messi in atto durante la visione di un film. Alcune di queste abilità
includono il processamento dell’informazione visiva e la risposta
emotiva.
Lo spettatore, inteso come soggetto, è concepito come “portatore” della
propria soggettività che contribuisce con le proprie aspettative, inferenze
e desideri alla realizzazione dell’esperienza filmica. Lo stesso testo
filmico necessita di tali apporti individuali perché i suoi effetti abbiano
modo di attuarsi. Nel vedere uno spettacolo cinematografico si
mescolano stimoli uguali a quelli che ci offre la realtà e stimoli del tutto
propri all’universo filmico.
David Bordwell, nel suo testo sulla narrazione cinematografica
(
3
)
sostiene che la narrazione è un processo grazie al quale viene suggerito
allo spettatore un percorso che lo porta a ricomporre una storia.
La funzione degli schemi mentali è quello d’identificazione delle azioni,
degli oggetti, degli scopi e dei contesti sociali. Il ruolo dello spettatore è
centrale e la sua attività consiste nel percepire, ricordare, assumere,
inferire.
La percezione visiva ci permette di riconoscere stati o relazioni piuttosto
complicati, l’abilità d’interpretare tali atti di riconoscimento è attribuita
ad un livello cognitivo più “alto” della mente, e dunque ai sistemi di
credenze. La comprensione è intesa come la principale motivazione dello
spettatore. Infatti, la premessa più importante della teoria cognitiva è
quella che lo spettatore è motivato da un desiderio di scoperta e
orientamento all’interno dell’universo proposto dal film.
Nel riconoscimento e nella comprensione le rappresentazioni mentali
svolgono, dunque, un ruolo decisivo. Tali rappresentazioni hanno un
contenuto semantico, ci suggeriscono di cosa si tratta; da qui, poi, si
risale alla struttura della rappresentazione: lo schema strutturale
(
3
) Bordwell: “Cognition, Construction, and Cinematic Vision” in Bordwell e Carroll (Eds)
Post-Theor: Reconstructing Film Studies, Madison: University of Wisconsin Press;
1996. (pp. 87-107)
dell’oggetto percepito. Si tratta di schemi fatti da relazioni tra concetti da
cui si diramano categorie e sotto-categorie.
Dunque la nozione centrale coinvolge il concetto di schema
(
4
)
, vale a dire
una struttura di conoscenza che caratterizza un concetto o una categoria.
Bordwell e altri cognitivisti sostengono e dimostrano la centralità delle
rappresentazioni mentali nella “lettura” o interpretazione di un film.
La percezione si configura come un’attività basata sulla ricostruzione e
sull’ipotesi. Le mappe cognitive o schemi mentali che “riconoscono” ciò
che viene visto e permettono di processare i dati ai fini
dell’interpretazione.
4.4 Percezione e Illusione
Perché le persone rispondono emotivamente ai film pur sapendo che si
tratta di finzione?
Infatti, secondo alcuni teorici, nella percezione filmica svolge un ruolo
centrale l’illusione di assistere a qualcosa di reale.
Il dibattito corrente su film come illusione si genera da due approcci
disciplinari distinti, la psicologia ( tra cui Ed Tan) che è a favore
dell’effetto illusorio del film e la filosofia (tra cui Gregory Curie e Noël
Carroll) che è contro.
