fiduciari, di una rete che può tendere intorno a sé medesima fino a costituire una
comunità, può far sì che i rapporti con tutti i soggetti in qualche modo interessati alle
sorti dell’impresa non profit, possano avvenire a condizioni più vantaggiose di quelle
offerte dalle imprese capitalistiche. L’impresa non profit è infatti in grado di fornire
delle controprestazioni nelle quali il prezzo in denaro non è l’unico elemento
identificativo, ma è integrato da ulteriori elementi.
La prospettiva di una Banca Etica dedicata al finanziamento del settore non profit si
basa anche su questi elementi, ovvero l’offrire una serie di controprestazioni il cui
valore, per i soggetti che le ricevono, contiene anche una componente aggiuntiva di
ulteriori prestazioni, che rende il valore complessivo dei loro beni e servizi più
allettante se confrontato con gli altri presenti sul mercato.
Le imprese profit sono oggi costrette a investire notevoli risorse finanziarie per
lanciare dei segnali reputazionali forti, pena la scomparsa dal mercato
1
. Se invece
beni e servizi sono offerti da soggetti che al loro interno già hanno la capacità
reputazionale di lanciare questi messaggi in modo autentico a soggetti in grado di
identificarli, è chiaro che agli occhi di costoro i prodotti delle imprese profit, rispetto
a quelli delle imprese non profit, sono dei sostituti imperfetti.
Affermatesi in particolare nell’area dei servizi sociali, le imprese non profit si sono
trovate di fronte all’esigenza di reperire risorse finanziarie per far fronte alle
1
Si pensi a riguardo alle campagne promozionali Golia-WWF, in cui viene fatto credere ai
consumatori che mangiando una caramella di quella marca si aiuteranno gli orsi bianchi, o alla linea di
detergenti “verdi” Atlas, prodotta dalla Henkel, la stessa del Dixan, con cui ad un costo nettamente
maggiorato rispetto a prodotti simili, viene venduto al cliente un prodotto dal minore impatto
ambientale.
necessità derivanti dall’allargamento dei servizi
2
e per fare il salto di qualità dallo
stadio di volontariato di base alla costituzione di una vera e propria impresa sociale
3
.
Le organizzazioni non profit non dispongono solitamente delle professionalità
necessarie per attuare una efficiente raccolta di fondi ed anche la loro capacità di
autofinanziarsi è limitata,
visti gli scarsi margini esistenti tra le entrate e le uscite; ne consegue che il ricorso al
credito rimane sovente l’unica opzione possibile e da qui nascono i problemi per il
settore non profit, dal momento che i parametri utilizzati dalle istituzioni creditizie
per giudicare l’affidabilità e la redditività dei progetti da finanziare mal si adattano a
soggetti la cui ricchezza è nel capitale umano e i cui utili sono percepiti dalla società
nel suo complesso, piuttosto che da singoli individui. D’altra parte il finanziamento
del settore non profit è cosa troppo importante e delicata, per i risultati in gioco, per
affidarsi ai flussi irregolari della beneficenza dei singoli o dei soggetti istituzionali,
quali le Fondazioni bancarie, le cui erogazioni hanno spesso motivazioni politiche.
Si pone allora la necessità di creare strumenti dedicati al finanziamento delle
organizzazioni non profit, con una componente professionale di risorse umane ed una
gestione efficiente dell’attività di credito. L’esperienza quasi ventennale delle
cooperative finanziarie di Mutua Auto Gestione e delle banche alternative estere
dimostra che è possibile creare e gestire con profitto (ovviamente reinvestito
nell’attività) una struttura creditizia specializzata nel finanziamento e nel supporto
amministrativo alle iniziative del terzo settore, a patto di poter contare su di un forte
2
A sua volta favorito dalla crisi dello Stato sociale e dalle trasformazioni in atto nei sistemi di welfare
in atto nei Paesi occidentali.
3
Tale tematica è affrontata in modo approfondito al par. 1.1.
radicamento associativo locale e su di una collaborazione della base riguardo la
promozione dell’iniziativa e la scelta degli impieghi.
La promozione della Banca Etica da parte di ventuno tra associazioni e cooperative
di rilevanza nazionale (cui ne sono aggiunte successivamente alcune decine),
ciascuna con una consistente base associativa, testimonia il momento favorevole
all’iniziativa, che sembra avere buone possibilità di affermazione in campo
nazionale, nonostante l’opposizione delle banche tradizionali.
