4
disposizioni di legge che regolano la materia del delitto 
tentato.  
Il riferimento è all’articolo 56 del codice penale vigente 
che sancisce la punibilità a titolo di delitto tentato nei 
casi in cui siano compiuti “atti idonei, diretti in modo non 
equivoco alla commissione di un delitto”: la formula in 
esame non può portarci ad escludere tout court  la 
configurabilità di un delitto tentato sorretto da colpa, 
specie se interpretata in senso rigidamente oggettivo.  
Al riguardo sembra necessaria un’analisi più ampia che 
indaghi  sul carattere della norma e sulla relazione che 
intercorre fra l’istituto del delitto tentato e altre norme 
contenute nella parte generale del nostro codice penale.  
 La dottrina ha da sempre inquadrato l’istituto in esame 
nella categoria delle forme di manifestazione del reato 
attribuendo al delitto tentato qualificazioni proprie anche 
di altre norme: si è parlato di formula estensiva della 
punibilità, di norma complementare, integratrice delle 
fattispecie di parte speciale, accessoria, secondaria
2
.  
 Di certo senza la norma in esame l’azione non compiuta 
o la mancata realizzazione dell’evento (fatti salvi i casi in 
cui ci trovassimo di fronte ad una previsione espressa di 
norma incriminatrici, come delitti a sé stanti) non 
produrrebbero mai una risposta dell’ordinamento e quindi 
non sarebbero punibili. La pena è infatti subordinata al 
verificarsi di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie 
incriminatrice di parte speciale e questa condizione non 
                                                           
2
 V., ad es., ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte generale ; F. MANTOVANI, Diritto 
Penale, Parte generale, p. 433, Padova 1992, ; G. BETTIOL, Diritto Penale, Parte generale, p.  
532, Padova 1976; B. PETROCELLI, Il delitto tentato, p. 12, Padova 1966; M. SINISCALCO, La 
struttura del delitto tentato, Milano 1959.  
 5
risulta essere soddisfatta nel caso in cui come già detto 
l’azione non si compia o l’evento non si verifichi.  
Solo grazie all’introduzione nel nostro ordinamento di 
un’apposita norma si rendono punibili condotte che 
altrimenti sarebbero penalmente irrilevanti. Non si può 
infatti condividere la tesi secondo la quale attraverso 
l’introduzione di tale norma sarebbe punibile anche la 
realizzazione parziale della fattispecie delittuosa
3
; infatti, 
come già esaminato in precedenza, in tanto si ha una 
risposta sanzionatoria dell’ordinamento in quanto la 
situazione concreta che l’agente ha posto in essere 
coincida integralmente con ciò che è previsto nella parte 
condizionante la norma: tale principio generale 
escluderebbe quindi la possibilità di esprimersi in termini 
di realizzazione parziale egualmente punibile
4
.  
Posta l’esistenza di tale norma nel nostro ordinamento 
(art 56 c. p. vigente) si tratta ora di evidenziare la 
situazione di rapporto e quindi il punto di riferimento che 
legittimerebbe le qualificazioni sopra accennate: questo 
può essere rappresentato dall’ordinamento penale nel suo 
complesso o dalle singole disposizioni incriminatrici.  
Se ci riferiamo all’ordinamento penale nel suo complesso 
possiamo sicuramente definire la norma del delitto 
tentato come norma estensiva, in quanto prevedendo la 
punibilità per fatti altrimenti penalmente irrilevanti 
estende l’incriminazione che invece dovrebbe essere 
limitata al delitto consumato.   
                                                           
3
 PETROCELLI B., Il delitto tentato, Padova 1966; 
4
 SINISCALCO M., La struttura del delitto tentato, Milano 1959 <<La formula della realizzazione 
parziale, a prescindere da questioni di esattezza terminologica, esprime una posizione sostanziale 
essenziale: essa indica infatti l’assunzione di un limite preciso relativamente all’inizio degli atti 
punibili. >> 
 6
Se, al contrario, ci riferiamo alle singole disposizioni 
incriminatrici il carattere integrativo, estensivo o 
complementare della disposizione sul delitto tentato non 
può essere dimostrato: la disposizione dell’articolo 575 c. 
p., ad esempio, che prevede il delitto di omicidio non può 
dirsi correttamente integrata dall’articolo 56 c. p. in 
quanto la disposizione contenuta nell’articolo 575 c. p., 
relativamente al contenuto che gli è proprio, non 
necessita di integrazione. Inoltre, in tanto si può definire 
come accessoria o secondaria in quanto si ricollega 
necessariamente ad una disposizione di parte speciale 
alla quale accede e senza la quale non avrebbe possibilità 
di concreto funzionamento: tale norma infatti, come del 
resto altre speciali forme di manifestazione del reato
5
 
