e, via via, in gran parte del sistema - l’attenzione si è in un primo tempo
rivolta verso i rischi di maggior rilievo, quello di mercato e quello
creditizio, la cui natura, del resto, agevola l’approccio quantitativo.
Notevole impulso in questa direzione – in un quadro caratterizzato
dal crescente interesse per il problema della corretta allocazione del
capitale nelle diverse unità aziendali, al fine di massimizzare il processo
di creazione di valore - è stato conferito dalla disciplina introdotta, nella
logica della vigilanza prudenziale, dalle diverse autorità nazionali di
controllo; queste, sulla scia delle iniziative di coordinamento assunte a
livello internazionale, hanno infatti legato alla dimensione dei rischi
creditizi e di mercato la misura del capitale minimo che le banche
debbono detenere.
Nell’ambito di tali iniziative di coordinamento, ruolo assolutamente
centrale è svolto, com’è noto, dal Comitato di Basilea, che appunto
incentra sui coefficienti patrimoniali una significativa parte della propria
attività di studio e di indirizzo.
Dal 1999 il Comitato ha avviato un processo di revisione della
disciplina in parola, concretatosi nella divulgazione di diversi
documenti programmatici - sottoposti all’attenzione delle autorità di
vigilanza ed all’industria bancaria per ricevere osservazioni - nei quali,
tra l’altro, oltre a prevedere l’affinamento delle metodologie di
valutazione dei rischi di credito e di mercato, si pone l’accento sugli
“altri rischi” (other risks), suscettibili di gravare sull’equilibrio
gestionale degli intermediari e perciò incidenti sulla dimensione del
capitale richiesto; tale nuova categoria è stata poi circoscritta al
concetto, peraltro piuttosto incerto, di “rischio operativo” (operational
risk).
L’iniziativa del Comitato - in linea di principio coerente con le
indicazioni della dottrina, ma non priva di aspetti problematici e
controversi, soprattutto per quanto riguarda la possibilità di pervenire ad
una attendibile quantificazione del rischio in parola - è destinata a
tradursi in norme cogenti, recepite nei sistemi normativi nazionali, e
quindi ad incidere in modo significativo nella gestione delle banche.
Al riguardo, è da tener in particolare conto che anche ai rischi
operativi (oltre che a quelli di credito e di mercato) verrà estesa la
possibilità, per le aziende che vogliano “risparmiare capitale”, di
ricorrere a modelli interni di quantificazione .
E’ previsto che gli organi di vigilanza - oltre a definire la misura
del capitale minimo (“primo pilastro” della nuova disciplina) - valutino
la sostenibilità dei rischi e l’adeguatezza dei relativi sistemi di controllo
(“secondo pilastro”), che devono inoltre costituire oggetto di trasparente
informativa al mercato, messo in grado di esprimere la propria
valutazione (“terzo pilastro”).
Va inoltre osservato che, negli ultimi anni, alcuni fenomeni hanno
notevolmente ampliato latitudine e tipologia dei rischi operativi
affrontati dalle banche. Si citano in particolare:
• l’aumento - a livello sia interno che internazionale, nel quadro
del processo di integrazione dei mercati - delle operazioni di
aggregazione tra intermediari creditizi e finanziari, con modalità
diversificate (incorporazioni, costituzioni di gruppi e di conglomerati,
ecc), in genere connotate da elevata complessità organizzativa, spesso
non agevolmente gestibile;
• la crescente innovazione finanziaria, con la diffusione di
strumenti finanziari particolarmente complessi (derivati, obbligazioni
strutturate, ecc), negoziati su mercati ormai praticamente senza confini;
il loro utilizzo per ridurre i rischi di credito e di mercato può facilmente
trasformarsi in un aumento dei rischi operativi, dando luogo ad un
indesiderabile “arbitraggio regolamentare”
2
;
• il sempre maggiore ricorso all’affidamento in outsourcing di
processi produttivi, caratterizzati da rapida evoluzione dei profili
tecnologici;
• il recente sviluppo dell’ e-banking e di nuovi canali distributivi
(ad esempio, le reti di promotori finanziari, nel quadro dell’evoluzione
del risparmio gestito), che danno luogo, tra l’altro, a innovativi
processi di negoziazione e di regolamento;
• la sempre più elevata complessità dei sistemi informativi -
orientati verso lo sviluppo di architetture “relazionali” fortemente
integrate - che si riflette sulla dimensione dei rischi informatici,
specialmente per i problemi connessi alla sicurezza delle procedure.