Lo psicologo Ed Tan (1996), sposta l’enfasi dallo spettatore che elabora
ed interpreta attivamente a coloro che generano e manipolano le nostre
risposte emotive attraverso mezzi narrativi e altri espedienti propri
dell’arte cinematografica. Tan sostiene che i film sono in grado di
suscitare in noi emozioni “genuine”: noi non stiamo semplicemente
fingendo o simulando le credenze e i desideri di un personaggio
immaginario ma siamo soggetti di un’illusione che ci porta a rispondere
(
4
) Termine coniato, nell’ambito della psicologia cognitiva, da Bartlett nel 1932
emotivamente ad essa, come se davvero assistessimo a ciò che è
rappresentato sullo schermo. Tan propone i “cineasti” come manipolatori
della nostra comprensione della “macchina di emozioni” (il film)
assicurando il sorgere nello spettatore di risposte emotive da loro stessi
desiderate. A questo proposito Sergei Eisenstein scrisse sul “montaggio
delle attrazioni” come un mezzo per produrre effetti percettivi nello
spettatore. Alfred Hitchcock insisteva sull’uso della tecnica filmica per
creare e sostenere l’emozione appropriata. Egli manifestava la sua grande
sensibilità nei confronti della ricezione dello spettatore, in particolare
delle sue paure, e sfruttava tali elementi al meglio tenendo presente
l’architettura dei processi cognitivi umani:
“Sai che il pubblico vuole sempre avere qualche
elemento che anticipa la storia; vogliono sentire di
sapere ciò che accadrà dopo. Dunque tu
deliberatamente giochi su questo fatto per controllare i
loro pensieri. In questo modo il pubblico viene
completamente assorbito dalla propria mente”
Nelle teorie illusionistiche come in quella di Tan c’è stata la tendenza a
caratterizzare lo spettatore come necessariamente passivo. È stato
affermato, in vari modi, che il film immobilizza psicologicamente gli
spettatori e fa di loro inconsapevoli vittime di una manipolazione
ideologica.
Gregory Currie
(
5
)
si oppone all’idea del film come macchina di emozioni
e dunque induttore di illusioni, basando le sue argomentazioni sulla
teoria della simulazione.
(
5
) Currie: “Imagiantion and Simulation: Aesthetics meet Cognitive Science” in Davies e
Stone (Eds): Mental Simulation: Readings in Philosophy and Psychology, Oxford:
Blackwell; 1995
Egli sostiene che il processo di percezione ed elaborazione delle
informazioni visive nel cinema è analogo a quello che avviene per il
mondo reale, contestando l’ipotetico carattere illusorio dello spettacolo
cinematografico. Secondo Currie
(
6
)
l’interpretazione di un film è simile
all’interpretazione che noi effettuiamo quotidianamente quando
interpretiamo l’ambiente in cui siamo inseriti e il comportamento di chi
ci circonda. Egli rifiuta l’assunto dell’esistenza sia di un’illusione
percettiva che di un'illusione cognitiva. La nostra capacità di riconoscere
un qualsiasi oggetto X e quella di giudicare se c’è effettivamente un X di
fronte a me o meno sono due cose ben distinte, infatti, tali processi
operano su due livelli cognitivi differenti. Currie prosegue sostenendo
che non c’è l’illusione di movimento durante la proiezione di un film al
cinema, il movimento è reale poiché viene realmente percepito. Il
presunto movimento che vediamo sullo schermo è il prodotto del nostro
sistema percettivo, e il secondo non può essere concepito
indipendentemente del primo.
Il film non comporta nemmeno illusioni cognitive, vale a dire che lo
spettatore assuma false credenze (credere che ciò che sta guardando
siano eventi reali). Lo spettatore mantiene, per tutta la durata della
visione, la credenza di trovarsi al cinema, di assistere ad un film, cioè ad
una rappresentazione. L’attività dello spettatore avviene attraverso la
simulazione intesa in chiave immaginativa. La simulazione è un’attività
che l’essere umano svolge quotidianamente (lo abbiamo visto anche a
proposito di dibattito tra Theory-Theory e Simulation-Theory). Il nostro
coinvolgimento nel film riflette quest’attività naturale che ci permette di
interagire con i nostri simili. Di conseguenza, nel seguire le vicende
narrate da un film noi simuliamo credenze e desideri d’individui
rappresentati.
