II
spesso sconfessando il fine del suo agire. A riprova di questa frequente idea nel
common sense, è ancora attuale la faceta ed amara battuta del celebre satirico
austriaco Karl Kraus, che offre un’istantanea efficace di un pensiero condiviso dai
più :” Volete studiare l'etica degli affari? Allora dovete decidere di fare l'una o gli
altri”
1
.
E’ mia intenzione, nelle righe che seguono, analizzare la veridicità di questa
affermazione, verificare opportunamente se ha ancora ragione d’essere valida e così
condivisa, e proporne un’ alternativa, con la dovuta attenzione alla prospettiva
economica e sociale che nell’immediatezza di questo ineunte nuovo secolo si impone.
Compongo, infatti, queste righe all’alba del terzo millennio, già tragicamente
segnato da un evento che ha indelebilmente circoscritto, relativizzandolo, ogni altro
atto che avviene davanti all’obiettivo impietoso ed onnipresente di una telecamera.
Al trascolorare, per il naturale effetto del tempo, dei più opprimenti e devastanti
sentimenti d’orrore e compassione, si plasmano riflessioni che portano in sé la
responsabilità che l’umana natura non può ciecamente ignorare, perché ad essa
intimamente legata. E’ la matura per manifestazione, ma sempre troppo acerba per
intensità, consapevolezza di quanto la relatività del nostro essere venga sublimata
dalla naturale inclinazione a divenire soggetti, attivi e non, dell’intero consorzio
civile, così da portare all’attenzione, anche del meno avveduto abitante del pianeta, la
strettissima e ineludibile socialità intrinseca delle azioni, e la conseguente necessità di
saperne cogliere le implicazioni di lungo periodo, ben oltre la dimensione meramente
individuale.
La tragicità degli avvenimenti dell’undici settembre, oltre a costituire la
manifestazione indiscussa di come la profezia di McLhuan abbia trovato pieno
compimento, rendendoci cittadini simultanei di un medesimo ed unico continente,
non ha tardato a costituire un valido specchio dell’elevato grado d’interdipendenza, e
delle reciproche empatie, e, più specificatamente, dei mercati finanziari, con la loro
attitudine al superamento d’ogni atomizzazione geografica, assumendo una
dimensione globale in un tempo significativamente minimo.
La complessità di queste vicende può oscurare l’atavico legame tra la volontà, le
convinzioni personali, le aspirazioni degli uomini, che si inerpicano tra i sentieri
della storia, e le implicazioni quanto mai pratiche, oggettive e perennemente attuali
1
K. W. ROTHSCHILD, Ethics and Economic Theory, Gower House, Edward Elgar, 1993, p. 15.
III
che esse comportano. L’homo oeconomicus, dunque, agente ed oggetto della scienza che
queste implicazioni studia, non potrà esimersi dal valutare la necessità che le azioni,
dallo stesso compiute, non siano svincolate da qualsivoglia principio che riesca a
ricondurre le conseguenze del suo agire, in un ambito migliorativo o almeno, alla
Pareto, non peggiorativo della condizione in cui si trova, membro di una collettività di
cui costituisce parte integrante.
Si tratta, in breve, di definire alcune linee di condotta che siano largamente
riconosciute, approvate e finalizzate dalla scienza economica e, attraverso di esse,
compendiare il raggiungimento dei fini classici, quali il profitto, il valore aggiunto, il
tasso di sviluppo aziendale ed altri ancora, con la volontà prima di rispettare il
destinatario ultimo della ricerca che, credo, debba essere l’uomo concepito nella sua
integralità, l’uomo “misura di tutte le cose”, come insegnava Protagora.
Disattendere a questo principio, che di teorico ha solo la formulazione, condurrà a
delle conseguenze i cui prodromi sono già ravvisabili negli eventi più recenti delle
cronache economiche. Nel tempio della finanza mondiale si è recentemente
proclamato un discorso, più fecondo di consensi che di conseguenze, richiamando
l’impellenza di “un’etica della finanza”, e invocando il rapido ostracismo delle “mele
marce”; di coloro che, a fondanti ed irrinunciabili principi etici, non hanno compreso
la necessità di aderire.
Appare evidente che il richiamo a ciò che in queste righe avevo, sino ad ora, soltanto
evocato, è la prova più confortante di quanto l’argomento ricopra un’importanza
notevole, tanto che, coloro che sino ad ora non l’avessero percepito nella sua reale
dimensione, hanno dovuto tardamente scontrarsi con i devastanti effetti che il crollo
di colossi finanziari, dovuti agli scandali che li hanno coinvolti, ha prodotto nel
“particulare” del loro portafoglio titoli.