La consapevolezza dei banchieri e delle autorità di controllo è stata
acuita anche da alcuni “incidenti” riconducibili a comportamenti incauti
o fraudolenti degli operatori, oggetto di vasta eco nei media, che hanno
determinato gravi perdite, incidendo pesantemente non solo sulla
reputazione, ma sulla stesa tenuta patrimoniale delle importanti banche
colpite
3
.
In questo contesto - nel quale i rischi operativi gestiti dalle banche
sono stimati di ampiezza mediamente superiore a quelli di mercato - si è
2
Cfr CAROSIO GIOVANNI, Rischio operativo, strutture organizzative e controlli: il punto
di vista della Banca d’Italia, in AA.VV, Il rischio operativo”, Associazione per lo sviluppo
degli studi di banca e borsa, Quaderno n. 193, 2001.
3
Si citano, ad esempio, i casi relativi alla Banca Nazionale del Lavoro (filiale di Atlanta),
alla lussemburghese Bank of Credit and Commerce BCCI, alla giapponese Daiwa (filiale di
New York) alla Barings Future Singapore. Per la crisi di quest’ultima, si veda: MIELI
assistito, anche per impulso dello stesso Comitato e delle autorità
nazionali di vigilanza, alla generale tendenza a rafforzare le strutture e
le procedure di controllo interno, con la finalità di minimizzare (tenendo
presente il costo dei controlli medesimi) la portata delle possibili
perdite.
La più recente enfasi sulla quantificazione di queste ultime, in
ottica probabilistica, è invece legata al loro impatto sul livello di capitale
desiderato ovvero (nell’ottica del nuovo Accordo di Basilea) imposto.
Sui rischi operativi – i cui profili teorici e gestionali sono
scarsamente indagati dalla letteratura – si è intensificato il dibattito,
tuttora in corso, al quale stanno dando un particolare contributo, oltre
alle autorità di vigilanza ed alle banche, le società che forniscono
consulenza aziendale commercializzando specifici prodotti di gestione e
controllo.
Il presente lavoro si propone di dar conto dello stato dell’arte,
soffermandosi dapprima, nel capitolo n. 1, sulla portata delle iniziative
attualmente in gestazione nell’ambito dell’Accordo; ne viene illustrato il
quadro generale con riferimento specifico ai rischi in parola, rinviando
ai capitoli successivi, in relazione ai profili ivi trattati, aspetti di
maggior dettaglio, con particolare attenzione alle questioni “aperte”.
Nel capitolo n. 2 si analizza il problema, piuttosto complesso, della
natura e classificazione dei rischi in parola: tematica che, oltre ad
articolati aspetti teorici, presenta importanti ricadute sul piano concreto
della individuazione, gestione e valutazione dei rischi.
STEFANO, Rischi operativi dell’intermediazione in strumenti derivati: considerazioni a
margine della crisi della Barings, in Credito Popolare, n. 2/1996.
Segue, nel capitolo n. 3, la disamina dei profili strutturali del
governo dei rischi operativi, con riferimento al quadro normativo, alle
funzioni organizzative attivate nella aziende di credito ed ai controlli
esterni.
I processi di gestione adottati, riguardanti le fasi di identificazione,
gestione, valutazione, monitoraggio e mitigazione/controllo sono
analizzati nel capitolo n. 4.
Si approfondiscono poi, nel capitolo n. 5 - alla luce delle tendenza
a governare l’allocazione di capitale e la creazione di valore - le
metodologie basate su rilevazioni statistiche, utilizzabili per la
valutazione “quantitativa”, ed altre tecniche avanzate.
Nel capitolo n. 6 si illustrano due casi specifici:
a) le iniziative assunte dall’Associazione Bancaria Italiana,
riguardanti l’elaborazione della cosiddetta procedura di gestione APRO
(Approccio rischio operativo) e la progettazione del DIPO (Data base
italiano delle perdite operative);
b) le procedure di controllo realizzate presso una della maggiori
banche italiane, il SanPaolo Imi, i cui studi sulla materia risultano
essere tra i più avanzati.
Nel capitolo n. 7 vengono infine formulate le più significative
conclusioni, avendo riguardo alle implicazioni gestionali, nonché alle
ricadute per l’attività di vigilanza, connesse alla prevedibile evoluzione
delle tecniche di governo e del quadro normativo.
