Alla luce di questi avvenimenti e soprattutto della posizione
geografica della nostra penisola era prevedibile attendersi di avere uno
scenario di immigrazione quale quello che presenta ad oggi l’Italia.
Dall’esigenza di capire meglio quale è la reale situazione del paese
e verso quale futuro ci stiamo dirigendo è nata l’idea di strutturare uno
studio delle caratteristiche dell’integrazione degli immigrati con un
particolare sguardo al mondo del lavoro e della previdenza sociale.
Senza entrare nello specifico di argomenti che verranno trattati più
approfonditamente in seguito, occorre fare delle precisazioni e delle
premesse.
In primo luogo occorre ricordare che il mondo dell’immigrazione è
molto particolare e presenta delle peculiarità sue proprie a seconda che lo
si studi in un paese piuttosto che in un altro.
L’Italia è infatti un paese con una storia di immigrazione molto
giovane, come abbiamo ricordato prima si tratta di appena trenta anni, e
non si possono quindi prendere troppo in considerazione dei confronti con
altri paesi, che hanno una storia quasi centenaria, o con delle società e
culture che si sono forgiate sulla base di interscambi magari anche dovuti
a storie coloniali di grande rilievo.
In questi paesi gli immigrati sono già alla seconda se non alla terza
generazione, mentre da noi chiaramente si è ancora alla prima. Ciò ha
sicuramente, come si può intuire, delle conseguenze soprattutto in vista
dell’integrazione di tali generazioni.
Non va neanche sottovalutato l’aspetto numerico, che ci fa
ricordare, seppur con tutti i dubbi causati dalla lacunosità dei sistemi di
rilevazione, che nel nostro paese sono presenti molti meno immigrati che
in altri paesi U.E.
Ciò è in parte diretta conseguenza della nostra giovane storia
immigratoria, ma è in parte anche dovuto all’inadeguatezza del nostro
paese a ricevere un gran numero di lavoratori e del clima che si è creato
intorno a tale fenomeno, che non è certo dei più rassicuranti.
I fattori che portano spesso a considerare gli immigrati un peso se
non addirittura una minaccia per la nostra società sono collegati in gran
parte all’estrema visibilità che hanno nelle strade delle nostre città le
situazioni di disagio più esasperate.
Se infatti si vanno a fare i conti dell’apporto che i lavoratori stranieri
danno al nostro sistema produttivo e della loro utilità nell’essere
complementari ai lavoratori autoctoni, ci rendiamo conto che senza il loro
apporto e la loro presenza ci troveremo in difficoltà da molti punti di vista.
E’ proprio per questo motivo che l’intento di questo lavoro è
orientato a verificare quali siano i mestieri svolti dagli immigrati una volta
giunti in Italia, ed a verificare se realmente, come da più parti si sostiene, il
loro apporto è indispensabile per le nostre imprese.
Di questo argomento si sono occupati illustri economisti i quali
hanno tentato di disegnare un futuro quanto più verosimile per il nostro
paese in vista di alcune premesse ed alcuni obiettivi ormai sotto gli occhi
di tutti.
Per fare questo non bisogna dimenticare che l’Italia è uno dei paesi
cardine dell’U.E. e ne costituisce altresì un confine naturale, né tanto
meno che gli sviluppi demografici ci pongono di fronte a delle ineluttabili
verità.
Seppure infatti la demografia non sia una scienza esatta, è da
rilevare che le previsioni di crescita della nostra popolazione sono
drammaticamente basse ed occorre quindi chiedersi se all’invecchiamento
progressivo dei nostri lavoratori debba corrispondere un ingresso di
lavoratori immigrati in grado di sostituire chi non è più in grado di svolgere
le proprie mansioni.
Un altro problema che si è voluto analizzare riguarda una domanda
che è in maniera indiretta collegata al problema demografico. Si è cercato
infatti di capire se, come qualcuno crede, gli immigrati siano indispensabili
per pagare la nostra spesa pensionistica.
In questa ricerca ci si è avvalsi dell’aiuto dei preziosissimi dati forniti
dall’INPS e dal Ministero del Lavoro congiuntamente ad uno studio portato
a termine da Alberto Brambilla contenete anche un interessante modello
previsionale per il periodo 2000-2020.
La nostra ricerca quindi, non potendosi occupare, per ovvie ragioni,
del vasto fenomeno immigratorio nella sua interezza, si pone come
obiettivo quello di fare una fotografia quanto più verosimile della presenza
degli immigrati in Italia ed al contempo di adoperare i risultati così ottenuti
per capire come si evolverà nel futuro.
1 L’evoluzione dell’Italia da paese di emigranti
a paese di immigrati.