Il direttore della Borsa Newyorkese, parafrasando Gibran, si appella alla luce
dell’alba che non può non sorgere dopo l’oscurità della notte, ma nel frattempo, i
milioni di dollari svaniti in un solo giorno di contrattazioni, fungono da imperioso
monito, non soltanto per gli investitori, dispersi da una costa all’altra del Pacifico,
ma soprattutto per coloro che della finanza sono i protagonisti, consapevoli detrattori
di un principio tanto semplice, quanto complessa è la sua applicazione: la centralità
dell’individuo quale soggetto eticamente protagonista delle scelte economiche.
Il sacrificio dell’etica sull’altare della storia, per mano dell’individualismo, che
molti hanno lungamente considerato il motore unico dell’economia, comincia ora a
IV
mostrare i suoi deleteri effetti e, da più parti, viene rivendicata l’urgenza di ri-
focalizzare l’individuo, la correttezza dell’agire, gli obblighi morali impostici dallo
squilibrio delle ricchezze, concertandoli con l’imprescindibile strumento della
razionalità, che ha conferito all’economica il carattere di scienza.
Le querce poderose del capitalismo americano hanno rivelato, con un’immagine
cara a Baudelaire, la non sempre genuina robustezza delle loro radici, indebolite
dalla più nota e virulenta malattia dell’animo umano; è la “contagiosa infezione di
avidità” che il Governatore Greenspan non teme di denunciare; essa ha
malauguratamente trovato, nella fitta rete della globalizzazione finanziaria, nuovi e
più insidiosi ambiti da contaminare, in cui pochi spregiudicati, travestiti da
manager, banchieri, analisti hanno polverizzato migliaia di buste paga; milioni di
pensioni costruite in anni di lavoro; migliaia di miliardi in risparmi di tanti good
citizen.
L’entità del danno, oltre ad incontrare sconcerto e manifestazioni di giustificata
apprensione, ha schiuso inquietanti orizzonti in coloro che hanno acutamente
compreso che non sarà una legislazione meno permissiva a risolvere il problema; una
catarsi etica non si varerà per decreto, ma sarà necessario fornire nuove, convalidanti
ipotesi di lavoro in grado di esaltare il bene comune, quale risultato imprescindibile
d’ogni ricerca.
Si rende, poi, sempre più urgente questo mutare di prospettiva alla luce
dell’attuale panorama di superamento delle barriere materiali ed immateriali alla
circolazione di persone, informazioni, conoscenze, unito all’uniformarsi delle
condizioni economiche, gli stili di vita, e le visioni ideologiche, specie in conformità col
modello occidentale. Siamo quindi noi, abitanti di questo emisfero di libertà, a dover
cogliere il valore delle nostre scelte, in funzione delle responsabilità che la nostra
privilegiata condizione ci chiama ad assumere; la globalizzazione finanziaria, infatti,
è un processo fondamentale per la diffusione del progresso economico a livello
mondiale, ma tende ad accrescere ulteriormente le disuguaglianze tra paesi avanzati
e quelli in via di sviluppo, vista l’incapacità dei sistemi economici più arretrati di
partecipare ai benefici connessi. Se, da un lato, non si potrà, in nome del beneficio per
alcuni, osteggiare la liberalizzazione dei traffici commerciali e dei movimenti di
capitali, strumenti di diffusione del progresso; dall’altro però, si dovrà spostare
l’enfasi dalla ricerca dell’efficienza massima alla riduzione della povertà, favorendo
la diffusione del benessere a tutti i paesi e a tutti gli strati sociali, non soltanto in
V
forza di considerazioni di carattere umanitaristico e solidaristico, ma anche in virtù
di nascenti preoccupazioni per l’equilibrio sociale e politico a livello mondiale.
L’essenza del problema è stata tratteggiata con mirabile sintesi da Chi scruta il
mondo dall’osservatorio della Verità; anche Giovanni Paolo II, infatti, nella Sua
illuminante lungimiranza, così si è espresso: ”Sarà sufficiente scommettere sulla
rivoluzione tecnologica in corso, che sembra essere regolata unicamente da criteri di
produttività e di efficienza, senza un riferimento alla dimensione religiosa dell’uomo e
senza un discernimento etico universalmente condiviso?”