Esamineremo dunque le origini dell’economia sociale e del concetto di impresa
sociale, il dibattito tra le diverse definizioni di quest’ultima e le prospettive
emergenti secondo cui il terzo settore si dovrebbe sostituire sia al mercato (come
creatore di opportunità di lavoro) sia al welfare state (come erogatore di servizi alla
collettività, divenuti troppo onerosi per lo Stato).
Ci soffermeremo in seguito sugli elementi che distinguono una finanza basata su
principi etici, soprattutto rispetto ai tanti prodotti finanziari pseudo-etici apparsi negli
ultimi anni.
Analizzeremo poi il complesso delle organizzazioni fondatrici, distinguendole
secondo parametri coerenti con la struttura del presente lavoro. Successivamente
considereremo in dettaglio le caratteristiche di ognuno di tali soggetti (la storia, le
attività svolte in passato e attualmente, le motivazioni per l’adesione al progetto di
una banca etica) sulle caratteristiche di ognuna delle organizzazioni fondatrici della
Banca Etica italiana, per evidenziare il percorso che le ha condotte a promuovere
un’iniziativa certamente rivoluzionaria nei contenuti. Successivamente cercheremo di
individuare le più significative esperienze internazionali nel campo delle banche
alternative e della finanza etica promossa sotto altre forme (cooperative finanziarie di
solidarietà internazionale, Fondazioni) evidenziandone la differente matrice
(ambientalista, cooperativa, confessionale).
La parte operativa del lavoro sarà dedicata all’analisi di un campione rappresentativo
di soci sottoscrittori della Banca Etica localizzati nelle regioni Marche e Romagna
(dove le esperienze cooperative sono senz’altro diffuse, al contrario della proposta di
investimenti finanziari etici a beneficio del terzo settore che si trova ancora in una
fase embrionale), con lo scopo di costruirne un profilo attendibile e individuarne i
punti in comune in vari campi, così come le diverse esperienze e gli stili di vita.
Un ringraziamento particolare per gli utili spunti di riflessione forniti va al dott.
Roberto Giorgi del Dipartimento di Economia dell’Università di Ancona e al dott.
Raffaele Gregorini, referente della cooperativa Verso la Banca Etica. Ringraziamo
anche per la concreta collaborazione prestata nella realizzazione del lavoro il dott.
Mario Cavani dell’Organizzazione Non Governativa Overseas, il dott. Bruno di
Monte della sede Uisp di Bologna e il dott. Lorenzo Vinci della cooperativa Mag 4
Piemonte.
CAPITOLO PRIMO
UN APPROCCIO TEORICO AL SETTORE NON PROFIT
1.1. GLI ATTORI DEL SETTORE NON PROFIT: L’IMPRESA SOCIALE.
“Impresa sociale” è un’espressione utilizzata nel mondo della ricerca accademica ma
non solo, da circa un decennio, per indicare situazioni molto diverse tra loro. La
prima definizione proposta dagli operatori è stata quella di << impresa che tende
costantemente a massimizzare la propria utilità sociale>> ; in termini concreti questo
significa << guidare la propria impresa ponendosi al di fuori di essa, cioè (...)
ragionare non solo in termini di sviluppo della propria impresa, ma in termini di
sviluppo di qualcosa che sta all’esterno di essa, vale a dire il benessere collettivo.>>
4
Nei luoghi ove tale realtà è nata, viene oggi intesa come il creare imprese, o meglio,
intraprese
5
che producano valore aggiunto, così che l’assistenza diventi impresa
sociale, impiegando risorse umane e materiali “dimenticate” dal mercato, che non le
considerava degne di attenzione. Il progetto dell’impresa sociale nasce quando il
volontariato organizzato decide di superare la propria tradizionale diffidenza nei
confronti degli aspetti aziendalistici ed economici, dovuta sia ad opinioni
pregiudiziali, sia ad un’effettiva carenza culturale nell’avvalersi degli strumenti
d’impresa.
4
La definizione é ripresa dall’intervento di Stefano Lepri in occasione della presentazione del 5°
Annuario sull’associazionismo sociale, Iref, Roma, 1995.