Secondo Currie il film è realistico e non illusorio proprio perché esso
“attiva” le nostre capacità naturali e reali di riconoscimento. Currie
(
6
) Currie G, “Film, Reality, and Illusion” in Bordwell, Carroll (Eds.) Post-Theory, 1996
rifiuta l’idea che il film induca all’illusione che i fatti rappresentati sullo
schermo siano reali e che lo spettatore abbia la sensazione di assistere
realmente ai fatti. Se così fosse, se lo spettatore avesse l’illusione di fra
parte pienamente del film, considerando che le emozioni hanno
conseguenze comportamentali, allora avrebbe reazioni ben più forti di
quelle che realmente ha. Per lo spettatore l’atto di simulazione è avere la
credenza: “sembra” o “come se “.
Noël Carroll in The Philosophy of Horror (1990) distingue tre visioni
alternative del film come illusione che chiama “Teoria dell’Illusione”
(Illusion Theory), “Teoria della Finzione” (Pretend Theory), e “Teoria
del Pensiero” (Thought Theory). Carroll stesso adotta la Thought Theory
mentre la teoria della simulazione di Currie corrisponde alla “teoria della
finzione”. Secondo Carrollper rispondere emotivamente e con una certa
intensità, allo spettatore basta “intrattenere” il pensiero di qualcosa. Se,
per esempio, guardiamo un film horror noi, da spettatori non crediamo, a
differenza dei personaggi del film, che certi mostri esistano: la nostra
paura e disgusto sono piuttosto una risposta al semplice pensiero di tali
mostri. Il film invita a mantenere nella mente il pensiero di ciò a cui
effettivamente rispondiamo emotivamente, c'invita a considerare l’idea
di tale oggetto.
Naturalmente tale esperienza, si tratti d'illusione o simulazione, è favorita
(Tan potrebbe dire "dipende") dall’abilità dell’immagine cinematografica
di creare l’impressione di realtà all’interno della mente dello spettatore.
Ma lo spettatore non è un “recipiente” passivo, bensì un attivo
partecipante all’esperienza cinematografica, anzi, è un soggetto che usa
tali immagini. I film ci permettono di esperire una sorta d’illusione (non
nei termini radicali di Tan in cui l’immagine si sostituisce alla realtà ma
come parvenza di realtà) grazie alla quale percepiamo il film come se
fosse la realizzazione di un mondo reale, un mondo di esperienza e non
una rappresentazione di esso.
Come suggerisce Richard Allen
(
7
)
lo spettatore è capace di percepire il
film in un modo che potrebbe indurre a pensare che sia soggetto ad
un’illusione proprio perché esso stimola una “perdita della
consapevolezza del mezzo”, per cui lo spettatore stesso cessa di vedere le
immagini del film come semplici immagini. Mentre viviamo l’esperienza
di un’illusione sensoriale e quella dell’abbandono della consapevolezza
del mezzo, le nostre credenze rimangono intatte.
Ma che ruolo hanno i nostri pensieri, le credenze e le percezioni quando
ci sorprendiamo a pensare “La fotografia di questo film è eccezionale” e,
un attimo dopo “Oh no, ecco Van Darter che si avvicina...” senza vivere
alcuna reale dissonanza cognitiva?
(
8
)
. Per poter comprendere questo tipo
d’illusione possiamo fare riferimento all’illusione di Muller e Lyer
(1889): due linee di misura uguale appaiono in un’illustrazione che le fa
apparire di lunghezza diversa e, la maggior parte degli osservatori giunge
in effetti a questa conclusione. Una volta che il gioco illusorio viene
svelato (anche con l’aiuto di un righello) tale credenza viene sostituita da
quella che le linee sono della stessa lunghezza. Tuttavia, “l’aspetto” delle
due linee rimane invariato: le linee continuano ad apparire di due
lunghezze diverse. Illusioni come questa sembrano presentare un chiaro
esempio di un caso in cui le nostre percezioni non coincidono con le
nostre credenze.
