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intravede un barlume di luce, quella luce finale che,
secondo una definizione dello stesso Pasolini, è la
morte essenziale, quella che permette di chiudere il
cerchio ‘imperfetto’ di un’esistenza spesa a girare
intorno agli stessi poli, attraverso un montaggio
definitivo che pone fine al caos, assestandolo e
tramandandolo ai posteri.
Ecco perché l’ultimo capitolo ha quel titolo (La luce,
alla fine), e perché comincia dove era iniziato anche
il primo, (La morte di Pasolini), nel tentativo di
ricreare quella circolarità che solo la morte ha
spezzato.
Ogni capitolo di questa tesi è una tappa all’interno
dell’imbuto. Nel secondo (Tra cinema e poesia) si
prendono in esame i rapporti esistenti fra i due
linguaggi, quello del cinema e quello della poesia,
utilizzati da Pasolini. Nel terzo (La realtà) viene
esaminato quello che a detto di Pasolini fu il suo
vero e unico idolo, dimostrando quanto il suo cinema e
la sua poesia si influenzino a vicenda. Poi nel quarto
e nel quinto (Cinema di Poesia e Teorema) viene
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descritta la crisi di Pasolini e i suoi tentativi di
risolverla creando un’osmosi fra i due linguaggi. Il
sesto capitolo (La civiltà dell’eros) ci vede
incastrati nel punto più stretto del collo
dell’imbuto, laddove è impossibile tornare indietro o
semplicemente voltarsi. E’ la stagione dei corpi,
della Trilogia della Vita, dell’abiura, dei viaggi
frenetici, del moltiplicarsi della propria voce e
della grande negazione.
E poi l’ultimo capitolo, quello dove la morte trova la
sua consacrazione e, come già accaduto a molti,
anziché sconfiggerlo ne suggella il destino e la
memoria.
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I
La morte di Pasolini
"Quando il suo corpo venne ritrovato, Pasolini giaceva
disteso bocconi, un braccio sanguinante scostato e
l'altro nascosto dal corpo. I capelli impastati di
sangue gli ricadevano sulla fronte, escoriata e
lacerata. La faccia deformata dal gonfiore era nera di
lividi, di ferite. Nerolivide e rosse di sangue anche
le braccia, le mani. Le dita della mano sinistra
fratturate e tagliate. La mascella sinistra
fratturata. Il naso appiattito deviato verso destra.
Le orecchie tagliate a meta', e quella sinistra
divelta, strappata via. Ferite sulle spalle, sul
torace, sui lombi, con il segni degli pneumatici della
sua macchina sotto cui era stato schiacciato.
Un'orribile lacerazione tra il collo e la nuca. Dieci
costole fratturate, fratturato lo sterno. Il fegato
lacerato in due punti. Il cuore scoppiato".
1
1
perizia del medico legale che accertò la morte di Pasolini, comparsa sul Corriere della sera il 2
novembre 1977.
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La morte di Pasolini rappresenta, paradossalmente, uno
dei momenti più “vivi” di tutto il suo iter umano ed
artistico. Per le caratteristiche di crudezza e di
desolazione, di efferatezza ma anche di sinistra
dolcezza, quella morte del 2 novembre 1975 diventa il
più suggestivo e poetico suggello a cui la sua
esistenza potesse aspirare. Non c’è nulla in quella
morte, infatti, che non appartenga completamente a
Pasolini e alla sua mitologia estetica: dal luogo in
cui è avvenuta, l’idroscalo di Ostia, al protagonista
del delitto (o presunto tale, visto che il processo ha
emesso una condanna che a molti è sembrata poco
definitiva): il ragazzino Piero Pelosi, diciassettenne
della periferia romana, così fatalmente simile a
quelle figure della borgata che Pasolini ha evocato e
rappresentato plasticamente lungo l’arco di tutta la
sua produzione. Fino, in conclusione, alla richiesta
che c’era dietro quell’incontro tra Pasolini e il suo
omicida.
Un Pasolini spinto dai propri desideri carnali e
fisici, incrocia la vita di un diciassettenne
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abbastanza povero. Il tramite per quell’incontro è una
cena che Pasolini offre al ragazzo. Dunque i soldi
come mezzo per arrivare ad un fine. Senza ombra di
moralità, e senza, soprattutto, ombra di pietismo.
