partire qualsiasi indagine che voglia procedere con sicurezza nel campo di ciò che
non può essere messo in dubbio, e non del meramente probabile, è infatti, secondo
Sartre, il cogito ergo sum di Descartes. Io sono apoditticamente certo di esistere e di
esistere come pensiero, come coscienza che è in ogni momento coscienza di
qualcosa. È da questa certezza di base che deve prendere le mosse qualsiasi indagine
che pretenda di essere fondata. È un dato, questo, che emerge con chiarezza
nell’Esistenzialismo è un umanismo, 1’opuscolo pubblicato da Sartre nel 1946: “Il
nostro punto di partenza è in effetti la soggettività dell’individuo, e questo per ragioni
strettamente filosofiche. [...] Non vi può essere, all’inizio, altra verità che questa: io
penso, dunque sono. Questa è la verità assoluta della coscienza che coglie se stessa.
[...] fuori del «cogito» cartesiano, tutti gli oggetti sono soltanto probabili; ed una
dottrina di probabilità, che non sia sostenuta da una verità, affonda nel nulla”
5
.
Va a tal proposito precisato che Sartre, quando parla dell’individuo umano, lo
considera essenzialmente come «coscienza». L’uomo, cioè, si distingue dagli altri
enti in quanto ha come suo carattere primario l’«esser cosciente», in quanto è una
coscienza «dotata» di corpo. In tal senso, egli polemizza con la definizione che
dell’individuo aveva dato Heidegger, connotandolo come un Esser-ci. Nella sua
analitica esistenziale il filosofo tedesco non aveva preso in considerazione la
coscienzialità dell’individuo umano. A una tale mancanza egli aveva sopperito con il
concetto di comprensione, intesa come struttura ontologica dell’Esserci in quanto
tale. In tal senso l’Esserci era dotato di una precomprensione globale del mondo-
ambiente in cui viveva e del suo stesso essere come «poter-essere». Comprensione,
questa, attraverso la quale egli poteva destreggiarsi nella vita di tutti i giorni, nel
proprio prendersi cura intramondano. Secondo Sartre, tuttavia, anche il concetto di
comprensione diviene confuso e infondato se alla sua base non si pone la
coscienzialità dell’individuo. “Heidegger […] affronta direttamente l’analitica
esistenziale senza passare dal cogito. Ma il Dasein, privato all’origine della
dimensione della coscienza, non potrà mai riconquistare questa dimensione.
5
J.-P. Sartre, L’existentialisme est un humanisme, Nagel, Paris 1946; trad. it. di G. Mursia Re in
L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano 1974, p.61.
Heidegger attribuisce alla realtà umana una comprensione di sé che definisce come
una «proiezione ek-statica» delle sue possibilità. E non rientra certo nelle nostre
intenzioni di negare l’esistenza di questa proiezione. Ma che cosa sarebbe una
comprensione che, in se stessa, non fosse coscienza (d’)essere comprensione?”
6
.
“Heidegger […] ha del tutto evitato il ricorso alla coscienza nella sua descrizione del
Dasein. Il suo scopo è di mostrarlo immediatamente come preoccupazione, cioè
come sfuggente a sé nel suo proiettarsi verso le possibilità che esso è. Questo
protendersi fuori di se stesso, egli chiama la «comprensione» (Verstand) […] Ma
questo tentativo di mostrare subito la fuga da sé del Dasein va incontro, a sua volta, a
difficoltà insormontabili: non si può sopprimere subito la dimensione «coscienza»,
fosse pure per rivelarla poi. La comprensione non ha senso che come coscienza di
comprensione”
7
. In sostanza, per Sartre la dimensione fondamentale dell’individuo è
la coscienzialità. Non è dunque un caso che egli, pur accettando, come vedremo, la
caratterizzazione che dell’individuo Heidegger aveva offerto in Essere e tempo, ne
critichi il mancato riconoscimento della centralità della coscienza.