5
L’impresa, nella sua definizione classica è considerata << una combinazione di fattori produttivi , che
si caratterizza per la tecnologia adottata, dalla quale dipendono la natura dei beni capitali (...) e,
quindi, i fattori variabili (per esempio il lavoro) che devono essere impiegate>>. La locuzione
“intrapresa” (impiegata a volte come sinonimo di impresa) ha qui il significato derivante dal verbo
intraprendere, ovvero l’avvio di un’attività che si prospetta a lungo termine e molto impegnativa.
AAVV, Dizionario dell’economia e del diritto, Garzanti, Milano, 1991.
La dinamica dell’impresa sociale, sottolineano i suoi sostenitori, è fondata sulle
energie che nell’economia tradizionale vengono lasciate inattive.
Alcuni identificano le risorse essenziali impiegate dall’impresa sociale dividendole in
quattro grandi categorie: risorse umane non essenziali, culture d’impresa non
utilizzate, risorse pubbliche non utilizzate, risorse considerate come costi.
6
a) Le risorse umane non utilizzate sono costituite da quelle categorie di cittadini
(soprattutto assistiti: anziani, disoccupati, handicappati, pensionati, moltissime
donne) esclusi dalla produzione e che vengono spesso destinati alla non-
produzione.
b) Le culture d’impresa non utilizzate sono: le capacità imprenditoriali, di
innovazione e invenzione, la propensione al rischio, esistenti nei mondi marginali
che vengono relegate nel ghetto dell’economia informale, quando non sono
addirittura impedite nella loro manifestazione. Questa situazione nasce anche dal
relegare le tecnologie più semplici, fruibili anche dai non iniziati (quindi anche
dalle categorie di cui al punto a, ai margini del sistema produttivo, che tende in tal
modo alla loro progressiva eliminazione.
c) Le risorse pubbliche sono incalcolabili nel nostro Paese: si va dall’enorme
patrimonio costituito dai beni culturali e ambientali, ai terreni del demanio, agli
edifici pubblici completati e mai utilizzati, a tutti quei luoghi pubblici lasciati
all’incuria dell’uomo e degli agenti naturali.
d) Le risorse considerate come costi: sono gli apparati assistenziali e quelli pubblici
in generale, gli amministratori, gli addetti alla formazione, e tutti coloro che, pur
avendo notevoli competenze e costituendo un grande insieme di risorse,
funzionano solo come costo puro.
L’impresa sociale non rinnega il mercato, anzi ne è attore consapevole e partecipe, in
essa l’assistenza non si confonde con l’assistenzialismo. Colui che vi lavora è un
assistito, ma il lavoro che svolge non è lavoro assistito bensì lavoro di qualità,
definito come attività; il ruolo del lavoro è quello di trasformare lo stato dei rapporti
tra operatori e utenti, in una situazione ove gli assistenti non erogano lavoro agli
6
La classificazione qui operata è proposta in DE LEONARDIS, MAURI, REVELLI, L’impresa
sociale, Anabasi, Milano, 1994, pag. 21 e successive.
assistiti, ma lavorano assieme ad essi nello svolgimento di un’attività produttiva.
Questa situazione è ben diversa ad esempio da quella esercitata in un centro di
assistenza per spastici o in un laboratorio per handicappati mentali, luoghi che
confermano la diversità dei soggetti assistiti e si possono considerare come riserve
protette.
7
La prospettiva fin qui analizzata è quella proposta dai cosiddetti “basagliani”,
derivante dalle esperienze messe in atto per la prima volta nell’ospedale psichiatrico
di Trieste a partire dalla seconda metà degli anni settanta; il lavoro normale diventa
allora uno spazio che assume finalità terapeutiche per le persone che si trovano in
situazione di disagio, in pratica viene svolto lavoro vero ma con una funzione
sociale.
Possiamo individuare almeno altre tre modalità di presenza economica con una
finalità sociale:
• nella definizione promossa da Federsolidarietà l’impresa sociale diventa
sostanzialmente un modo per privatizzare il sistema dei servizi sociali
pubblici
8
;
• la proposta del libro bianco sul lavoro della Commissione Europea fa
riferimento ad una specie del mercato del lavoro finalizzato ad occupare
(in attività socialmente utili) coloro che non trovano posto, o sono stati
esclusi, dal mercato del lavoro competitivo
9
;
• la proposta di altri studiosi fa perno sulle sinergie che si possono
determinare tra diversi soggetti (profit, non profit pubblico e non profit
privato) del territorio per trovare soluzioni e progetti che generino un
7
Queste considerazioni derivano dalle esperienze citate in DE LEONARDIS, op. cit.
