ dell’animo umano”, come una “difesa dalla
intrusività della psicoanalisi “ (Melchiori, 1991, pag. 5).
Sempre dalla ricerca di Melchiori risulta che, dei 424 film analizzati
dall’autore, ben il 66% rappresenta la figura dello psichiatra-psicoanalista
in modo negativo, il 14% non prende una posizione pro o contro, mentre
solo il 20% da un’immagine positiva della professione.
Se ci basiamo sull’ipotesi di Altarocca, che sottolinea che il cinema
corrisponde alla valutazione collettiva del pubblico su una particolare
tematica, e sui dati in nostro possesso, siamo in grado di capire cosa la
gente pensa e quale impressione ha della professione psicologica-
psichiatrica- psicoanalitica vedendo un film.
Ne ricaviamo, senz’altro, una visione negativa, specie nei riguardi delle
figure professionali che, in particolar modo in Italia, vengono viste come
“professionisti incapaci, non perché instabili mentalmente, ma perché
specializzati in una disciplina inconsistente... sono visti alla stregua di
moderni astrologi... che approfittano delle debolezze e della solitudine delle
persone” (Melchiori, 1991 pag. 72).
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Così, mentre nelle pellicole italiane la psicoanalisi viene considerata
una specie di pseudo-disciplina priva di qualsiasi base scientifica e domina
lo stereotipo che i suoi rappresentanti siano ciarlatani e incompetenti, in
quelle statunitensi “la figura dello psicologo [e dello psicoanalista] ha
conquistato ormai un proprio status sociale ben definito e distribuito..., la
critica verso la psicologia [e la psicoanalisi] è subordinata ad una generale
fiducia nelle sue capacità di operare e di risolvere problematiche di propria
competenza, capacità che dipenderebbe in buona misura dall’equilibrio e
dalla sensibilità del terapeuta” (Melchiori, 1991, pag. 72).
In Italia, quindi, sembra che questo discorso sia ribaltato, forse proprio
perché non esiste quella tradizione e quella cultura psicologica che, pur
criticata, è tanto cara e tanto diffusa nella società e nel cinema americano.
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4. I film, lo spettatore e la dimensione psichica
Nonostante tutte queste perplessità, però, la gente continua a scegliere
di visionare pellicole che hanno forti implicazioni psicoanalitiche, e i
produttori continuano a realizzare sempre più film di introspezione e a
stampo psicologico-psicoanalitco, sintomo che la questione non è così
semplice come sembra.
Il pubblico è incuriosito e attratto da quello che percepisce come strano,
come “perturbante”, come diceva Freud.
Forse questo “mistero” può essere in parte chiarito facendo riferimento
alla teoria di Metz del “significante immaginario” che si costruisce quando
un individuo assiste alla proiezione di un film.