È partendo da ciò che si capisce perché nell’Essere e il nulla l’individuo umano
venga spesso indicato col termine «coscienza». E ciò non tanto perché Sartre
disconosca l’importanza, nell’uomo, della dimensione materiale, corporea, ma perché
egli considera quest’ultima come nient’altro che uno degli aspetti in cui la coscienza
stessa si estrinseca, coscienza che resta dunque il nucleo centrale dell’individuo. E,
del resto, è solo la coscienza, e non il corpo, a distinguere l’uomo dagli enti a lui
difformi.
Nella speculazione sartriana la coscienzialità dell’individuo, e la certezza indubitabile
del cogito (cogito ergo sum) ad essa strettamente legata, costituiscono dunque quel
punto fermo da cui la filosofia deve assumere il suo indirizzo. E, date queste
premesse, si capisce perché anche la ricerca ontologica condotta nell’Essere e il nulla
parta proprio da quella che è la certezza fondamentale di ogni individuo, la certezza,
cioè, di esistere come coscienza che è in ogni momento coscienza di qualcosa.
6
L’essere e il nulla, trad. cit., p.61.
7
Ivi, p.123.
L’essere e il nulla prende le mosse dalla constatazione della situazione bipolare per
cui da una parte c’è la mia coscienza, dall’altra ciò di cui la mia coscienza è
cosciente. “…la legge d’essere del soggetto conoscente è di essere-cosciente. […]
Ogni coscienza – Husserl l’ha dimostrato – è coscienza di qualche cosa. Ciò significa
che non c’è coscienza che non sia posizione di un oggetto trascendente, o, se si vuole,
che la coscienza non ha «contenuto»”
8
.
Nel delineare le varie tipologie dell’essere, occorre dunque partire, per Sartre, dal
nucleo speculativo, di husserliana memoria, della coscienza come coscienza di
qualcosa. Qual è l’essere della coscienza? E qual è l’essere del qualcosa di cui essa è
coscienza? In via preliminare possiamo già dire che l’autore dell’Essere e il nulla
denomina rispettivamente il primo «essere-per-sé» e il secondo «essere-in-sé».
Vediamo ora quali sono i caratteri strutturali dell’uno e dell’altro.
La coscienza, come appena detto, ha un essere-«per-sé». Ciò che è opportuno innanzi
tutto chiedersi è dunque quale sia il motivo per cui, secondo Sartre, l’essere della
coscienza è costitutivamente per-sé. Ora, il per-sé che costituisce ontologicamente la
coscienza è, per il filosofo francese, una diretta conseguenza di quella che è la
struttura stessa della coscienzialità. Ciò in quanto, se da un lato la coscienza è sempre
coscienza di qualcosa, è cioè sempre, in termini husserliani, una coscienza
intenzionale, dall’altro lato essa è anche autocoscienza, ovverosia coscienza di esser
coscienza di qualcosa. “…la condizione necessaria e sufficiente perché una coscienza
conoscente sia conoscenza del suo oggetto [dell’oggetto di cui ha in un dato momento
coscienza], è che sia coscienza di sé in quanto è questa conoscenza. […] ogni
coscienza posizionale dell’oggetto, è nel medesimo tempo coscienza non posizionale
di se stessa”
9
. A partire da queste parole si può capire perché della coscienza sia
costitutivo un essere-per-sé. In quanto autocoscienza, la coscienza è sempre
coscienza di esser coscienza. Essa è dunque coscienza «ai suoi stessi occhi», è una
coscienza «per-sé». E tuttavia, la coscienza di se stessi non è mai una coscienza di
8
Ivi, p.17.
9
Ivi, pp.18-19.
tipo riflesso, ovverosia una coscienza «posizionale»
10
, ma è una coscienza
sostanzialmente irriflessa, non pienamente consapevole. Proprio questa irriflessività
dell’autocoscienza è indicata da Sartre con l’espressione «coscienza-(di)-sé», in cui il
«(di)» ha la funzione di esprimere la non posizionalità della coscienza di esser
coscienza.