2
.
Da più parti, dunque, lo stesso messaggio, il medesimo appello a valori che rendano
giustizia alla speciale dignità della persona umana, si è recentemente elevato; è
compito dell’economista varcare la soglia delle apparenti difficoltà, e studiare sistemi
che ripropongano, con rinnovata avvedutezza e moderna capacità scientifica, l’
invocata riconciliazione tra etica ed economia.
Le due sfere dell’agire umano, quasi contrapposti soggetti di una dialettica hegeliana,
descritta con arguzia dalla citata battuta di Kraus, trovino una sintesi che ambedue
le comprenda, dimostrando la validità di una teoria che esuli da un oramai superato
individualismo.
Sulla scorta di queste riflessioni, ho voluto dare un umile contributo alla causa
dell’uomo. Se anche una sola persona, al termine di questo scritto, muterà di poco la
sua tradizionale visione dell’economia, il mio sforzo avrà conseguito il premio sperato.
2
Dal discorso di S.S. Giovanni Paolo II in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù , Toronto, 27
Luglio 2002.
CAPITOLO PRIMO
Etica ed economia
“Il mondo è in pericolo non a causa
di quelli che fanno del male, ma di
quelli che guardano e lasciano
fare”
A. Einstein
1. Il problema
Non è fuori luogo affermare che il mondo cosiddetto “sviluppato” abbia vissuto
in questi mesi la sua più grave crisi d’immagine e di credibilità. La crisi è stata
definita “l’11 settembre del capitalismo”, tuttavia, fortunatamente, non si tratta di
una crisi mortale, perché è difficile uccidere un sistema economico in continua
evoluzione e che spesso, pur subendo laceranti ferite, ha saputo risollevarsi e
riacquistare fiducia anche prendendo coscienza dei suoi errori. Essi sono il risultato
delle differenti disposizioni della natura umana, non sempre mossa dai suoi più
nobili ideali, qualora trascuri di volgere lo sguardo alla dimensione della collettività,
che dal suo comportamento viene continuamente trasformata. Il vivere in comune
non costituisce un’opzione per la persona, perché la scelta non è mai tra vivere in
solitudine o vivere in società, ma tra vivere in una società sorretta da certe regole,
oppure da altre. La storia, però, ci dimostra con grande chiarezza che, anche qualora,
con non poco sforzo, si riconoscesse la cogente necessità di queste regole, non si è
ancora garantita la solidità del sistema che su di esse si fonda. Non soltanto, infatti,
sarà indispensabile che esse siano effettivamente rispettate, ma debbono,
primieramente, essere condivise e non coartate, essere naturalmente inscritte nella
coscienza comune, perché, altrimenti, il rigetto causato sarebbe ben più devastante
della loro assenza. In ogni ambito del vivere umano, ci viene continuamente richiesto
di dare foggia a queste regole, alcune strettamente legate alle differenti sensibilità,
altre, universalmente riconosciute. In ogni campo dell’agere, la scienza, nelle sue
molteplici discipline, è chiamata ad assolvere l’arduo compito di reperire nuovi
2
percorsi d’analisi che, senza abbandonare la sua illimitatezza, sappia coniugarla con
il fondamento per antonomasia d’ogni sistema valoriale, che è da considerarsi il
rispetto per l’ineguagliabile dignità dell’essere umano.
A chi opporrà vecchi pregiudizi, paventando il timore che qualcuno limiti, in nome
della morale, lo sviluppo della scienza, si risponderà che, non soltanto, come asseriva
Pascal, valori e conoscenza scientifica non necessariamente devono opporsi tra loro,
ma che, a fronte di uno sviluppo non arrestabile della scienza, ben altra cosa è la
tecnica, ovvero la concreta attuazione d’ogni teoria. Questa deve essere oggetto di
ridimensionamento, qualora si riveli contraria all’auspicabile progresso dell’uomo, si
ritorca contro il suo creatore e lo renda oggetto, non solo passivo, ma perfino
perdente del suo studio.
Il lungo percorso della società civile ci ha dimostrato, ad esempio, come un
sistema politico ed economico, che non consideri l’integrità morale e la competenza
dei suoi protagonisti tra i valori di base del sistema stesso, sia destinato a crollare.
L’economia quindi, non può sottrarsi a questo riesame e dovrà trovare la forza per
superare, o magari dimostrare di averlo già implicitamente fatto, i dogmi creatisi
durante l’illuminismo positivista, e non ancora solennemente abiurati per la
preoccupazione di perdere il necessario legame con la realtà.