8
Tra i vari testi degli esponenti di Federsolidarietà ci si può riferire a F. Scalvini, Serve un’impresa
sociale?, in rivista del Volontariato n°5/95, Fondazione Italiana per il Volontariato, Roma.
9
Si veda a proposito Qualità equità, n° 1/96, Editrice Liberetà, Roma.
“valore aggiunto sociale” e garantiscano i diritti di cittadinanza agli
esclusi
10
.
La prima definizione fa riferimento a tre fattori principali, che spiegano anche perché
proprio in questo momento in Italia si avverte il bisogno di approntare iniziative con
una presenza organizzata di forza lavoro remunerata e impegnata a tempo pieno o
parziale. Il primo elemento da considerare è la necessità di garantire la copertura
continuata di determinati servizi sociali, quali le comunità di recupero per
tossicodipendenti, la gestione di strutture residenziali per anziani non autosufficienti
e le attività di inserimento lavorativo per soggetti svantaggiati.
Il secondo elemento è la richiesta sempre più presente da parte degli utenti di poter
contare su un elevato grado di professionalità dei lavoratori, che appare legato alla
continuità o meno delle prestazioni svolte
11
. Il terzo fattore è legato al fatto che la
disponibilità di clienti pubblici e privati ad acquistare prestazioni sociali è spesso
subordinata alla possibilità di disporre di iniziative solidaristiche professionali e
stabili. L’impresa sociale così pensata genera opportunità lavorative grazie alla
“privatizzazione” di alcuni servizi pubblici da parte dello Stato, a benefico di soggetti
privati aventi finalità pubbliche, quali ad esempio le cooperative sociali di tipo A.
La seconda definizione si rifà alla tesi di fondo sostenuta nel libro bianco su “Lavoro,
competitività e impiego” da Jacques Delors, secondo cui i governi dei Paesi europei
10
Questa definizione è condivisa fra gli altri da Massimo Campedelli, responsabile del Gruppo Abele
per l’economia sociale, come si può vedere in Animazione sociale n° 6-7/96, EGA, Torino.
11
Anche se esistono molte organizzazioni non profit composte esclusivamente da volontari che hanno
raggiunto un elevato grado di professionalità, si può infatti ritenere che una prestazione lavorativa
continuativa e remunerata consenta di acquisire direttamente sul lavoro le professionalità necessarie.
Si ritiene dunque che un impegno stabile di forza lavoro consenta di acquisire professionalità più
qualificate e che dove siano richiesti apporti specialistici e tecnici, vadano privilegiate le iniziative che
prevedono un numero congruo di persone impegnate in modo continuativo e remunerate. Cfr. S. Lepri
in Serve un’impresa sociale?”, in Rivista del Volontariato n° 9/95, Fondazione Italiana del
Volontariato, Roma.
avrebbero dovuto liberalizzare il mercato del lavoro, se volevano salvare il modello
europeo
12
; in pratica Delors sosteneva che alcuni Paesi europei dovevano permettere
ai datori di lavoro di licenziare più facilmente i dipendenti, mentre altri avrebbero
dovuto ridurre i sussidi di disoccupazione, le imposte sui redditi più bassi e i minimi
salariali. L’impresa sociale pensata da Delors offre lavoro a persone che per i motivi
più diversi sono rimasti esclusi dal mercato del lavoro competitivo e prevede lavori
nell’area della c.d.d. “manutenzione sociale”, dei beni culturali, della protezione
dell’ambiente, ecc
13
.
La terza definizione parte dall’idea di lavoro sociale come produzione di socialità e,
quindi, dell’operatore sociale in quanto produttore di socialità. Tale prospettiva si
basa sull’idea che gli individui diventano persone quando instaurano rapporti nel
sociale, condividendo con gli altri linguaggio, modalità di decisione collettiva, regole
di convivenza civile e sistemi di rappresentazione simbolica
14
.
Gli altri, in questo contesto, segnano la differenza tra l’individuo e ciò che lo
circonda, differenza che è la condizione prioritaria dell’esistenza e si forma nelle
relazioni, nel sociale. Il prendersi cura dell’altro diventa una relazione in cui
l’individuo riconosce nell’altro il destinatario delle proprie attenzioni orientate a
promuovere il suo benessere, il che gli permette di promuovere contemporaneamente
12
Delors considera il modello europeo come un sistema sociale ed economico fondato sul ruolo del
mercato, da lui visto come il miglior modo di elaborare le informazioni sulla società. Un’altra
caratteristica distintiva è l’intervento dello stato, che interviene, regola e chiude le falle lasciate dal
mercato; infine Delors considera il ruolo delle associazioni professionali e dei sindacati, i cosiddetti
“partner sociali” che aiutano le persone a diventare più responsabili. Si veda l’intervista riportata in
Qualità equità, n° 1/96, Editrice Liberetà, Roma.