Sartre, insomma, distingue due differenti piani coscienziali. Da un lato la coscienza è
coscienza posizionale di qualcosa che è a lei esterno, dall’altro è coscienza non
posizionale, preriflessiva, di esser coscienza di qualcosa. È proprio quest’ultimo suo
carattere ad avere delle importanti conseguenze. In quanto è coscienza (di) sé, la
coscienza è sempre posta a distanza da se stessa. In quanto è coscienza (di) esser
coscienza, accade cioè come se essa assumesse nei suoi stessi confronti l’ottica di un
osservatore esterno. In altri termini, la coscienza si rapporta a se stessa, seppur non
riflessivamente, come se stesse considerando un oggetto da lei distinto. E in tal senso
, in quanto costitutiva coscienza-(di)-sé, essa è sempre posta a distanza da se stessa.
Da quanto detto si capisce chiaramente anche perché la coscienza non possa mai
esser coincidenza con se stessa. Nella coscienza è infatti insita, per sua stessa
struttura d’essere, una fondamentale dualità, in base alla quale essa è da un lato
coscienza di qualcosa, dall’altro coscienza (di) esser coscienza. “La caratteristica
della coscienza […] è di essere una decompressione d’essere” che non può essere
assolutamente definita “come coincidenza con sé”
11
. Ed è proprio la non coincidenza
con se stessa a far sì che la coscienza non possa mai essere pura identità e, quindi,
pienezza d’essere. Essa è separata da sé per il tramite di un nulla, di una fessura
intracoscienziale. “Ma se ora ci domandiamo: che cosa separa il soggetto da sé,
siamo costretti a riconoscere che non è niente. […] Introdurre nell’unità di un cogito
preriflessivo, un elemento qualificato esteriore a questo cogito, sarebbe frantumarne
l’unità, distruggerne la trasparenza […] la fessura intracoscienziale è un niente al di
10
Io ho coscienza posizionale di qualcosa quando ho piena consapevolezza del qualcosa di cui son cosciente.
In tal senso è posizionale , come si vedrà meglio in seguito, la coscienza che io ho degli enti a me esterni (per
esempio, ho una coscienza posizionale del tavolo che ora sto vedendo). Di me stesso, come cogito, ho invece
una coscienza immediata, irriflessa.
11
L’essere e il nulla, trad. cit., p.112.
fuori di ciò che nega, e può possedere dell’essere solo in quanto non la si vede.
Questo negativo, che è nulla d’essere e potere nullificante insieme, è il nulla. In
nessun luogo possiamo cogliere il nulla con simile purezza. […] Così il per-sé deve
essere il proprio nulla. L’essere della coscienza, in quanto coscienza, è di esistere a
distanza da sé […] e questo niente di distanza che l’essere porta nel suo essere è il
nulla”
12
.
Proprio in quanto la coscienza è sempre, per struttura ontologica, coscienza (di) esser
coscienza, in quanto è perenne distanza da sé, in quanto è dualità tra coscienza
riflessa e coscienza riflettente, si capisce anche perché, secondo Sartre, il per-sé sia
caratterizzato dal non essere ciò che è e dall’essere ciò che non è. La coscienza di
questo tavolo non è identica a se stessa, in quanto è anche, nello stesso tempo,
coscienza (di) essere coscienza di questo tavolo, e dunque qualcosa di diverso dalla
semplice coscienza posizionale che, in prima istanza, essa è.