1.1 L’inizio dei flussi migratori verso l’estero
Da molti anni l’Italia non è più un paese di emigranti ma un paese di
immigrati. Nel 1971 infatti, per la prima volta nel dopoguerra, si riscontra
un fatto che solo pochi anni prima nessuno si sarebbe aspettato: gli
immigrati superano nel numero gli emigranti.
Ma facciamo un passo indietro ed andiamo ad analizzare quella
che è la situazione migratoria italiana all’inizio del ventesimo secolo, ed
anche qualche anno prima.
L’inizio dei flussi migratori dall’Italia, infatti, si può datare proprio
alla fine del 1800, e precisamente nel 1876. La prima fase migratoria si
caratterizza per la veloce ed esponenziale crescita del fenomeno che
porta agli inizi del secolo scorso circa 300 mila persone a cercare fortuna
e, soprattutto, lavoro oltre frontiera. Le mete di questa ondata migratoria
sono principalmente la Francia e la Svizzera, e le popolazioni più
interessate sono quelle dell’Italia settentrionale.
Con l’inizio della Prima Guerra Mondiale si ha il periodo di massimo
sviluppo del fenomeno. Nel 1913 si tocca l’apice con circa 873 mila
emigrati, tra cui però figurano un numero rilevante di meridionali. Le mete
continentali sono sempre le stesse con l’aggiunta della Germania, ma
questa volta non rappresentano la destinazione principale, costituita
invece dal flusso trans-oceanico che riguarda il 60% circa dei partenti.
Il periodo che va dalla fine del conflitto mondiale all’inizio del
secondo segna invece una contrazione dell’emigrazione dovuta sia agli
eventi bellici che alla politica antimigratoria del governo fascista. Questa
politica, unita alla crisi economica del 1929, portò grandi difficoltà nel
trovare lavoro.
Dal 1946 il governo italiano individua nell’emigrazione la soluzione
per fare fronte al problema della disoccupazione. I flussi migratori
riprendono quindi il loro corso, e gli italiani in molti pesi europei arrivano a
rappresentare la quota maggiore di immigrati. In questo periodo escono
dai confini nazionali soprattutto uomini in età “attiva”, prevalentemente
meridionali e senza capacità specifiche, che mirano a guadagnare quanto
più possibile nel minor lasso di tempo possibile, così da poter tornare nel
paese d’origine e ricongiungersi coi propri familiari
1
.
Per favorire l’inserimento e la permanenza nei paesi interessati a
ricevere la manodopera italiana, il nostro governo stipulò con i governi di
questi paesi degli accordi bilaterali.
Dagli anni Cinquanta in poi si sviluppa un nuovo fenomeno, quello
delle migrazioni interne. La gran parte di questi movimenti, circa l’80%, è
1
Ascoli U., “Movimenti migratori in Italia”, Il Mulino, Bologna 1979, pag. 65
di breve raggio e cioè si svolgono all’interno della stessa regione tra una
provincia e l’altra, il restante 20% si sposta invece sul territorio nazionale.
Il dato che però ci mostra con più chiarezza quale sia realmente la
situazione lavorativa nel dopoguerra in Italia è quello che quantifica in due
milioni il saldo migratorio negativo del meridione tra il 1950 e il 1970. Nel
settentrione del nostro paese infatti si riscontra uno sviluppo industriale,
con conseguente richiesta di manodopera, cui fa da contraltare il grave
tasso di disoccupazione del Mezzogiorno. Le conseguenze immediate per
il sud del nostro paese consistono in una progressiva femminilizzazione e
senilizzazione della popolazione, nonché in un consistente spopolamento
2
.
Inoltre, al contrario di quello che succede per le migrazioni estere,
le persone che si stabiliscono al nord non hanno intenzione di tornare nel
loro luogo di origine.
In questo clima si arriva quindi al fatidico anno 1971, l’anno
dell’inversione di tendenza, e ci si arriva nella falsa convinzione che l’Italia
non potesse essere allo stesso tempo paese di emigranti e meta di
immigrazione da parte di lavoratori stranieri.
2
Fato M., “Politiche migratorie in un paese di vecchia immigrazione e in uno di nuova
immigrazione. Francia e Italia a confronto”. Tesi di laurea in Sociologia del lavoro,
Facoltà di Sociologia, Università degli Studi “Federico II” di Napoli, Anno Accademico
1999-2000.
1.2 L’inversione di tendenza.
Come detto, in Italia vigeva la falsa convinzione che non ci potesse
essere un interesse dei lavoratori stranieri per il nostro mercato del lavoro.
Si credeva che gli stranieri, molti anche lavoratori di media ed alta
qualificazione, presenti al tempo sul nostro territorio, fossero presenti per
scopi turistici o umanitari. Anche per questo si scelse di abolire i visti e di
liberalizzare l’entrata nel nostro paese, mediante la sola segnalazione
della presenza dello straniero alle autorità di polizia
3
.