1 Il nuovo “Accordo di Basilea”
1.1 Aspetti generali
I fondamentali princìpi relativi all’attività di vigilanza sugli
intermediari creditizi sono stai introdotti nei sistemi nazionali in
coerenza con le indicazioni elaborate nel quadro del processo di
armonizzazione internazionale delle regole di supervisione
4
.
Le norme vigenti in Italia e nei più importanti sistemi nazionali
sono state concordate nell’ambito del Comitato di Basilea
5
; l’adozione
nei paesi dell’Unione Europea è passata attraverso direttive di
4
Il coordinamento tra le autorità di vigilanza (si veda BANCA CENTRALE EUROPEA,
La cooperazione internazionale in materia di vigilanza prudenziale, Bollettino maggio
2002) è legato al processo di apertura dei mercati creditizi internazionali. Tappa
fondamentale, in Europa, è stata l’emanazione della Direttiva CEE 646 del 15 dicembre
1989 (si veda BOMPANI ALDO, Libera banca in libera Europa, in A. Bompani, M.
Maggio, Complementi di tecnica bancaria, Giappichelli Editore, Torino, 1990).
5
Il Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria è un organismo di cooperazione
internazionale, istituito nel 1974, composto dai rappresentanti delle banche centrali e delle
autorità di vigilanza bancaria di 13 paesi (Belgio, Canada, Francia, Germania, Giappone,
Italia, Lussemburgo, Olanda, Regno Unito, Spagna, Stati Uniti, Svezia, Svizzera). Si
riunisce presso la Banca dei Regolamenti Internazionali (BIS) a Basilea. La Commissione
Europea partecipa in qualità di osservatore alle riunioni. Le decisioni non hanno diretto
valore giuridico, costituendo sostanzialmente gentlemen agreements). Il Comitato
incoraggia la cooperazione con i paesi non appartenenti al G10; oltre 100 paesi hanno
aderito alle sue indicazioni in materia di capitale minimo. Il Comitato ha dato fondamentali
contributi per la messa a punto dei principi basilari per la cooperazione internazionale in
materia di vigilanza bancaria. Coopera anche, nell’ambito del cosiddetto Joint Forum, con
gli organismi internazionali che coordinano le autorità che esercitano la vigilanza
sull’attività di borsa e sull’attività assicurativa per disciplinare in modo appropriato l’attività
dei “conglomerati finanziari”, che comprendono imprese operanti in più di uno di questi
settori (in quest’ottica, sono affrontati anche temi relativi al rischio operativo). Si veda:
GARRONE FRANCESCO, Il Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria e la revisione
dell’Accordo sul capitale, in Bancaria, n. 1/2001.
coordinamento delle istituzioni comunitarie
6
.
La vigilanza prudenziale – i cui istituti normativi hanno
progressivamente affiancato e in gran parte sostituito, dalla seconda
metà degli anni ottanta, i tradizionali canoni della vigilanza strutturale,
basati su provvedimenti autorizzativi - è incentrata sul processo di
gestione dei rischi.
La tendenza prevalente è quella di realizzare logiche di
supervisione flessibili, che valorizzino il ruolo e le regole del mercato in
collaborazione con gli intermediari, in posizione di neutralità di fronte
ai meccanismi di competizione tra i diversi operatori (levelling the
playing field).
Tale approccio si basa - oltre che su alcune limitazioni
all’operatività delle banche in specifici comparti - sull’imposizione di
coefficienti minimi di capitalizzazione (solvency), in una visione nella
quale, sostanzialmente, il patrimonio aziendale è configurato quale
cuscinetto (buffer) in grado di coprire eventuali perdite di ampiezza tale
da generare il default dell’intermediario e i conseguenti danni per i terzi.
L’imposizione di requisiti patrimoniali incentiva le aziende di credito a
rafforzare la gestione dei rischi stessi attraverso adeguati sistemi di
controllo interno.
6
Attualmente, in ambito comunitario, il Comitato Consultivo Bancario è impegnato nella
revisione del nuovo schema regolamentare sui requisiti patrimoniali delle banche e delle
imprese di investimento. Sta svolgendo consultazioni tra le banche dei paesi europei, per
formulare eventuali proposte in sede di Comitato di Basilea e per mettere a punto direttive
che tengano conto di specifiche esigenze dell’industria bancaria della comunità.