Pasolini aveva bisogno di quel corpo, l’avrebbe
comprato. Forse solo spiccioli di contraddizione.
Soprattutto agli occhi di quanti, in più occasioni,
avevano rimproverato a Pasolini questo approccio
mercenario col sesso e con quella gioventù proletaria
di cui lui si era fatto cantore e di cui testimoniava
un innocenza ‘angelica’. Ecco perché quella morte è
così viva. Perché parla ancora per lui, chiede
rispetto di una contraddizione che è pura complessità
elevata a sistema di vita. E lo fa nei luoghi poetici
della sua letteratura e del suo cinema.
Difficile, in questo senso, non intendere la linea di
drammatica e coerente fatalità che associa il
vitalismo pasoliniano - e la sua massima realizzazione
espressa dai modi dell’esperienza fisica e sessuale -
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all’impulso di morte cui carnalmente e simbolicamente
si ricongiunge
2
Dunque la morte diventa soltanto un punto di partenza
da cui cominciare un’analisi a ritroso, che ogni volta
si scontrerà sempre con gli stessi termini, con quelle
stesse auto-attribuzioni pasoliniane: concetti come
coerenza e contraddizione che sembrano essere gli
ideali confini che recintano la sua esistenza.
La morte nasce perché chi l’ha trovata era alla
ricerca soprattutto di vita. Perché il poeta si è
recato fisicamente sui luoghi del proprio desiderio,
guardandosi attorno, sgranando gli occhi nel buio
pesto della solitudine artistica, per evitare magari
quei rimpianti che hanno tormentato altre vite e altri
poeti che non si sono bruciati al contatto. Per
scavalcare Montale, che proprio in quegli anni, gli
anni della consacrazione mondiale col Nobel,
dichiarava una sua amarezza personale per aver vissuto
2
Andrea Miconi, Pier Paolo Pasolini - La poesia, Il corpo, Il linguaggio, ed. Costa & Nolan
1998, p 12.
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soltanto al 5%. Invece Pasolini volle uscire allo
scoperto e viversi.
Nel tempo ha costruito tutto se stesso; ora un’analisi
critica dovrebbe imporsi dall’esterno e scandagliare
quel corpo alla ricerca di qualcosa, una sorta di
punto critico che possa servire da motore di ricerca.
E questo punto c’è, presente nella sua produzione come
in quella di ogni artista. Probabilmente mentre
Pasolini giaceva moribondo sotto il peso della sua
Alfa GT, che il ragazzo si ostinava con ferocia
ossessiva a passargli addosso, gli deve essere passata
davanti agli occhi tutta la propria esistenza. E lui
vi ha cercato un appiglio. Ed è esattamente lì che,
come in un buco nero piccolo e inodore, l’intero
monumento che egli ha costruito a se stesso,
attraverso la mise en poème della propria esistenza,
ha trovato un baricentro perfetto che
contemporaneamente lo manteneva in piedi e lo avviava,
anche, ad una lenta ed inesorabile implosione.
Si tratta di pochi versi, una breve periodo, immagini
strappate al corso di un film. In queste si esprime in
12
una sublime perfezione l’intera vicenda artistica e
umana di quell’esistenza. Quasi che uno scrittore non
fosse altro che un meccanismo instabile, sempre sul
punto di crollare sotto la pressione del proprio io ma
che trova in quel punto il proprio perno d’equilibrio.
Cercare questo punto è quasi inutile. L’autore andrà
avanti nella convinzione che qualsiasi cosa scriva sia
quel punto. E la critica ne individuerà sempre più di
uno, o forse nessuno.
Rimane comunque un impresa inutile: è come cercare la
verità, si sa che esiste ma dov’è?
Una coltre di primule. Pecore
controluce (metta, metta, Tonino,
il cinquanta, non abbia paura
che la luce sfondi - facciamo
questo carrello contro natura!)
L’erba fredda tiepida, gialla tenera,
vecchia nuova - sull’acqua Santa.
Pecore e pastore, un pezzo
di Masaccio (provi col settantacinque,
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e carrello fino al primo piano).
Primavera medioevale. Un santo eretico
(chiamato bestemmia, dai compari.