Sartre riassume il concetto della coscienza come autocoscienza e i suoi addentellati,
che abbiamo appena visto, nella nozione di «presenza a sé». “Il soggetto non può
essere sé [pura identità, pienezza d’essere] perché la coincidenza con sé […] fa
scomparire il sé. Ma non può non essere sé, perché il sé è indicazione del soggetto
stesso. Il sé rappresenta dunque una distanza ideale nell’immanenza del soggetto in
rapporto a sé, un modo di non essere la propria coincidenza, di sfuggire all’identità,
pur ponendola come unità; insomma un modo di essere in equilibrio continuamente
instabile fra l’identità come coesione assoluta senza traccia di diversità, e l’unità
come sintesi di una molteplicità. È ciò che chiameremo la presenza a sé. La legge
d’essere del per-sé, come fondamento ontologico della coscienza, è d’essere se stesso
sotto forma di presenza a sé”
13
.
Una volta esaminata l’autocoscienzialità della coscienza quale essa ci è presentata da
Sartre, è ora opportuno mettere in chiaro quella che è forse la peculiarità principale
del per-sé, ovverosia dell’individuo umano in quanto ente coscienziale. È una
peculiarità, questa, che può essere meglio compresa se si considera la strettissima
12
Ivi, pp.115-116.
13
Ivi, pp.114-115.
«parentela» tra il per-sé sartriano e l’Esserci heideggeriano. L’Esserci descritto da
Heidegger in Essere e tempo aveva come suo carattere primario quello di esser
costitutivamente un «aver-da-essere», un ente privo di una natura determinata, fissata
una volta per tutte e non modificabile. L’essere dell’individuo heideggeriano era
sempre da farsi in quanto strettamente dipendente dal libero agire dell’individuo
stesso. In definitiva, dunque, l’Esserci era un ente che si faceva autonomamente per
mezzo delle sue azioni e che finiva così per essere l’artefice di se stesso.
Sartre riprende in sostanza la caratterizzazione che dell’individuo Heidegger aveva
dato in Essere e tempo. E riprende, soprattutto, la nozione dell’individuo umano
come aver-da-essere, come ente il cui essere è sempre da farsi, mai compiuto. È
proprio il concetto dell’individuo (o, più esattamente, del per-sé) come costitutivo
aver-da-essere a trovare espressione nelle parole di Sartre quando dice che “…la
coscienza è un essere per cui nel suo essere si fa questione del suo essere…”
14
, il cui
essere è cioè un essere sempre da farsi. L’essere del per-sé è, insomma, un essere che
dipende strutturalmente dalle azioni dello stesso per-sé. E, in quanto è attraverso il
suo libero agire che la coscienza può determinarsi ad esser qualcosa piuttosto che
qualcos’altro (per esempio, è attraverso le sue azioni che un individuo può farsi
«onesto» o «disonesto», che può cioè darsi l’esser onesto o disonesto), Sartre afferma
che “la coscienza è un essere la cui esistenza pone l’essenza”
15
.
Dalle parole di Sartre emerge dunque chiaramente come il per-sé, allo stesso modo
dell’Esserci heideggeriano, sia quell’ente che non ha un’essenza determinata, una
natura statica, ma che è ciò che di volta in volta si fa attraverso le sue azioni. E, va
sottolineato, il per-sé, in quanto costitutiva libertà
16
, fa sempre, nelle diverse
circostanze in cui si viene a trovare, ciò che vuole fare, ciò che ha deciso di fare. A
tal proposito, è opportuno precisare che anche in quanto ente il cui essere è sempre in
fieri, mai compiuto, il per-sé è ciò che non è e non è ciò che è. Il suo essere, infatti,
14
Ivi, p.28.
15
Ibidem.
16
Come si vedrà più avanti, nel riconoscere la libertà come tratto peculiare del per-sé Sartre va addirittura
oltre Heidegger. Se Heidegger vedeva nel mondo in cui l’Esserci è già-sempre-gettato un limite insuperabile
per la libertà dell’individuo, Sartre giunge invece ad attribuire al per-sé una libertà assoluta e priva di
qualsiasi limitazione.
varia di momento in momento a seconda delle sue azioni.