La più celebre di queste ipotesi, che ancora connatura la scienza economica, è
quella stabilita dall’Utilitarismo, secondo cui l’uomo agirebbe spinto esclusivamente
dal proprio interesse personale e troverebbe, nella massimizzazione della sua utilità,
del suo benessere, il limite tragicamente imposto al suo agire. Un’analisi di questo
tipo è piacevolmente lineare, rappresentabile senza eccessiva difficoltà e porta dalla
sua un’interpretazione compiacente di alcune espressioni del riconosciuto padre della
scienza economica Adam Smith. Naturalmente, come al solito, la realtà è sempre più
complessa della teoria, ma questa ha saputo resistere indenne nei secoli, con scarsa
fiducia nell’uomo, a ben vedere, ma poi resa quasi apodittica dai successivi e
fortunati modelli che su di essa si fondano. Mi riferisco, ad esempio, alla teoria
dell’equilibrio economico generale che trova il suo valido complemento nell’economia
del Benessere di Pareto, basata sulla utilità e sulle curve di indifferenza che la
rappresentano.
3
2. L’Utilitarismo
Jeremy Bentham, quando descrisse l’uomo come un essere passivo, edonista,
individualista e fondamentalmente egoista, lo fece senza tema di smentita, sia perché
sarebbe stato sufficiente dare uno sguardo alla realtà per accertarsene, sia perché
sapeva di non dire nulla di nuovo. La filosofia greca, da Aristippo ad Epicureo, ne
aveva già ampiamente parlato; Thomas Hobbes, qualche secolo primo, aveva
suffragato la sua nota visione pessimistica della natura umana (homo homini lupus),
teorizzando che l’uomo agisse condizionato dalle forze materiali che convergono su di
lui, perseguendo istintivamente la propria conservazione. Esistevano quindi soltanto
sostanze materiali e, nella cristallina trasparenza di un materialismo meccanicistico,
la scienza era rigorosamente determinata nello studio di prevedibili comportamenti.
Se questa lunga tradizione non fosse stata sufficiente, avrebbe trovato sicuro
conforto economico anche nel pensiero mercantilista, che non aveva alcuna fiducia
nella capacità della ragione di indicare concetti morali o politici validi in assoluto, in
perfetta sintonia con Locke, spintosi a qualificare il comportamento umano buono o
cattivo, sotto il profilo morale, a seconda che fosse oppure no idoneo a promuovere la
felicità del singolo. Ma se l’autore della Lettera sulla Tolleranza non riuscì a dare una
risposta conclusiva al dilemma posto dall’esigenza di conciliare certe caratteristiche
umane indesiderabili, quali l’avidità e l’avarizia, con gli interessi della comunità, fu
invece in grado di convincere i suoi coevi Bernard de Mandeville che illustrò
brillantemente il problema nella celebre satira La favola delle api: Vizi privati,
pubbliche virtù1.
Da una rappresentazione esagerata degli effetti economici della ricerca del
tornaconto personale, Mandeville trasse la conclusione che il benessere generale
dipendeva dall’efficacia dei moventi egoistici, considerati la molla esclusiva del
comportamento economico individuale, tanto da affermare l’incompatibilità del
commercio con l’onestà, ché l’osservanza delle regole di quest’ultima portava alla
rovina la comunità. “Nulla – sentenziò Mandeville – spinge gli uomini ad essere
servizievoli se non i loro bisogni, che è saggio mitigare, ma che sarebbe follia
eliminare”.
Assolutamente compatibile con il pensiero dell’epoca, dunque, il principio di
utilità ne rappresentava un abile sunto: “…si intende quel principio che approva o
1
Un breve riassunto di questa satira è riportato in Appendice, pp. a-c.
4
disapprova ogni azione, a seconda che questa ha tendenza ad aumentare o diminuire
la felicità della parte il cui interesse è in questione”2.
Risolto quindi, anche il problema di conciliare la motivazione dell’avidità, quale unico
motore del comportamento umano, con il benessere collettivo, la scienza economica
vedeva consolidarsi la sua neutralità, affrancandosi da ogni logica di carattere etico.