A tale proposito Allen (1995) sostiene che il cinema, come mezzo,
permette allo spettatore (o alla maggior parte degli spettatori) di scegliere
se vedere o no l’immagine come immagine o come realtà. Essi, in ogni
caso, non possono percepire l’immagine in entrambi i modi
contemporaneamente.
Come possiamo essere capaci di sostenere l’illusione percettiva quando è
direttamente contraddetta dalle credenze che abbiamo? Secondo Allen è
(
7
) Allen R., Project Illusion: Film, Spectatorship and the Impression of Reality,
Cambridge University Press, 1995
(
8
) Per dissonanza cognitiva s’intende la coesistenza di due credenze che si escludono a
vicenda: A e ¬ A
necessario “sospendere” temporaneamente o “circumnavigare” la
credenza di trovarsi davanti ad un prodotto fittizio in modo tale da
partecipare al mondo immaginario che propone il film. Finché lo
spettatore mantiene queste credenze, egli le può usare per spingersi
dentro e fuori l’esperienza illusoria.
In questa luce, la coscienza sembrerebbe giocare un ruolo molto
importante nella creazione dell’esperienza cinematografica. Molte teorie
filmiche trascurano il ruolo che la mente cosciente gioca nella visione di
un film oppure la dipingono come un ostacolo per raggiungere il pieno
coinvolgimento in tal esperienza (per esempio la teoria psicanalitica).
La posizione di Allen potrebbe essere vista come una via intermedia tra
la posizione illusionista e quelle antagoniste. Il film non è un’illusione, è
una creazione di finzione che stimola percezione, processi mentali e
risposte emotive del tutto reali. D’altra parte tali reazioni emotive non
potrebbero aver luogo se lo spettatore, perdendo la consapevolezza del
mezzo, non “entrasse” nell’universo filmico e contribuisse alla sua
realizzazione partecipando attivamente con tutta la propria
“soggettività”.
Anzi, si potrebbe dire che proprio perché siamo consapevoli del carattere
fittizio del film riusciamo a viverlo in modo totalizzante. Esiste,
potremmo dire, una tacita consapevolezza da parte dello spettatore che
quello che sta guardando è un film. Questo è il dominio a cui le sue
reazioni sono relativizzate. È proprio questa "relativizzazione" che ci
permette di essere coinvolti completamente dal film per tutto il tempo in
cui lo guardiamo. È quello che succede coi bambini quando giocano a
“fare finta che…”: essi si immedesimano nel mondo che hanno creato,
occupano un posto in questo mondo immaginario, ma non perdono loro
stessi durante il processo. Allo stesso modo, lo spettatore di un film, che
si trova immerso nel mondo filmico, è ugualmente e soprattutto
implicitamente consapevole che ciò che sta vedendo non è realtà.
Quando una persona guarda un film è consapevole dell’esperienza che
sta vivendo su due livelli distinti:
1) La consapevolezza del film
2) La consapevolezza di guardare un film
La cornice di riferimento (noi fisicamente ci troviamo in un cinema e
quello cui stiamo assistendo è il prodotto di cineasti che vogliono
suscitare in noi certe risposte emotive) all’interno della quale guardiamo
un film è proprio ciò che ci permette di essere totalmente e “in piena
sicurezza” assorti in ciò che stiamo vedendo in modo tale da poter
viverlo pienamente. Questo è l’abbandono psicologico a cui fa
riferimento la teoria psicanalitica, ma è letto in chiave cosciente.
Possiamo comodamente abbandonare la nostra mente, e soprattutto il
nostro corpo, proprio perché sappiamo che non siamo veramente
attaccati da un serial killer o veramente ci stiamo sposando o veramente
stiamo per precipitare nelle Cascate del Niagara. Si potrebbe azzardare
un paragone tra l’esperienza dello spettatore al cinema e quella delle
montagne russe: siamo comodamente seduti, con le cinture di sicurezza
allacciate e ci godiamo il brivido che le caratterizza.