Nel 1963 si provvede, con la circolare 51/22/IV del Ministero del
Lavoro intitolata “Norme per l’impiego in Italia dei lavoratori subordinati
stranieri”, all’introduzione di una “autorizzazione per il lavoro” di
competenza dello stesso Ministero e distinta dal “permesso di soggiorno
per motivi di lavoro” di competenza invece del Ministero degli Interni. La
prima era legata alla domanda e all’offerta di lavoro, la seconda alla
opportunità della presenza del singolo nel nostro paese.
Segue un periodo in cui si fa luogo da parte del legislatore italiano
alla continua emissione di provvedimenti amministrativi tendenti per lo più
alla sanatoria di situazioni pregresse, senza il coraggio di decidere su
fenomeni già consolidati nella realtà produttiva e sociale italiana.
3
Neri F., “Il sistema Italia di fronte alle cause delle migrazioni”, in Economia italiana, n.52
del 2000.
Tale periodo finisce con l’emanazione della legge 934 del 1986
sulle “Norme in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori
extra comunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine”. Il
cambiamento dello strumento, che diviene quindi legislativo, non può in
ogni caso sviare da quello che è il reale obiettivo della legge suddetta. Lo
scopo infatti perseguito da tale legge è quello di incentivare la
legalizzazione delle presenze e creare le premesse per una riunificazione
dei nuclei familiari
4
. Altro obiettivo non dichiarato di tale legge, e, viste le
successive quattro proroghe ai termini di regolarizzazione, probabilmente
neanche raggiunto, consiste in un censimento della reale presenza
straniera in Italia.
In questo contesto si inserisce la legge n. 39 del 1990 (Legge
Martelli) che affronta il problema della concessione dello status di rifugiato,
e dei vincoli relativi all’attività lavorativa di cittadini stranieri. I punti salienti
di questa legge sono quelli che riguardano il permesso di soggiorno. Esso
è concesso solo a quanti siano in grado di dimostrare di disporre di beni
personali o di un’occupazione regolarmente retribuita o infine dell’impegno
di un ente, di un’associazione o di un privato “che diano idonea garanzia
ad assumersi l’onore dell’alloggio e del sostentamento del cittadino
extracomunitario”. Al suo apparire la legge Martelli suscitò molte
4
Neri F., “Il sistema Italia di fronte alle cause delle migrazioni”, in Economia italiana n.52
del 2000.
polemiche e un acceso dibattito dividendo il mondo politico e l’opinione
pubblica.
Ma la caduta del Muro di Berlino e la successiva crisi dei paesi
dell’Europa dell’est accrebbero il fenomeno migratorio e colsero
fortemente impreparata l’Italia, la cui risposta avvenne circa dieci anni
dopo, con la legge n. 40 del 1998 (Legge Turco-Napolitano).
Il “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero” introdusse
alcune rilevanti innovazioni come la “carta di soggiorno” e programmi di
integrazione sociale e di assistenza. Ma la novità maggiore introdotta con
questa legge è costituita dalla previsione e definizione di quote d’ingresso
per motivi di lavoro, e dalla individuazione di una serie di garanzie che
devono essere prestate dai cittadini, sia italiani che stranieri regolarmente
soggiornanti, promotori dell’arrivo dello straniero nel nostro paese.
Per quanto riguarda l’ingresso, secondo la legge è previsto che
italiani o stranieri in regola possono prestare garanzie per far giungere nel
nostro Paese un massimo di due persone l’anno.
Chi ha fatto domanda entro il 15 Dicembre scorso presso le
Questure italiane, e dimostra di avere i requisiti richiesti dalla legge, potrà
essere regolarizzato. In particolare lo straniero dovrà dimostrare di essere
in Italia prima del 27 Marzo 1998, di avere un lavoro, una casa, e di non
aver subito condanne.
Particolare tutela è assicurata ai minori e a chi, privo di permesso di
soggiorno, debba ricorrere all’assistenza sanitaria.
Per contrastare il traffico dei clandestini è previsto anche l’arresto in
flagrante degli scafisti e il sequestro dei mezzi utilizzati per il traffico.
Questi ultimi saranno messi a disposizione delle Forze dell’Ordine o degli
Enti di Protezione Ambientale oppure distrutti, per evitare che ritornino
attraverso vari canali, nelle mani dei trafficanti.
Per spiegare meglio il comportamento del legislatore italiano è
sicuramente meglio fare un passo indietro ed analizzare la situazione
europea nel periodo successivo alla ricostruzione dopo il secondo conflitto
mondiale.