Infatti, se l’agire economico è di per sé orientato al bene, si afferma implicitamente
che esiste una sfera delle relazioni sociali – quelle che transitano per il mercato – che
non ha nessun bisogno di essere assoggettata al giudizio morale. L’azione economica
ha l’innegabile vantaggio, a differenza di ogni altro tipo di azione umana, di eludere
la moralità senza esservi contraria e, non soltanto, spinto dal proprio individuale
interesse, l’individuo agisce correttamente per sé, ma ottimizza anche l’utilità
collettiva, giovandosi della attitudine del mercato a sanare ogni contrasto per un
superiore benessere. Giunto a questo punto, il discorso economico, beneficato dalla
logica dell’interesse, pacifico compositore di ogni contrasto, può spiegare le vele per
divenire una delle più solide scienze sociali, autonoma da ogni altra, ricca del
patrimonio che il suo celebre fondatore gli aveva conquistato.
3. Adam Smith: l’elogio dell’egoismo?
Quando la felicità o la miseria degli altri dipendono
esclusivamente dalla nostra condotta, non osiamo, come ci
suggerirebbe l’egoismo, preporre l’interesse di un singolo a
quello dei tanti. Ciò che è in noi non tarda a ricordarci come
diamo troppa importanza a noi stessi e troppo poca agli
altri e che, agendo in questo modo, ci rendiamo l’oggetto
dell’indignazione e del disprezzo dei nostri simili.
ADAM SMITH
Il più famoso docente di filosofia morale a Glasgow, probabilmente non avrebbe
apprezzato che l’imponente mole della sua acuta riflessione sulle cause della
Ricchezza delle Nazioni, venisse ricordata dai suoi poco fedeli epigoni, per una sua
sola espressione, destinata a divenire la più autorevole consacrazione della teoria
utilitaristica. Scrive Smith nel 1776:
“Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo
il nostro desinare, ma dalla considerazione che questi hanno per il proprio
2
Bentham, Economic Writings, Vol. III, p.430; ed. it . Introduzione ai principi della morale e della legislazione,
UTET, Milano, 1998
5
interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo, e ad
essi parliamo dei loro vantaggi e non delle nostre necessità”3.
Anche chi conosce molto poco della disciplina economica, si stupirebbe che un insigne
cattedratico di morale riassumesse tutto il suo pensiero, circa i complessi
comportamenti che originano gli scambi, soltanto con un’asciutta ed icastica
espressione che pare attribuire all’egoismo, tra le meno lodevoli “virtù” dell’animo
umano, il provvidenziale compito di assicurare l’equilibrato svolgimento delle
operazioni economiche.
Non è così, infatti, poiché Smith spese invero gran parte della sua esistenza per
sostenere la necessità della “simpatia” nei comportamenti che implicano relazioni con
gli altri e per esplorare il ruolo dei “sentimenti morali” nella costruzione di un mondo
migliore. A questi ultimi dedicò un’intera opera, la Teoria dei sentimenti morali
(1759), in cui studiò estesamente il ruolo dei codici morali di comportamento, buone
ragioni per andare contro i dettami dell’interesse egoistico:
- simpatia ( “le azioni più squisitamente umane non richiedono negazione di sé,
o grande uso del senso di priorità”, e “consistono esclusivamente nel fare ciò
che tale generosa simpatia ci spingerebbe spontaneamente a fare” );
- generosità ( “diversamente accade con la generosità”, quando “sacrifichiamo
qualche nostro profondo e importante interesse di fronte a un analogo
interesse di un amico o un superiore” );
- senso della collettività ( “ quando egli confronta quei due oggetti fra di loro,
non li vede nel modo in cui gli apparirebbero normalmente, ma così come
appaiono alla nazione per la quale combatte” )4.
Infine, per quanto concerne sempre quest’ultima opera, si legge ad esempio, tra le
tante, la seguente perentoria affermazione: “Per quanto egoista si possa ritenere
l’uomo, sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principi che lo rendono
partecipe delle fortune altrui e che rendono per lui necessaria l’altrui felicità,
nonostante da essa egli non ottenga altro che il piacere di contemplarla”.
Tuttavia, l’annosa questione sul macellaio-birraio-fornaio resta aperta; che intendeva
realmente dire Smith in quel passaggio? Evidentemente, Smith sostiene che il
perseguimento dell’interesse egoistico sarebbe sufficiente a motivare lo scambio di
merci, e non abbiamo necessità di ricorrere all’etica per spiegare perché il fornaio
3
Smith A., La ricchezza delle nazioni, UTET, Torino, 1975
4
Smith, A., The Theory of Moral Sentiments, 1790
6
vuole vendere il pane e noi vogliamo comprarlo, e come tale scambio ci avvantaggi
entrambi. Questa incontrovertibile affermazione non fa altro che confermare l’ovvia
constatazione che molte delle nostre azioni sono in realtà guidate dall’interesse
personale, e che alcune di esse generano effettivamente buoni risultati. Ciò non
significa ridurre, come è stato fatto, l’intero comportamento umano ad un supino
schiavo dell’egoismo; l’eccellente osservazione è una spiegazione soltanto parziale
della realtà, ed è divenuta strumentale all’allontanamento dell’economia dall’etica,
verificatosi insieme allo sviluppo dell’economia moderna.