sono definite in dottrina “ schemi vuoti di per sé
6
 “ che 
acquistano rilevanza penale solo attraverso il 
collegamento con un particolare tipo delittuoso.  
Il necessario collegamento con le disposizioni di parte 
speciale senza il quale la norma dell’articolo 56 non 
potrebbe operare, raddoppia le singole figure criminose 
generando di conseguenza nuove fattispecie di delitto 
risultanti dalla compenetrazione delle due parti, la parte 
generale (rappresentata dall’articolo 56 e quindi dagli 
elementi descritti in tale norma) e la parte speciale.  
                                                           
5
 Si pensi al concorso eventuale di persone nel reato ex art. 110 c. p. SINISCALCO nota che non 
sussistono problemi nel caso in cui più agenti realizzano insieme e ciascuno al completo la 
fattispecie di reato: infatti in questi casi la disposizione che prevede la punibilità per il reato 
potrebbe essere sufficiente ad incriminare tutti i concorrenti. La differenza si avverte invece nel 
caso di istigazione, favoreggiamento o di realizzazione parziale dell’azione descritta nella 
disposizione incriminatrice: in questi casi tali condotte solo attraverso una disposizione specifica 
(contenuta normalmente in parte generale) possono ritenersi punibili.  
6
 PIETROCELLI B., Il delitto tentato, Padova, 1966.  
 7
A questo punto l’individuazione dell’elemento soggettivo 
di questa nuova fattispecie delittuosa non può che 
trovare riscontro nell’articolo 42 comma 2° del nostro 
codice penale che prevede il dolo come forma ordinaria di 
responsabilità per i delitti: se il delitto tentato è infatti 
un delitto che nasce dalla compenetrazione dell’articolo 
56 c. p. con una norma incriminatrice di parte speciale 
non si vede perché non dovrebbe operare l’articolo 42 
comma 2° come principio generale di responsabilità. Lo 
stesso articolo 56 parla di “atti diretti a commettere un 
delitto “ negando ammissibilità giuridica per il tentativo 
di contravvenzione e innescando quindi  l’operatività del 
principio contenuto nell’articolo 42 che nega la punibilità 
a titolo di colpa per i delitti se non in caso di espressa 
previsione legislativa: restano pertanto nettamente 
esclusi dalla figura del delitto tentato i delitti colposi.  
L’affermazione per cui il tentativo è solo doloso è 
contraddetta da alcuni autori che in passato hanno 
affermato che non sussiste alcun motivo di 
incompatibilità tra colpa e tentativo, prospettando al 
riguardo l’idea che anche nel delitto colposo si può 
verificare una incompleta realizzazione della fattispecie
7
. 
Questa teoria si giustificherebbe proprio alla luce degli 
aspetti oggettivi del tentativo che in astratto non 
giustificano una definitiva incompatibilità.  
Sono stati fatti a proposito degli esempi tra cui quello 
della madre che lascia un veleno sul tavolo intorno al 
quale giocano i propri figli: l’azione della madre è 
sicuramente imprudente nei confronti dei figli ma 
                                                           
7
 ALIMENA F., il concetto unitario del reato colposo, in Riv. It. Dir. Pen., 1939.  
 8
potrebbe non sfociare in un evento dannoso nel caso in 
cui un terzo attento tolga il veleno dal tavolo. Secondo 
questa teoria il tentativo concernerebbe l’elemento 
materiale e non quello psicologico: l’azione dell’esempio 
è colposa in quanto potrebbe produrre la morte di uno dei 
figli se un terzo attento non impedisse il verificarsi 
dell’evento. Secondo i sostenitori di queste teorie il 
ritenere il tentativo solamente doloso, sembrerebbe 
frutto di una concettualizzazione ormai consolidata non 
ponendosi ostacoli sul piano logico alla incriminazione di 
una condotta colposa che per un caso non produca 
l’evento.  
Seppure sul piano logico sembra non possano muoversi 
critiche, è indiscutibile che l’ostacolo posto dalle 
previsioni legislative (art 56 c. p. e art. 42 comma 2° c. 
p. ) sia insormontabile e che quindi si possa affermare 
che, in base alle attuali previsioni del nostro codice, il 
titolo di responsabilità previsto per il delitto tentato sia il 
dolo.  
 9
2) “IL DOLO DEL TENTATIVO E’ IL DOLO DELLA 
CONSUMAZIONE”, PRECISAZIONI E LIMITI DELLA 
FORMULA.  
 