4.5 Partecipazione emotiva e risposta empatica
Ogni tipo di reazione emotiva durante la visione di un film è suscitata per
mezzo di vari e differenti processi cognitivi che cooperano e
interagiscono al fine di costruire la complessa esperienza estetica della
storia nella sua totalità.
Naturalmente noi, come spettatori, non distinguiamo i vari tipi di
esperienza emotiva durante la proiezione poiché gran parte dei processi
cognitivi procede in modo automatico e l’esperienza che ha accesso alla
nostra coscienza è la complessa emozione che risulta da tali processi.
La tecnica filmica (come ho già detto) è essenziale nel creare effetti
percettivi ed emotivi. Non c’è dubbio che più d’ogni altra arte, il film
agisce direttamente sui nostri sensi di vista e udito, sullo schermo e
“intorno” a noi. C’è una certa differenza, per esempio, con il teatro in cui
tale sospensione della consapevolezza del mezzo è resa più difficile
rispetto al cinema nonostante scene e attori siano fisicamente presenti.
Empatia, Simpatia e Film
Un numero sempre più ampio di filosofi e psicologi ha ipotizzato che
l’empatia fosse cruciale per la nostra abilità quotidiana di comprendere,
spiegare e predire il comportamento di coloro che ci circondano. Se
l’empatia ha un ruolo cruciale nella nostra comprensione dell’ambiente,
della società e degli altri allora non è difficile capire che essa è tutt’altro
che marginale o di poca importanza nella comprensione di un film.
Infatti, come sostiene la teoria cognitiva durante la visione di un film
sono la volontà di orientamento all’interno dell’universo filmico e la
scoperta uno dei principali "piaceri" per lo spettatore
(
9
)
. L’empatia è un
processo cognitivo che porta ad una risposta emotiva concepita come
mezzo per la comprensione del film stesso.
(
9
) Bordwell: “A case for Cognitivism” in Iris, 9; 1989. (pp.11-40)
Come sappiamo, non tutte le risposte condivise sono casi di empatia.
Perché le mie emozioni siano il risultato di un processo empatico è
necessario che il mio stato emotivo sia motivato dallo stato emotivo
dell’altro e che l’emozione che provo sia simile a quella altrui, vale a dire
che mi rappresenti lo stato cognitivo dell'altro in relazione alla situazione
e ne inferisca l'emozione condividendola. Ma si può effettivamente
parlare di rapporto empatico tra lo spettatore e il personaggio
cinematografico? E che differenza c’è tra l’empatia reale che si stabilisce
tra le persone nella vita di tutti i giorni e quella che crea il
coinvolgimento emotivo di chi assiste al film?
Per Carroll riferirsi all'empatia non permette di elaborare una buona
teoria del rapporto tra spettatore e personaggio perché molto spesso il
nostro stato emotivo in relazione ai personaggi non è caratterizzato da
emozioni condivise. Tuttavia, dobbiamo avere una prospettiva della
dimensione spaziale e psicologica dell’altro per provare, per esempio,
pietà nei suoi confronti. Egli parla a questo proposito di assimilazione,
cioè di accesso al punto di vista dell’altro, senza condividerne
necessariamente lo stato emotivo
(
10
)
. Nell'esperienza cinematografica non
esiste nessuna connessione tra rapporto empatico ed emozione perché la
relazione tra lo stato emotivo del personaggio e quello dello spettatore è
asimmetrica, laddove l’empatia richiede una forma d’identificazione che
implica invece una relazione simmetrica. Lo spettatore può assimilare la
valutazione della situazione del personaggio senza perdere se stesso nel
processo (ad esempio può capire la paura del personaggio senza credere
con questo che l’assassino esiste). Per cui, per poter partecipare
emotivamente alla situazione rappresentata, non è necessario empatizzare
col personaggio o con i personaggi. Lo spettatore semplicemente
comprende il perché di una data reazione del personaggio nel contesto
dato. Inoltre, può provare emozioni per il personaggio, senza che
quest'ultimo le provi nella situazione. Carroll prosegue: “se per esempio
(
10
) Si può notare che il concetto di assimilazione si avvicina alla definizione di “simpatia”
l’eroina sta tranquillamente nuotando in una piscina, senza accorgersi
che l’assassino si sta avvicinando, noi abbiamo paura per lei. Ma questo
non è ciò che lei prova. In realtà, lei si sta divertendo” (Carroll, 1990).