Trascurando la vasta produzione di Smith e concentrandosi solamente su alcuni
brani selezionati, si è fatto apparire il padre della scienza economica moderna come
un ideologo dalla mentalità angusta, unicamente teso ad esaltare le fondamentali
virtù del comportamento egoistico. “Se alcuni uomini vivono nella banalità fin dalla
nascita e altri vi si ritrovano in seguito, Smith ha avuto la sventura di vedersene
gettata addosso in grande quantità”5.
Infatti, non si sarebbe spinti da onestà intellettuale, non soltanto qualora si
ignorasse che il Nostro abbia presupposto, per la validità della sua tesi, l’esistenza di
un sistema fondamentale di “norme di moralità civile ed economica”, ma anche se si
ritenesse che Smith avesse inteso ridurre tutte le operazioni economiche unicamente
nello scambio. E’ invece da intendere che il mercato ha la stretta necessità di
fondarsi su regole di onestà e fiducia, che non rallentino rovinosamente le
transazioni e, in completa vigenza di queste, esso sarebbe in grado di funzionare
persino se le motivazioni ulteriori dei soggetti che ne fanno parte fossero di natura
esclusivamente autointeressata. Inoltre, che ne sarebbe di un sistema economico
basato esclusivamente sullo scambio, se a monte non vi fosse il processo chiave e
generante della produzione? I problemi motivazionali che la riguardano sono ben
distinti da quelli propri dello scambio, e spesso sono caratterizzati dallo spirito di
squadra, dalla coscienziosa operosità, dall’affidabilità in assenza di controllo e dalla
cura per l’efficienza. Forse che si possano ignorare tutti questi fondamentali attributi
di un animo collaborativo, sperando di sintetizzarli in un unico movente egoistico? E
ancora - un tema che verrà più diffusamente trattato in seguito - sarebbe realistico
trascurare che l’efficienza del mercato è profondamente influenzata dal grado di
fiducia fra le parti coinvolte? Se l’interesse egoistico fosse l’unica preoccupazione (e
l’unica determinante del comportamento), vi sarebbero molte occasioni in cui
5
Sen, Amartya K., La ricchezza della ragione - Denaro, valori identità, il Mulino, Bologna, 2001, p. 93
7
abbandonare a se stessa la propria controparte sarebbe senza dubbio sensato. Se le
attività commerciali si basassero esclusivamente sul ricorso alla legge diverrebbero
estremamente costose e penosamente lente.
Comunque, indipendentemente da quale ragionamento si voglia seguire,
sarebbe difficile ignorare l’esistenza di tali codici di comportamento per l’efficienza
delle transazioni. Un mondo degli affari – afferma il Nobel Amartya Sen – privo di
codici morali, sarebbe non solo povero normativamente, ma anche molto debole in
termini di prestazioni6.
4. Il distacco sanabile
La riportata interpretazione della logica smithiana è arrivata indenne fino a
noi, tanto da annichilire il ruolo della motivazione umana, determinante non
secondaria delle scelte. Questa distorsione non è di scarso rilievo, se si ritiene che
l’economia debba interessarsi alle persone reali. “E’ difficile credere che le persone
reali possano essere del tutto ininfluenzate dalla portata dell’esame di sé indotto
dalla domanda socratica: ‹Come bisogna vivere?›. E’ possibile che le persone studiate
dall’economia […] si attengano esclusivamente alla rudimentale testardaggine che
attribuisce loro l’economia moderna?”7. Evidenziò questa paradossale situazione in
cui la scienza economica si stava, inavvertitamente, scostando dal reale, anche
Morgenstern (l’economista austriaco co-fondatore della teoria dei giochi): “La scienza
economica sta studiando situazioni in gran parte ipotetiche che non hanno nessuna
somiglianza con la realtà (...). Il mondo reale è profondamente diverso”8.9
Ad un’attenta analisi, però, si rileverà che studiare i rapporti tra l’etica e
l’economia, significa riannodare gli antichi legami che hanno visto l’origine della
nostra scienza, ai suoi albori nulla più di uno strumento della politica che, come
insegnava saggiamente Aristotele, deve avere come sommo fine il bene umano “più
bello e più divino se riguarda un popolo e le città”. La ricchezza, infatti, che pare
6
ibidem, p. 96
7
Sen A., Etica ed economia, Laterza, Roma-Bari, 1988, p.8
8
O Morgenstern, Il disagio degli economisti, La Nuova Italia, Firenze, 1976, p.73
9
“può essere interessante ricordare che il divorzio consumato dalla teoria economica fra giudizio economico e
opzioni morali -- un divorzio favorito dall’idea secondo cui la scienza economica ha a che fare solo con i mezzi e
con i fini -- ha finito col rendere la disciplina una tecnica di pensiero che rischia di non far più presa sulla realtà.