Individuata nel dolo la forma dell’elemento psicologico 
del delitto tentato la dottrina ha da sempre sostenuto che 
l’elemento psicologico della fattispecie tentata sia 
identico a quello della relativa fattispecie consumata in 
quanto tanto il delitto tentato quanto il delitto consumato 
richiederebbero la medesima risoluzione criminosa.  
Tale impostazione è sicuramente condivisibile se con essa 
si vuole affermare che nel tentativo la volontà dell’agente 
deve tendere alla consumazione. Sicuramente diverso 
sarebbe il discorso se con la stessa si volesse 
sottolineare una perfetta identità di elemento psicologico, 
ritenendo quindi compatibili con la fattispecie tentata 
tutte le forme con cui il dolo si atteggia nella fattispecie 
consumata: in altre parole, se vi fosse perfetta identità, 
qualsiasi forma di dolo sarebbe automaticamente 
sufficiente ad integrare un tentativo punibile.  
Affermare una perfetta identità di elemento psicologico, 
inoltre, ci porterebbe a dover sostenere, come diretta 
conseguenza dell’affermazione, una relativa identità 
dell’oggetto del dolo: quindi, il dolo del tentativo 
risulterebbe identico al dolo del relativo delitto 
consumato sia nella struttura che nell’oggetto.  
Il Petrocelli
8
, abbracciando tale impostazione, sostiene 
infatti che il dolo del tentativo è costituito dal dirigersi 
della volontà alla produzione dell’offesa tipica del delitto 
                                                           
8
 PETROCELLI B., Il delitto tentato, Padova 1966 p. 35; 
 10
consumato, come risulta dalla dizione dell’art. 56 c. p. 
che parla di “atti diretti a commettere un delitto”: 
l’elemento psicologico del delitto tentato, quindi, non 
potrebbe non essere che quello del delitto consumato in 
quanto ne conterrebbe integralmente lo stesso oggetto. 
Infatti, sostiene l’autore, l’agente ha agito con 
l’intenzione di produrre tutta l’offesa che è propria del 
relativo delitto dirigendo i propri atti alla consumazione: 
colui che realizza un tentato omicidio agisce con 
l’intenzione di cagionare la morte. Se non ci fosse 
identità di oggetto tra il dolo e del tentativo e quello 
della consumazione, l’idea stessa del tentare non avrebbe 
alcun senso.  
Secondo altra autorevole dottrina
9
 le considerazioni in 
tema di identità di elemento psicologico non sembrano 
così ovvie: la ricostruzione dell’oggetto del dolo del 
tentativo al fine di evidenziarne eventuali differenze 
rispetto a quello del delitto consumato dovrebbe 
innanzitutto muovere da basi di diritto positivo.  
Il nostro ordinamento all’art. 43 c. p. qualifica il delitto 
come doloso, o secondo l’intenzione, allorquando l’agente 
abbia preveduto e voluto come conseguenza della propria 
azione od omissione il fatto previsto dalla legge come 
reato. Sulla scorta dell’art. 47 c. p. si ritiene che oggetto 
del dolo, e quindi oggetto della rappresentazione e 
volizione che l’art. 43 richiede al fine di imputare un fatto 
reato a titolo di dolo, sia l’insieme degli elementi che 
costituiscono la fattispecie, oggettivi o materiali, positivi 
                                                           