Di contro all’essere-per-sé, Sartre pone, come già accennato, l’«essere-in-sé». Essere-
in-sé è infatti tutto ciò di cui il per-sé ha una coscienza posizionale
17
. Essere-in-sé è,
per esempio, quel tavolo che mi sta di fronte e di cui io ho in questo momento
coscienza. Ciò che a tal proposito va innanzi tutto messo in chiaro è che ciò di cui noi
siamo coscienti non può mai essere un mero contenuto di coscienza di cui la realtà sia
solo probabile. Gli oggetti di cui noi abbiamo coscienza non possono essere una mera
illusione, un fantasma della nostra mente, ma sono degli enti che ci trascendono, che
stanno al di fuori di noi e che possiedono quindi una realtà transfenomenica in quanto
non riducibile alla coscienza che noi ne abbiamo. “Ogni coscienza è coscienza di
qualche cosa. […] essere coscienza di qualche cosa, vuol dire essere innanzi ad una
presenza concreta e piena che non è la coscienza”
18
. “…la coscienza è coscienza
posizionale del mondo. Ogni coscienza è posizionale in quanto si trascende per
attingere un oggetto e si esaurisce in questa posizione; tutto ciò che vi è di intenzione
nella mia coscienza attuale è rivolto al di fuori, verso il tavolo; tutte le mie attività
giudicative o pratiche, tutta la mia affettività del momento si trascendono, mirano al
tavolo e vi restano assorbite”
19
. In quanto ho in questo momento coscienza del tavolo
che mi sta di fronte, non posso dubitare della sua esistenza, della sua realtà.
È evidente, in tale argomentazione (argomentazione che assume, agli occhi di Sartre,
l’aspetto di una vera e propria prova ontologica dell’esistenza degli oggetti di cui
facciamo continua esperienza), l’influenza di Husserl e, più precisamente, del suo
principio dell’«intenzionalità», il principio per cui ogni coscienza è sempre coscienza
di qualcosa. A ben vedere, l’utilizzazione che Sartre fa del concetto husserliano di
intenzionalità non è però del tutto conforme al pensiero del fenomenologo tedesco.
Anche per Husserl la coscienza, in quanto coscienza intenzionale, è sempre coscienza
17
Come già detto in nota, il per-sé ha una coscienza posizionale non di se stesso, ma degli oggetti a lui
esterni. Sono questi, dunque, gli enti il cui essere è un essere-in-sé. Va tuttavia precisato che non tutti gli enti
che il per-sé incontra nel mondo sono degli oggetti-in-sé. Da questa definizione vanno esclusi gli altri uomini
di cui l’individuo fa continua esperienza. Sebbene anche questi ultimi assumano, sotto lo sguardo del per-sé,
l’«inseità», il loro essere primario resta infatti, in quanto individui umani, un essere-per-sé, coscienziale.
Approfondiremo meglio questa problematica in seguito, nell’ambito della trattazione dell’«essere-per-altri».
18
L’essere e il nulla, trad. cit., p.26.
19
Ivi, p.17.
di qualcosa. Ma questo qualcosa è una semplice idea, un mero contenuto di coscienza
(nel linguaggio husserliano, un «noema»), non un oggetto reale. Per Husserl, ciò di
cui io ho coscienza non è, per esempio, questo tavolo, ma è l’idea di un tavolo. E,
nella sua ottica, non mi è mai possibile sapere se alla mia idea di tavolo corrisponda,
fuori di me, un tavolo reale. A tal proposito, è sintomatico che Husserl, ponendosi in
questa prospettiva, non sia riuscito a risolvere positivamente il problema
dell’esistenza di una realtà esterna al soggetto. E, del resto, lo stesso Sartre mostra di
essere pienamente consapevole di quella che era l’originaria concezione husserliana
dell’intenzionalità, considerando tuttavia la dottrina di Husserl come una dottrina che
ha il suo limite fondamentale proprio nell’incapacità di dimostrare l’esistenza di ciò
di cui noi facciamo esperienza: “…Husserl definisce precisamente la coscienza come
una trascendenza. Effettivamente, proprio questo egli afferma, ed è la sua scoperta
essenziale. Ma dal momento in cui fa del noema un irreale, correlativo della noesi, ed
il cui esse è un percipi, egli vien meno alle premesse”
20
.