A proposito del rapporto tra la risposta emotiva dello spettatore ed
empatia, Ed Tan suggerisce che lo spettatore si trova in una posizione
totalmente passiva di fronte a ciò che vede sullo schermo. Per cui non
può ma soprattutto non sente l’impulso di fare niente (per esempio di
dare aiuto) rispetto a quello che vede. Questa disposizione dello
spettatore crea una relazione simpatetica tra spettatore e personaggio, e
invita lo spettatore a provare interesse e preoccupazione per il
personaggio. Per ciò, secondo Tan, la disposizione simpatetica o
l’attitudine verso il personaggio è anche la condizione per l’esperienza
emotiva e spiegherebbe i casi in cui lo spettatore prova, per dire, pena
piuttosto che disgusto nei confronti di un personaggio sgradevole.
Sulla stessa linea teorica Murray Smith
(
11
)
sostiene che il concetto di
empatia non sia corretto per definire il coinvolgimento e la risposta
emotiva dello spettatore. Egli propone un sistema che comprende diversi
e distinti livelli di coinvolgimento dello spettatore con i personaggi
cinematografici che, insieme, costituiscono quello che chiama “struttura
di simpatia”, che consta di tre passi fondamentali:
(1) il nostro riconoscimento dell’esperienza emotiva dei personaggi,
(2) una struttura di allineamento che consiste in un particolare
attaccamento, accesso soggettivo e allineamento percettivo,
(3) la nostra fedeltà, o in altre parole, la nostra valutazione morale e
ideologica dei personaggi.
(
11
) Smith M., Engaging Characters: Fiction, emotion, And The Cinema, Oxford:
Clarendon Press, 1995
Una delle principali distinzioni che fa è quella tra “allineamento”
(alignment), che descrive il processo attraverso il quale gli spettatori
sono posti in relazione ai personaggi in termini di acceso alle loro azioni,
alle loro credenze e ai loro stati emotivi; e “fedeltà” (allegiance), che
consiste nella valutazione morale e ideologica dei personaggi da parte
dello spettatore
(
12
)
. Nell'allineamento noi condividiamo il percorso del
personaggio, il suo punto di vista in senso fisico: ciò significa focalizzare
il personaggio, seguirne i movimenti, vedere ciò che vede ecc.;
nell'ultimo passo, noi condividiamo i valori del personaggio, il suo punto
di vista in senso morale: ciò implica approvazione, presa di posizione per
il personaggio in senso morale, schieramento dalla parte dell’eroe contro
il “cattivo”. Se, per esempio, proviamo pietà per la consapevolezza di
Edipo di aver ucciso il padre e posseduto sua madre, questo non è certo
quello che il personaggio sente. L’emozione che prova è senso di colpa,
rimorso e auto-recriminazione. Noi, come spettatori delle sue vicende,
rispondiamo alla situazione che include il suo sentimento di repulsione
per l’incesto, una valutazione che noi potremmo condividere.
Quindi, anche Smith sostiene che è la simpatia piuttosto che l’empatia la
chiave per comprendere la struttura della relazione che si crea tra
spettatore e personaggio. E, come abbiamo visto, Smith associa la
simpatia alla “simpatia morale”. La simpatia è sempre stata concepita
come una predisposizione positiva verso l’altro e caratterizzata da
sentimenti “benevoli”. Nel caso di Smith tale processo coincide, o viene
associato, alla valutazione morale e ideologica dell’altro
indipendentemente dal valore (positivo o negativo) che viene attribuito a
tale valutazione.