9
 M. SINISCALCO M., La struttura del delitto tentato, Milano 1959 p. 196 
 11
e negativi
10
.  
Anche per la fattispecie del delitto tentato la 
ricostruzione dell’oggetto del dolo non puo che seguire le 
regole generali valevoli per qualsivoglia delitto.  
Il soggetto agente deve innanzitutto volere gli atti che 
compie ma non può che rappresentarsi il “fine” verso il 
quale tali atti tendono che non è altro che il delitto 
consumato. In altre parole, mentre per quanto riguarda 
la condotta in senso stretto si ha un momento di 
volizione nel preciso significato psicologico del termine, 
in ordine a tutti gli altri elementi si può solo parlare di 
rappresentazione.  
Proprio grazie a questa differenza si possono cogliere i 
primi aspetti che differenziano il dolo del delitto tentato 
da quello del delitto consumato. Nel delitto tentato il 
soggetto agente vuole (e pone in essere) dei 
comportamenti che non essendo previsti dalla relativa 
fattispecie consumata non occorre siano contenuti nel 
dolo di consumazione e viceversa i momenti finale del 
fatto tipico, secondo il disposto di parte speciale, per la 
consumazione devono essere voluti, mentre nel tentativo 
non possono che essere rappresentati: gli atti realizzati 
devono quindi essere voluti mentre i momenti finali del 
fatto di parte speciale devono essere soltanto previsti, 
rappresentati. Secondo Siniscalco, inoltre, gli atti 
realizzati (voluti perché rappresentati) sono legati grazie 
ad un particolare collegamento alla rappresentazione dei 
                                                           
10
 Le cause di giustificazione sono ritenute elementi negativi del fatto in quanto verificandosi una 
di queste cause la fattispecie manca di tipicità. L’assenza di cause di giustificazione deve essere 
oggetto di rappresentazione da parte del soggetto agente come si desume dall’art. 59 c. p.: per 
versare in dolo è quindi necessaria la consapevolezza di agire in assenza di cause di 
giustificazione.  
 12
momenti finali della fattispecie speciale: senza uno 
stretto collegamento sarebbe infatti possibile incriminare 
a titolo di tentativo determinati atti compiuti dall’agente 
solo a titolo di esperimento, ricognizione. La distinzione 
che viene operata è tra piano generale e piano 
particolare dell’agente, indicando con il primo la 
risoluzione criminosa a commettere un certo delitto e con 
il secondo la volontà che muove come abbiamo detto i 
singoli atti fino a quel momento realizzati. Per potersi 
avere tentativo punibile sarà quindi necessario sul piano 
psicologico che l’agente si rappresenti gli atti successivi a 
quelli che compie (e che vuole) come necessari alla 
realizzazione del fatto criminoso di parte speciale inseriti 
in una serie causale “contestuale” a quelli che da lui 
vengono compiuti
11
.  
La visione del Siniscalco ricalca in qualche misura 
l’impostazione offerta da Delogu in tema di identità tra 
dolo di tentativo e dolo di consumazione: egli parte dal 
principio che la volontà sia strettamente collegata 
all’azione, nel senso che prima che questa inizi non può 
dirsi che esista una volizione dell’azione. Il dolo viene, 
infatti, scomposto da Delogu in due elementi che sono la 
volontà e “l’appetizione”: “ la prima rappresenterebbe il 
coefficiente che lega l’individuo all’azione, la seconda che 
lo legherebbe all’evento
12
“.  
                                                           
11
Questa impostazione del problema troverebbe secondo Siniscalco un soddisfacente riscontro 
anche nella lettera della legge all’art. 56 c. p. nella formula << diretti….. a commettere un 
delitto>> con relativa esclusione della punibilità di coloro i quali pur avendo l’intenzione di 
commettere un delitto operino a fine di ricognizione o di esperimento pur avendo commesso atti 
che sul piano oggettivo siano conformi alla fattispecie del delitto tentato 
12
 DELOGU, la struttura del reato tentato, in Annali di dir. e proc. pen., 1937, p. 556.  
 13
L’autore sostiene che, essendo i reati che ammettono la 
figura del tentativo composti in più atti, si avranno tante 
volizioni quanti sono gli atti che l’agente pone in essere 
per poter realizzare il completamento della catena 
causale che sfocerà nella consumazione del delitto 
particolare.  
Tali volizioni sono stimolate e coordinate dall’appetizione 
dell’evento “ma esiste solo la volizione dell’atto 
compiuto, mentre non può esserci ancora quella degli atti 
da compiersi”.  
In sostanza cioè, per il Delogu, nel delitto tentato, 
premesso che l’elemento psicologico consiste di volontà e 
di appetizione, l’appetizione sarà identica a quella del 
reato consumato, ma la volontà o meglio le volizioni 
saranno quantitativamente diverse a secondo degli atti 
posti in essere dal soggetto attivo.