Ora, una volta visto come Sartre dimostri l’indiscutibile realtà transfenomenica degli
oggetti-in-sé di cui noi abbiamo coscienza, come si connota per il filosofo francese
l’essere-in-sé? Quali sono i caratteri strutturali degli enti-in-sé di cui facciamo
continua esperienza? Per spiegarlo è opportuno innanzi tutto precisare che tali enti
finiscono per identificarsi, nell’ottica sartriana, con quelli che Heidegger denominava
«enti-semplicemente-presenti», ovverosia con gli enti difformi dall’Esserci,
dall’individuo umano. È solo partendo da questa constatazione che si possono meglio
capire i caratteri che Sartre attribuisce agli oggetti-in-sé. A tal proposito va innanzi
tutto detto che l’«in-sé» loro attribuito dal filosofo francese si riferisce al fatto che
essi, in quanto enti acoscienziali, non possono esser coscienti di se stessi. Se
l’individuo umano, come abbiamo già visto, ha per suo carattere fondamentale quello
20
Ivi, p.27. Sul rapporto di derivazione e, allo stesso tempo, di opposizione tra l’intenzionalità sartriana e
quella husserliana si veda F. Valentini, La filosofia francese contemporanea, Feltrinelli, Milano 1958,
pp.103-104. Sull’influenza del pensiero husserliano su Sartre e sulle opere sartriane in cui tale influenza
emerge si veda anche G. Palumbo, La filosofia esistenziale di J.-P. Sartre, Palumbo, Palermo 1953, pp.14-
22; P. A. Rovatti, Che cosa ha «veramente» detto Sartre, cit., pp.16-37; G. Cera, Sartre tra ideologia e
storia, Laterza, Roma-Bari 1973, pp.45-87; S. Moravia, Introduzione a Sartre, Laterza, Roma-Bari 1973,
pp.12-37.
di aver coscienza di se stesso come coscienza, come cogito, agli oggetti-in-sé tale
autocoscienzialità è preclusa. Una pietra, per esempio, non può aver coscienza di
esser pietra. “Ma se l’essere è in sé, vuol dire che non rimanda a sé, come «la»
coscienza di sé; questo sé, lo è esso stesso”
21
. Carattere primario dell’essere-in-sé è
dunque quello di essere strutturalmente un essere acoscienziale.
In secondo luogo, l’essere-in-sé è ciò che è. “…l’essere-in-sé è opaco a se stesso
precisamente perché è ricolmo di se stesso. Questo fatto lo esprimeremo dicendo che
l’essere [in-sé] è ciò che è”
22
, è pienezza d’essere, coincidenza con se stesso. Proprio
in quanto gli enti-in-sé sono acoscienziali, essi sono infatti privi di quella fessura
intracoscienziale, di quel nulla d’essere che insinua nel per-sé una dualità (come
visto, è in tal senso che il per-sé non ha la pienezza d’essere propria dell’in-sé). E,
soprattutto, gli enti-in-sé sono dotati di una natura determinata, fissata una volta per
tutte e immodificabile. Essi non possono farsi da sé, ma riposano nella loro essenza
senza poter decidere autonomamente del loro essere (come accadeva invece per il
per-sé). Una pietra, ad esempio, non può decidere di mutare la propria natura di pietra
(anche in tal senso Sartre dice che l’essere-in-sé è ciò che è, essendo dato una volta
per tutte, senza alcuna possibilità di essere modificato).