(
12
) Come vedremo talvolta l’empatia ha ben poco a che vedere con la valutazione morale
Abbiamo visto le principali posizioni che si schierano contro il
coinvolgimento empatico dello spettatore e sostengono l’esistenza di un
rapporto simpatetico tra spettatore e personaggio piuttosto che una
completa "adesione" tra le loro emozioni. Tan e Carroll sottolineano il
fatto che l’emozione dello spettatore non coincide quasi mai con quella
del personaggio: lo spettatore sente “per” piuttosto che “con” per cui c’è
una certa asimmetria tra le emozioni dell'uno e quelle dell'altro. Anche
Smith fa riscorso alla simpatia ma associa quest’ultima ad una
valutazione morale e soggettiva dello spettatore nei confronti del
personaggio.
Una delle funzioni principali dell’empatizzare con gli altri (e potrebbe
non essere una motivazione consapevole) è il desiderio di comprendere
lo stato mentale altrui. C’è una forte differenza tra empatizzare con
personaggi di fantasia tratti dalla letteratura e quelli cinematografici. Nel
caso dei personaggi tratti da romanzi, molto spesso abbiamo svariate e
dettagliate informazioni circa la situazione e il soggetto preso in
considerazione; le lunghe descrizioni ci raccontano particolari sui loro
pensieri, i loro desideri ecc. Ciò potrebbe portare a pensare che i tentativi
di empatia con tali personaggi hanno un ampio margine di successo.
Infatti, come abbiamo visto, più è particolareggiata la conoscenza dello
stato psicologico dell’altro e della situazione in cui si trova, più ci sono
possibilità di empatizzare con successo.
I personaggi cinematografici suscitano processi empatici più simili
(rispetto a quelli riguardanti i personaggi della letteratura) quelle della
vita reale. Naturalmente, ciò non significa che noi non possiamo mai o
non abbiamo mai bisogno di empatizzare con personaggi della
letteratura, ma le considerazioni che ho appena fatto suggeriscono che
quando ciò accade, il nostro processo empatico e la nostra risposta
saranno molto differenti da quelle che proviamo nei confronti di persone
reali. La differenza da prendere in considerazione è quella
dell’empatizzare con persone reali, anche persone molto vicine a noi, dei
cui stati psicologici raramente possediamo una conoscenza dettagliata.
Coinvolgersi nelle vicende di un personaggio cinematografico pone in
una posizione molto più vicina a quella in cui ci troviamo quando ci
coinvolgiamo con persone reali piuttosto che quando leggiamo le
vicende di un personaggio inventato da uno scrittore. Ovviamente, nel
caso del cinema vista e udito giocano un ruolo fondamentale nel nostro
coinvolgimento come spettatori, cosa che non succede con il lettore nei
confronti delle vicende narrate dal libro. Il film attiva in noi un processo
di elaborazione, coinvolgimento e risposta che rispecchia le modalità in
cui, quotidianamente, tentiamo di comprendere gli altri esseri umani.
Sappiamo che i fattori che influiscono sulla possibilità di empatizzare
sono differenti da quelli che determinano la simpatia. Nel caso
dell’empatia, la familiarità con l’altro e la sua situazione è la condizione
più importante, mentre per la simpatia, disposizione positiva verso l’altro
(che rappresenta qualcosa di positivo per noi come spettatori) sembra
essere la variabile principale.
Quindi il rapporto simpatetico nell’esperienza filmica può essere definito
come una predisposizione verso il personaggio o una valutazione morale
su di lui, mentre nel caso dell’empatia lo spettatore condivide l’emozione
del personaggio come se fosse la propria.