Eppure, già J.S.Mill nella prefazione ai suoi Principles ammoniva: ’Eccetto che su questioni di mero dettaglio,
non vi sono questioni pratiche, neppure tra quelle che più si avvicinano al carattere delle questioni puramente
economiche che possono essere decise solo sulla base di premesse economiche ’”. Stefano Zamagni, Economia e
etica, Ave, Roma 1994, p.7
8
essere il fine dei commerci, non è il bene che ricerchiamo ma “è un mezzo per un
qualcosa d’altro”10. Pronunciati gli scopi, anche la filosofia si troverà a scontrarsi con
l’inestricabile coacervo delle ambizioni umane, non sempre aduse a facili abnegazioni
per un bene comune; spesso allora, le persone non agiranno in modi che potranno
difendere sul piano morale, ma è altrettanto doveroso riconoscere che le scelte etiche
non possono essere del tutto prive di rilievo per il comportamento umano effettivo. Lo
iato creatosi è stato poi facilmente esteso dal successo riscosso dall’approccio meno
filosofico e più “ingegneristico” dell’economia. Quest’ultimo ha apportato vantaggi
enormi e contributi indispensabili, ma, nella più completa logica della dualità,
avrebbe potuto dare e ricevere molto, rendendo più produttiva la scienza stessa e
investendola di nuove potenzialità nello studio del comportamento umano,
anodinamente sintetizzato nelle scelte economiche. Tanto maggiore sarebbe stato il
successo conseguibile da quando l’economia ha cessato di essere una disciplina
deduttiva, ancorata ad indefettibili leggi universali, acquistando il prezioso carattere
induttivo che gli ha permesso di trovare nella realtà il continuo modello di studio,
riferimento ed autoverifica.
5. La logica delle cose
Prima di analizzare come l’etica possa influire sul comportamento umano, sarà
utile valutare se i principi tradizionali dell’economia siano con essa compatibili, se
dunque non costituiscano già un corpus di affermazioni tanto consolidate da non
essere più emendabili. Uno dei più indiscussi di questi principi è quello per cui si
suppone che gli uomini si comportino razionalmente, da ciò consegue linearmente,
che studiare il comportamento generato dal corretto uso della ragione, significhi
descrivere quello effettivo. Innanzitutto si rileva che, qualora si accettasse come
appropriata l’ipotesi di comportamento razionale propria della teoria economica
convenzionale, non risulta necessariamente sensato assumere che le persone si
comportino effettivamente nel modo razionale dell’ipotesi. L’uomo è, per sua natura,
caratterizzato dalla mancanza della perfezione, ed è quindi frequente che possa
compiere errori, esperimenti o cadere vittima di sbagliate interpretazioni della
10
Cfr., Etica Nicomachea, in Opere, Laterza, Roma-Bari, 1985, vol. 7, p. 84
9
realtà. “Il tipo freddamente razionale può predominare nei nostri libri di testo, ma il
mondo reale è ben più ricco”11.
Si potrebbe, comunque, obiettare che l’utilizzo di modelli razionali limiti, di fatto, gli
errori che una teoria basata su uno qualsiasi dei più numerosi comportamenti
irrazionali potrebbe generare. Non mancano, tuttavia, insigni economisti che
abbiano percorso la strada della non unicità del comportamento razionalmente
prevedibile, per aprire il varco ad altri meno ponderabili moventi delle azioni.