13
Si veda l’articolo di Charles Grant “Delors: After power” tradotto in Internazionale n° 109 del 22
dicembre ’95, Internazionale S.r.l., Roma.
14
La definizione viene analizzata da Massimo Campedelli nell’articolo “La forza e la debolezza del
terzo settore” in Animazione Sociale n°6/96, Edizioni Gruppo Abele (EGA), Torino.
anche il proprio. La società in cui viviamo manifesta una crescente crisi di socialità,
intesa nel senso di una riduzione della capacità dimostrata di prendersi cura degli
altri, mentre ci si trova a oscillare in una miriade di ruoli diversi.
Compito dell’impresa sociale diventa allora quello di produrre socialità, ovvero
reinventare la funzione del lavoro sociale in modo da consolidare le forme “naturali”
del prendersi cura (quali sono le famiglie) e rendere adeguate ai bisogni quelle
“artificiali” (cioè quelle delegate al sistema dei servizi sociali e sanitari). Per
raggiungere questi scopi è necessario agire con spirito imprenditoriale, affinché le
risorse disponibili possano produrre un reale valore aggiunto in termini di benessere
e di cittadinanza
15
.
L’impresa sociale deve quindi valorizzare le differenze tra le persone come riserve di
singolarizzazione, come moltiplicatori di esperienze, di relazioni, di scambi per
produrre socialità orientata verso una prospettiva di sviluppo chiara e fattibile
16
.
L’obiettivo più immediato è l’abbattimento della separazione tra il mercato del
lavoro e il mondo del welfare, di una situazione che provoca svantaggi sia per chi è
in balìa del primo, sia per chi è assistito dal secondo. Occorre utilizzare le risorse
finanziarie destinate all’assistenza, per attirare le energie, residuali e non, delle
persone, invece di sopprimerle in cambio di un internamento e di un sussidio.
17
15
M. CAMPEDELLI, Lavorare nel sociale per lavorare il sociale, in Animazione Sociale n°6/96,
Edizioni Gruppo Abele, Torino.
16
DE LEONARDIS, op. cit., pag.45/47.
17
A queste realtà si possono adattare anche le tesi esposte da Jeremy Rifkin, che esamineremo in
seguito, sull’impiego e sul reperimento delle risorse destinate all’assistenza sociale.
E’ necessario un profondo cambiamento culturale nel sistema di welfare, affinché le
risorse umane e materiali siano impiegate per stimolare le persone ad agire e per
riconoscerne le potenzialità
18
.
18
Riguardo le nuove politiche di welfare si può utilmente leggere R. ROMANO, Ripensare lo Stato
sociale, su Alfazeta n° 45, Edizioni Alfazeta coop.arl, Ferrara.
1.2. L’IMPRESA SOCIALE NELL’AMBITO DEL SETTORE NON PROFIT
L’impresa sociale non nasce per far lavorare, ma per creare un’intrapresa che
restituisca agli assistiti la complessità e l’integrità nonché la fiducia e il rispetto della
propria persona.
Esiste una sottile ma importante differenza tra impresa (profit o non profit) che
assuma un disabile in produzione per rispondere al suo desiderio di lavorare e/o di
guadagnare, e un’impresa sociale che lo assuma per promuoverne le capacità residue,
perché solo in questo modo può veramente aiutarlo a rendersi protagonista della
propria esistenza.
19
Il desiderio di separarsi dalla normale vita sociale può portare alla formazione di
comunità e cooperative sociali che esaltano la propria diversità e si emarginano dalla
società, rinunciando così alle risorse culturali e materiali generate da tali esperienze e
agli scambi reciproci possibili
20
.
Il principio della separazione è dunque sempre in agguato, ma l’impresa sociale può
superarlo miscelando i problemi con le risorse, la ricchezza con la miseria, così da
reimpiegare la ricchezza presente nella società, non concentrata in un solo luogo.