L’emanazione dei suoi documenti è coordinata con quella da parte di Basilea. Si veda:
COMMISSIONE EUROPEA, Revisione dei requisiti patrimoniali applicabili agli enti
creditizi e alle imprese di investimento della UE, Bruxelles, 1999. Anche il Sistema Europeo
delle Banche Centrali (SEBC), assistito dal Comitato per la Vigilanza Bancaria, ha compiti
di coordinamento in materia di vigilanza prudenziale.
L’attività esercitata nella banca – come quella svolta da qualunque
impresa ed, in particolare, da tutti gli intermediari creditizi e finanziari -
si sostanzia, per propria natura, nell’assunzione di rischi.
In merito alla classificazione di questi, le indicazioni fornite dalla
dottrina non risultano univoche (si veda il capitolo n. 2). Si può
osservare, in prima approssimazione, che alcuni rischi (rischi
speculativi) vanno necessariamente sostenuti, in quanto, essendo
direttamente pertinenti al core business aziendale, costituiscono
fisiologico presupposto del processo di conseguimento dei profitti
7
,
rispetto ai quali devono trovare un soddisfacente equilibrio (espresso
appunto dal rapporto rendimento / rischio, da massimizzare).
Altri rischi (rischi puri) vanno invece tendenzialmente contenuti
nella misura minima; sono accettabili solo se di valore inferiore
all’onere sostenibile per la loro eliminazione
8
. La mancanza di una
diretta correlazione logica con i rendimenti, che in qualche misura di
tali rischi incorporino il valore
9
, rende comunque problematica la loro
valutazione (vengono appunto spesso indicati come “inquantificabili”).
7
“Not taking risk may be the biggest risk of all”. C. Sandfort, Chairman Bankers Trust.
Citato in ASSOCIAZIONE BANCARIA ITALIANA (ABI), Sistemi di controllo interno ed
evoluzione dell’internal auditing, Roma, 1999.
8
Anche se non sono direttamente riconducibili ad un rendimento, anche i rischi puri devono
perciò essere gestiti soppesando i vantaggi e gli svantaggi delle scelte effettuate. I vantaggi
sono di norma espressi da risparmi di costi per l’eliminazione. Ad esempio, la filiale di una
banca dovrebbe valutare l’onere di mantenere determinate giacenze di cassa, esponendosi al
rischio di danni per rapina, ovvero, in alternativa di sostenere le spese per trasferire i fondi
presso altre strutture.
9
Il valore del rischio relativo ad un certo strumento può infatti essere espresso dalla
differenza tra il suo rendimento e quello di una strumento risk free.
Tra i rischi del primo tipo sono tipicamente annoverati:
• il rischio di credito, legato all’incapacità del debitore di far fronte
al rimborso di finanziamenti
10
;
• il rischio di mercato, collegato alla possibilità di subire perdite a
seguito dello sfavorevole andamento dei prezzi di mercato (tassi di
interesse, tassi di cambio, prezzi dei titoli) di uno strumento finanziario.
Tra i rischi puri sono da comprendere quelli operativi.
La normativa riguardante i requisiti patrimoniali minimi
attualmente in vigore in Italia
11
- emanata sulla scia delle indicazioni
scaturenti dall’Accordo di Basilea del 1988, recepito dalla Comunità con
una specifica Direttiva (89/647/CEE) – disciplina, oltre alla definizione
dei fondi propri
12
, soltanto il rischio di credito (coefficienti di
solvibilità
13
, normativa sui “grandi fidi”
14
) e quello di mercato
(limitatamente al portafoglio titoli non immobilizzato
15
e al rischio di
cambio; è inoltre regolamentata, attraverso limiti e indicatori di
10
Al concetto di rischio di credito è in senso lato riferibile anche il rischio di
concentrazione dei prestiti. Il rischio di credito è inquadrabile nel rischio di controparte, che
comprende anche il rischio di regolamento, legato all’incapacità del debitore di regolare a
scadenza uno scambio di valori (tipicamente: titoli, valute, ecc).
11
Si veda, sulla materia, GAI LORENZO, Profili istituzionali dell’attività bancaria,
Giappichelli Editore, Torino, 1999.
12
Il cosiddetto “patrimonio di vigilanza” è costituito dalla somma di due componenti: a) il
patrimonio di base: fondi stabilmente a disposizione, senza alcuna restrizione, destinati a
fronteggiare il generico rischio di impresa (capitale sociale, riserve disponibili e fondo rischi
bancari generali); b) il patrimonio supplementare, computabile entro il limite massimo del
patrimonio di base.