Fatto questo appunto, e volendo proseguire nel solco tracciato dall’economia
tradizionale, il comportamento razionale segnalato viene usualmente contraddistinto
da due caratteristiche chiave: 1. la coerenza interna di scelta e 2. la massimizzazione
dell’interesse personale.
1. è difficile credere che la coerenza interna delle scelte possa di per sé essere una
condizione adeguata di razionalità. Se, ad esempio, una persona fa esattamente il
contrario di quello che la aiuterebbe ad ottenere ciò che vorrebbe, e lo fa con una
inflessibile coerenza interna (scegliendo cioè sempre il contrario di ciò che
promuoverebbe il raggiungimento delle cose che vuole e cui assegna valore) questa
persona può molto difficilmente essere considerata razionale. La scelta razionale
deve richiedere almeno qualcosa riguardo alla corrispondenza tra ciò che si cerca di
ottenere e il modo in cui si agisce per farlo, e se è vero che esso implichi pure una
certa dose di coerenza, non può questa essere sufficiente; si valuti inoltre che non la si
potrà delimitare entro l’ambito puramente interno, in quanto la coerenza può essere
conforme a motivazioni esterne alla scelta, come preferenze individuali, valori,
imperativi derivanti da un’appartenenza ad una collettività, status, etc…
2. per incrinare qualche certezza sul principio cardine della scienza economica, sarà
bene dedicarvi un intero paragrafo.
6. Oltre l’utilitarismo
L’interpretazione della razionalità in rapporto all’interesse personale è
piuttosto antica, risale, come detto, all’illuminismo positivista e costituisce una delle
caratteristiche principali della teorizzazione economica dominante. Una delle più
semplici osservazioni, derivante da un’analisi non troppo approfondita della realtà,
riguarda il motivo per cui dovrebbe essere peculiarmente razionale perseguire il
11
Sen A., Etica ed economia, op. cit., p.18
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proprio interesse personale ad esclusione di qualsiasi altra cosa. Naturalmente può
non essere per niente assurdo affermare che la massimizzazione dell’interesse
personale non è irrazionale, ma sembra straordinario sostenere che tutto ciò che non
sia massimizzazione dell’interesse personale debba essere una forza irrazionale.
“Cercare di fare del proprio meglio per raggiungere ciò che si vorrebbe raggiungere
può far parte della razionalità, e questo può includere il perseguimento di obiettivi
non dettati dall’interesse personale ai quali diamo valore e desideriamo giungere.
Vedere qualsiasi allontanamento dalla massimizzazione dell’interesse personale
quale prova di irrazionalità significa negare all’etica un ruolo nell’effettiva presa di
decisioni”.
12
Che l’egoismo sia largamente diffuso e possa essere un movente primario delle
azioni umane è difficilmente negabile, ma che la razionalità si esaurisca
esclusivamente nel suo perseguimento è un’ipotesi molto meno sostenibile.
Comunque, anche volendo tralasciare per un attimo il discorso della razionalità e
mettendo in luce il fondamento dell’utilitarismo, è ipotizzabile asserire che l’“uomo
economico” che persegue i propri interessi sia la migliore approssimazione possibile
al comportamento degli esseri umani, almeno in campo economico? Questa ipotesi
non manca certo di autorevoli sostenitori; George Stigler (1981) nelle sue Tanner
Lectures, ne ha proposto un’articolata difesa sentenziando che “viviamo in un mondo
di persone ragionevolmente ben informate che agiscono in modo intelligente nel
perseguimento del proprio interesse personale”
13
. Anche Stigler, però, all’evidenza,
incorre in un errore metodologico quando, pur asserendo che “…in situazioni di
conflitto fra interesse personale e valori etici…il più delle volte la teoria
dell’interesse personale vincerà”
14
, ammette che “l’ipotesi di massimizzazione
dell’utilità è difficile da verificare…per il fatto che non esiste un corpus accettato di
credenze etiche la cui coerenza con l’ipotesi possa essere sottoposta a verifica”
15
. Se,
infatti, fosse così patente l’ipotesi della massimizzazione dell’utilità, non sarebbe
necessario effettuarne una verifica dei risultati, ricorrendo all’ipotesi contraria e
cercando invano delle cause supposte non razionali.
12
ibidem, p.23
13
Economics or ethics? , in S. McMurrin (a cura di), Tanner Lectures of Human Values, vol. II, Cambridge
University Press, Cambridge 1981 [tr. It. L’economista e l’intellettuale, Sansoni, Firenze 1967], p.190
14
ibidem, p.176
15
ibidem, p.190