Dobbiamo quindi immergerci nella ricchezza sociale per coglierne le opportunità,
ricostruire i circuiti piuttosto che rinchiuderci in una comunità di uguali emarginati
dalla società esterna.
19
Cfr. DE LEONARDIS, op. cit., pag. 30, 34 e successive.
20
I problemi derivanti dall’utilizzo di lavoratori disabili ad opera di cooperative che vogliono
usufruire dei vantaggi fiscali previsti dalla normativa viene analizzato in Cfr. DE LEONARDIS, op.
cit., pag. 40 e 41.
1.2.1. L’impresa sociale e il suo rapporto con il mercato.
L’impresa sociale non nasce esclusa dal mercato, ma per apportarvi il proprio
contributo al riconoscimento della diversità di domande, persone, situazioni; essa
mostra di non fidarsi del libero mercato, dove opera un forte meccanismo di
esclusione, e nemmeno delle buone intenzioni che animano alcuni soggetti, i quali
realizzano iniziative meritevoli che offrono beni e servizi alle persone svantaggiate,
ma che rischiano di confermarne la diversità come elemento di discriminazione
all’interno della società. Tali iniziative, volendo combattere l’omologazione
risultante dai propositi universalisti della burocrazia, finiscono per nascondere le
differenze naturali tra le persone dentro luoghi protetti e isolati dalla società civile
21
.
La particolarità dell’impresa sociale consiste nell’essere non solo una componente
del mercato, ma nel diventare essa stessa un mercato, pur senza perdere la propria
specificità di servizio di assistenza alle persone.
L’impresa sociale appartiene senz’altro al mondo non-profit, in quanto la
distribuzione degli utili viene esclusa in partenza, ma l’impresa non-profit è diversa
dall’impresa sociale quando la sua identità è quella che riproduce i ghetti e le
separazioni, quando l’appartenenza è prodotta sacrificando l’individualità e diventa
un obiettivo e un valore in sé piuttosto che un complesso di azioni e interazioni
rivolte a perseguire altri scopi, in rapporti e situazioni concrete
22
.
L’identità di gruppo si alimenta sulla forza e sulla natura del progetto che sono alla
base di ogni impresa sociale, rivolte a produrre benessere per le persone e a creare
giustizia sociale; essa non deve pertanto svolgere solo il proprio dovere nella
21
DE LEONARDIS, op. cit., pag.44
22
DE LEONARDIS, op. cit., pag.37 e 41.
redistribuzione di risorse, ben delimitato e prestabilito, bensì agire per cambiare i
processi sociali, per valorizzare le capacità e le differenze dei singoli, per
moltiplicare le occasioni e gli spazi di scambio sociale, per abbattere le mura che
dividono il mondo dell’assistenza da quello della produzione, in una parola per
produrre socialità
23
.
1.3. LE POSSIBILI DEFINIZIONI DELL’ECONOMIA SOCIALE.
Negli anni Settanta e Ottanta il predominio del modello pubblico di produzione dei
servizi sociali lasciava al volontariato una funzione integrativa, mai comunque in
compiti di gestione continuativa e professionale, dei servizi organizzati dai poteri
pubblici in modo diretto e con proprio personale.
Il volontariato organizzato ha rivolto la propria attenzione alla messa in atto di
servizi semplici, di azioni di advocacy
24
, e di risposta a bisogni relazionali
25
.
Nel caso invece siano stati realizzati dei servizi sociali in forma continuativa e
organizzata, si manifesta l’esigenza di disporre di risorse economiche non occasionali
e di utilizzare forza lavoro qualificata e stabile. La riflessione in atto sulle attività
aventi finalità organizzative diverse da quelle delle imprese private e delle strutture
pubbliche coinvolge varie definizioni che ci appaiono come facce di uno stesso
prisma: volontariato, non-profit, terzo settore, terzo sistema, economia sociale.
23
Cfr. DE LEONARDIS, ibidem., pag. 46 e successiva.
24
Per advocacy si intende l’atto di appoggio o patrocinio nei confronti di una causa, di un progetto, di
un’idea.
25
Tra i servizi non complessi possiamo includere << le iniziative a difesa e tutela degli anziani
cronici, dei minori abbandonati, dei pazienti di ospedali; le azioni di risposta ai bisogni relazionali
sono costituite dall’insieme delle attività a sostegno delle persone sole, a domicilio o presso strutture
residenziali.>> S. Lepri, Serve un’impresa sociale?, in Rivista del Volontariato, settembre 1995,
Roma.