13
Il coefficiente di solvibilità richiede che il patrimonio di vigilanza sia pari almeno all’8%
del complesso delle attività in bilancio e fuori bilancio ponderate sulla base di definiti
coefficienti che stimano in via presuntiva il presumibile rischio di inadempienza della
controparte.
14
Sono fissati limiti con riferimento sia a singole posizioni di rischio elevato (limite
individuale) sia all’ammontare complessivo di tali posizioni (limite globale).
15
Per il portafoglio non immobilizzato sono disciplinati il rischio di posizione (connesso a
variazioni del corso dei titoli) e di regolamento (mancata consegna di titoli o denaro), oltre a
quello di controparte (insolvenza dell’emittente). Non sono previsti requisiti relativamente
al portafoglio immobilizzato (il rischio di posizione è nullo se il titolo può essere detenuto
fino alla scadenza).
monitoraggio, l’esposizione al rischio di tasso di interesse connessa alla
presenza di operazioni a medio e lungo termine).
Nel 1999 il Comitato di Basilea ha avviato la riflessione su
possibili modificazioni della vigente disciplina (Nuovo Accordo),
nell’intento di rafforzarla e di affinarla, eliminando tra l’altro alcuni
lamentati fattori di distorsione.
Tra questi ultimi, sono da rimarcare l’approccio estremamente
semplificato nelle valutazione dei rischi (ridotta risk sensitivity), lo
scarso peso dato agli strumenti di mitigazione (quali i contratti derivati)
nonchè i problemi legati all’abilità delle banche nell’attuare forme di
arbitraggio regolamentare, sfruttando le divergenze tra l’entità effettiva
dei rischi e la loro misurazione (ad esempio attraverso operazioni di
securitisation).
Le ipotesi sottoposte per le osservazioni alle autorità di vigilanza
ed all’industria bancaria
16
(il documento finale dovrebbe essere emanato
nel quarto trimestre del 2003; l’entrata in vigore è prevista per la fine
del 2006) si basano sui cosiddetti tre pilastri:
16
Per quanto riguarda il rischio operativo, una prima riflessione, di carattere esplorativo, è
stata resa nota nel 1998 (Operational Risk Management). La prima proposta, risalente al
1999 (A new capital adequacy framework), è stata messa a punto con i successivi documenti
The new Basel capital accord e Operational risk del gennaio 2001. Sono seguiti i
documenti: Working paper on regulatory treatment of operational risk, settembre 2001;
Sound practices for the management and supervision of operational risk, dicembre 2001;
The quantitative impact study for operational Risk: overview of individual loss data and
lessons learned, gennaio 2002; Basel Committee reaches agreement on New Capital
Accord issues, luglio 2002; Sound practices for the management and supervision of
operational risk (second edition), luglio 2002; Quantitative impact, Study 3, Technical
Guidance, ottobre 2002; Overview paper for the impact study, ottobre 2002.
1. requisiti minimi di capitale
Vengono introdotte riserve di capitale minimo anche a fronte del
rischio operativo.
E’ inoltre previsto che tutti i rischi possano essere quantificati
dagli intermediari, se ciò è più vantaggioso in termini di minore
assorbimento di patrimonio, utilizzando propri modelli interni anziché
sulla base delle regole generali
17
.
La ponderazione dei crediti, in particolare, diventa più articolata e
precisa
18
, basandosi su rating espressi sia da fonti esterne sia, per
banche che utilizzino metodi avanzati, da fonti interne (IRB: internal
rating based approach).
Il livello medio di capitalizzazione del sistema dovrebbe peraltro
essere mantenuto.
17
Tale impostazione – oltre ad evitare la crescita di costi per la tenuta di molteplici sistemi
di quantificazione dei rischi - impedisce che le autorità di vigilanza finiscano del tutto
impropriamente per sostituirsi al management aziendale, la cui funzione è proprio quella di
identificare, misurare e gestire le diverse categorie di rischio. Cfr SIRONI ANDREA,
Gestione del rischio e allocazione del capitale nelle banche, Egea, Milano, 1996.
18
Uno dei problemi di maggior rilievo sollevati da questa impostazione - evidenziati da
molti commentatori e dei quali il Comitato è consapevole - riguarda gli eventuali effetti
negativi in termini di prociclità, ossia la possibilità che le norme possano accentuare
tendenze negative dell’economia in conseguenza degli orientamenti cautelativi imposti alle
banche; eccessiva espansione degli impieghi si avrebbe, al contrario, in presenza di cicli
economici favorevoli. L’ultima versione della proposta del Comitato ha attenuato gli effetti
prociclici (cfr BANCA D’ITALIA, Relazione del Governatore sull’esercizio 2001, Roma,
2002, pag. 305).