Sarà un magnaccia, al solito. Chiedere
al dolente Leonetti consulenza
su prostituzione Medioevo).
Poi visione. La passione popolare
(una infinita carrellata con Maria
che avanza, chiedendo in umbro
del figlio, cantando in umbro l’agonia).
La primavera porta una coltre
di erba dura tenerella, di primule...
e l’atonia dei sensi mira alla libidine.
Dopo la visione (gozzoviglie
mortuarie, empie - di puttane),
una “preghiera” negli ardenti prati.
Puttane, magnaccia, ladri, contadini
con le mani congiunte sotto la faccia
(tutto con il cinquanta controluce)
Girerò i più assolati Appennini.
Quando gli Anni Sessanta
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saranno perduti come il Mille,
e, il mio, sarà uno scheletro
senza più neanche nostalgia per il mondo,
cosa conterà la mia “vita privata”,
miseri scheletri senza vita
né privata né pubblica, ricattatori,
cosa conterà! Conteranno le mie tenerezze,
sarò io, dopo la morte, in primavera
a vincere la scommessa, nella furia
del mio amore per l’Acqua Santa del sole.
(23 aprile 1962)
3
3
P.P.Pasolini, poesie mondane, Poesia in forma di rosa, ed. Garzanti 1964, pp 15-16.
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Accettata l’idea che sia comunque mistificatorio
credere di aver individuato quel punto, in Pasolini
come in qualsiasi altro artista, ritengo che non sia
difficile scorgere all’interno di questa poesia,
alcuni elementi che hanno caratterizzato il passato
letterario e che continueranno ad essere presenti in
tutta la futura Opera pasoliniana; elementi che,
banalmente, si possono definire la spina dorsale di
quel monumento che è il proprio ego messo in versi e
descritto per immagini.
Era il 1962, l’anno di Mamma Roma, suo secondo film, e
Pasolini scrisse questa poesia, dimostrando quanto il
cinema si fosse cristallizzato nella sua vita come
forma stabile d’espressione.
Questi versi descrivono un viaggio (e il cinema, come
disse Godard, è un viaggio fatto ad occhi chiusi). Lo
descrivono attraverso lo sguardo di un obiettivo per
macchina da presa, un cinquanta mm manovrato dal suo
direttore della fotografia Tonino, Delli Colli - nome
storico del cinema italiano - e proseguito poi a
spasso per una campagna di pecore e primule. Così il
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mondo del cinema si bagna del contatto agreste e va in
direzioni ambigue, contro la propria natura di
macchina industriale, e seguita ancora più sconvolto e
delirante verso gli scorci della pittura Masaccesca:
quegli scorci di luce e chiaroscuri, il Medioevo
inteso come dimensione storica e dell’anima, dove
tutte le passioni sono portate al loro massimo
espandersi in un altalena di Martirio e Scandalo.
E alla fine compare la Madonna, che parla in dialetto,
e avanza inquadrata come la prostituta Mamma Roma che
canta l’agonia del figlio. La Visione di questa scena
risveglia i sensi e scopre l’intera gamma di
sensazioni del poeta, spaziando fra momenti di pura
religiosità Cristiana e quegli inferni quotidiani che
imbevono le radici della sua esperienze.
In un unico quadro Maria dialoga con la luce e i
pastori, le puttane, i ladri, il mondo della periferia
romana e gli anni 60, che ad un tratto vengono
percepiti e catapultati verso il primo Millennio.
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E su tutto, sulla nostalgia verso il mondo che può
provare solo chi sa di esserne lontano - osservatore e
narratore, domina l’io che si autoelegge Santo,
confrontandosi con i pubblici ricattatori, gli
aspersori di moralità e banalità addosso ai quali
Pasolini getta la loro maschera per incamminarsi sulla
strada del Martirio.
Ecco cos’è quel punto: la possibilità sintetica di
dire.
Mentre alla critica toccherà subito aggiungere che per
comprendere Pasolini una poesia non può essere
sufficiente, anche se necessaria. Così come vedere
tutti i suoi film, leggere le altre raccolte poetiche,
sfogliare le sue pagine di saggistica, di semiotica e
filologia, e approdare alle rive della sua letteratura
esistenzial-marxista.