Negli anni cinquanta infatti inizia per molti paesi europei una fase di
sviluppo economico molto accentuato anche se frenato dalle crisi mondiali
del 1954 del 1961 e del 1969. La produzione cresce in maniera
impressionante in un clima di liberalizzazione del commercio
internazionale dovuto anche alla nascita di M.E.C. ed E.F.T.A. nonché alle
regole di Bretton Woods.
Tutto ciò si svolge però con il permanere della divisione tra due
mondi, quello occidentale e quello orientale, fatto che ovviamente non
favorisce ma quasi annulla le possibilità di scambi commerciali tra le due
parti.
Lo sviluppo commerciale causa una crescita dei lavoratori non solo
per quel che riguarda il loro livello di vita, ma soprattutto innalza le loro
aspirazioni. Ciò rimane comunque in contrasto con la domanda di lavoro
che resta ancorata ad un modello retributivo che non riesce a correggere
la crescente indesiderabilità di molti lavori considerati poco gratificanti.
Per coprire gli anelli di produzione rimasti così vacanti non rimane
per le imprese che ricorrere alla manodopera immigrata molto abbondante
nella fascia meridionale dell’Europa, e per di più a basso costo.
Questa soluzione mette d’accordo tutte le parti concorrenti: le
imprese che riescono a garantire una maggiore concorrenzialità dei loro
prodotti, i paesi di accoglienza che ritengono questi nuovi immigrati dei
precari e quindi non fruitori di domanda pubblica di servizi, i lavoratori
autoctoni che non si sentono in concorrenza con lavoratori non
specializzati e i paesi di partenza che allontanando queste persone
allontanano tensioni dovute alla mancanza di lavoro.
La caratteristica di questa migrazione detta “a tempo e a scopo
definito” è quella di soddisfare le esigenze congiunturali della domanda. Il
fenomeno coinvolge alla fine degli anni sessanta circa quattro milioni di
europei dei paesi meridionali e altrettanti provenienti dalle sponde non
europee del Mediterraneo.
In questa situazione di domanda di lavoro ancora in fase di crescita
si arriva al 1973, anno in cui i principali paesi europei d’immigrazione
decidono di chiudere le frontiere. I primi due ad adottare questo
provvedimento sono Danimarca e Germania seguiti a breve termine da
Svezia, Francia, Norvegia, Austria e Svizzera.
Questi provvedimenti sono avversati dagli imprenditori, i quali dal
1974 danno vita ai primi decentramenti produttivi internazionali,
procurando una spinta rilevante al processo di industrializzazione dell’Asia
Sud-Orientale.
In questo quadro internazionale, l’Italia come si comporta? Nel
nostro paese ancora si è convinti di trovarsi nella categoria di coloro che
esportano manodopera e non si crede invece che il flusso internazionale
possa essere interessato a sbarcare in uno Stato come il nostro.
In Italia non viene preso alcun provvedimento normativo in ragione
del fatto che, superata la crisi petrolifera del 1973, il reddito aumenta,
l’occupazione anche, e nessuno si preoccupa dell’impennata
dell’inflazione che raggiunge il 21% nel 1980.
Con la Legge n. 79 del 1983 si comincia a puntare a un rientro
inflazionistico e ad una innovazione produttiva che causa un’eccedenza di
manodopera industriale.
Gli strumenti quali la cassa integrazione guadagni e il
prepensionamento, pur tenendo a bada la tensione derivante dalla
riduzione della forza lavoro, non riescono a diminuire l’inflazione ma anzi
hanno un rilevante effetto sul debito pubblico e creano un clima favorevole
all’economia sommersa, che richiama in Italia molti immigrati, spesso
anche clandestini.
La manodopera, per le sue caratteristiche, può essere utilizzata
soltanto illegalmente, causando un accrescimento significativo
dell’economia sommersa. Un’accresciuta offerta di lavoro irregolare,
impiegabile a costi minori, ha come effetto quello di spingere la
produzione legale ad entrare nel sommerso.
Nel 1987 il Deaglio dimostra come la dinamica dell’immersione del
settore industriale ha il suo apice proprio all’inizio degli anni ottanta in
corrispondenza del massiccio impiego degli sterilizzatori dell’eccedenza
strutturale di manodopera industriale, mentre il settore dei servizi è colpito
da questo fenomeno dopo il secondo shock petrolifero che causa un
grande flusso di immigrati clandestini.
Si può quindi concludere che le motivazioni dell’immigrazione
italiana negli anni settanta e ottanta hanno una duplice matrice. Essa è
favorita da un lato dalle politiche economiche restrittive degli altri paesi
europei, dall’altro all’opera di ristrutturazione industriale italiana che
incentiva l’economia sommersa.