2. controllo prudenziale
Le autorità di vigilanza sono tenute a verificare che le banche si
dotino di sistemi di gestione e controllo dell’adeguatezza patrimoniale
coerenti con i propri profili di rischio e di orientamento strategico,
imponendo tra l’altro, se ritenuto opportuno, dotazioni di mezzi propri
superiori ai requisiti minimi; particolare enfasi è posta sull’opportunità
che le autorità intervengano con tempestività per evitare l’indebolimento
del presidio patrimoniale
19
. E’ in sostanza previsto un processo
interattivo tra autorità e soggetti vigilati, anche per valutare il possibile
impatto dell’avversa evoluzione dei mercati.
3. disciplina imposta dal mercato
Il controllo in merito all’esposizioni ai rischi degli intermediari è
affidato anche alle valutazioni del mercato, al quale devono essere
fornite in modo completo e trasparente le informazioni necessarie.
I tre pilastri vanno considerati in modo integrato
20
.
E’ una impostazione basata su una visione globale dell’attività di
vigilanza, intesa a tutelare la stabilità del sistema nel suo complesso,
19
Nell’ambito del secondo pilastro possono essere richieste riserve di capitale anche a
fronte del rischio di interesse sul portafoglio immobilizzato (banking book), del rischio di
liquidità e, in generale, di tutti gli “other risks “, anche diversi da quelli operativi (cfr
D’AURIA CLAUDIO, I requisiti di capitale a fronte del rischio operativo, in Bancaria, n.
4/2001).
20
Ad esempio, gli aspetti qualitativi del controllo dei rischi operativi (secondo pilastro)
influenzano anche la quantificazione dei requisiti (primo pilastro) nell’ambito
dell’approccio avanzato (v. infra).
seppur fondamentalmente orientata al profilo microeconomico.
Sebbene dichiaratamente focalizzati sull’attività di banche con
attività internazionale, i princìpi della disciplina sono applicabili a
banche di diverso livello di complessità e sofisticazione
21
.
1.2 Trattamento del rischio operativo
Nel documento del 1999, il Comitato delineava l’ipotesi di
chiedere riserve di capitale per rischi operativi
22
, commisurate a
indicatori di attività quali ricavi, costi, totale di bilancio e poste off
balance ovvero a differenziati requisiti a fronte di linee di business
particolarmente rischiose; metteva in evidenza i fattori qualitativi legati
all’integrità dei processi di controllo ed i rischi relativi a possibili
arbitraggi regolamentari; anche con riferimento ai rischi di reputazione e
legale, sottolineava le difficoltà di misurazione, ipotizzando comunque
il ricorso a modelli interni, in relazione all’affidabilità – valutata dagli
organi di vigilanza - degli strumenti utilizzati.
21
Il tema è controverso. MARIO TONVERONACHI (Distorsioni strutturali della
regolamentazione prudenziale delle banche, in Moneta e Credito, Marzo 2002) muove
diverse critiche all’approccio di Basilea, sottolineando tra l’altro che le diverse
caratteristiche e dimensioni delle banche impediscono di attuare un vero e proprio
“livellamento del campo di gioco”. La regolamentazione, inoltre, è “tolemaica e costosa”,
per “contenere l’ingegnosità delle banche nell’eludere le regole”. “Le recenti proposte di
estendere i requisiti di capitale ai rischi operativi mi sembrano una chiara dimostrazione di
questa tendenza.”. Va osservato che le criticità sottese a queste osservazioni sembrano in
realtà ben presenti al Comitato di Basilea.
22
L’ipotesi di introdurre coefficienti minimi per il rischio operativo apparve allora molto
innovativa. Si noti, ad esempio, che in un articolo apparso sulla rivista Bancaria appena un
anno prima poteva leggersi che “l’orientamento della vigilanza sembra essere quello di
astenersi da ogni tentativo di calcolare improbabili coefficienti patrimoniali di copertura o
indicatori del grado di esposizione validi per tutti gli intermediari” (PASQUINI CLAUDIA,
TROIANI MARILENA, Rischi operativi, controlli interni e internal auditing, in Bancaria,
n. 2/1998). Nello stesso documento emesso dal Comitato nel 1998, relativo ai sistemi di
controllo interno, non si faceva menzione dell’ipotesi di coperture patrimoniali.