Ora, dal confronto tra i caratteri che Sartre attribuisce al per-sé e all’in-sé si può
comprendere come il suo discorso intorno a questi due tipi di essere sia
sostanzialmente riconducibile a due poli essenziali. In primo luogo il per-sé,
diversamente dall’in-sé, ha un essere coscienziale. In secondo luogo, mentre gli enti-
in-sé hanno una natura fissata una volta per tutte e non modificabile, gli enti-per-sé,
ovverosia gli individui umani, hanno un essere che essi stessi possono determinare
attraverso il loro agire.
Detto ciò, è opportuno a questo punto fare alcune precisazioni. Innanzi tutto, l’essere-
in-sé e l’essere-per-sé sono delle contingenze ingiustificabili. Non si può cioè risalire,
tramite il raziocinio, alla causa ultima del loro sorgere, non si può spiegare perché
21
L’essere e il nulla, trad. cit., p.32.
22
Ibidem.
siano presenti nel mondo degli enti-in-sé e degli enti-per-sé
23
. Si è così costretti a
riconoscere il loro essere come un fatto senza pretendere di darne alcuna spiegazione.
O, perlomeno, sulla loro origine si possono formulare solo delle ipotesi metafisiche
24
.
Inoltre, lo stesso caratterizzarsi della coscienza come perenne distanza da sé, come
non coincidenza con se stessa, è il fondamento, per il per-sé, di una situazione
particolare. Proprio in quanto privo della pienezza d’essere tipica dell’in-sé e separato
da se stesso da un nulla d’essere, il per-sé si costituisce infatti come strutturale
mancanza d’essere. Tale mancanza produce nell’uomo, secondo Sartre, un perenne
stato di infelicità. Ciò spiega perché l’ideale supremo del per-sé sia il raggiungimento
dell’essere-in-sé e della pienezza d’essere che gli è propria. Esso, quindi, mira
perennemente a divenire un «in-sé-per-sé», un per-sé che si è autonomamente dato
l’essere-in-sé
25
. Tanto più che l’individuo, essendosi dato liberamente e
autonomamente l’in-sé, diverrebbe in tal modo fondamento di se stesso. “Il per-sé, in
quanto nullificazione dell’in-sé, si temporalizza come fuga verso. Supera, infatti, la
sua fatticità […] verso l’in-sé che sarebbe se potesse essere il suo fondamento. […] la
fuga avviene verso un avvenire impossibile e sempre cercato in cui il per-sé sarebbe
in-sé-per-sé, cioè un in-sé che sarebbe a se stesso il proprio fondamento”
26
. Esso
diverrebbe così quella causa sui che tradizionalmente è stata identificata con Dio
(Dio, anzi, non è per Sartre che la traduzione simbolica dell’ideale dell’in-sé-per-sé
perseguito dall’uomo).
23
Sartre indica la contingenza ingiustificabile del per-sé e dell’in-sé con il termine «fatticità».
24
Sartre delinea una chiara separazione tra ontologia e metafisica. L’ontologia concerne la descrizione delle
strutture e delle differenti tipologie dell’essere (in tal senso è l’ontologia a determinare l’esistenza di tre
dimensioni d’essere: l’in-sé, il per-sé e, come vedremo più tardi, il per-altri). La metafisica non si interessa
invece del come l’essere è, ma del perché esso è, e del perché esso è come è (perché c’è l’essere, e perché si
articola in in-sé, per-sé e per-altri?). Ora, in ambito metafisico, per Sartre, si possono formulare solo delle
ipotesi. Le spiegazioni di ordine metafisico devono quindi prendere sempre la forma del «come se».
A tal proposito, è interessante la trattazione che Sartre offre dell’«avvenimento assoluto», ovverosia del
sorgere del per-sé. È come se l’in-sé, dice il filosofo francese, si degradasse a per-sé, perdendo la sua
pienezza ontologica e accogliendo nel suo seno un vuoto d’essere, per divenire un essere che è fondamento
di se stesso (il per-sé, come si vedrà, mira sempre a divenire «causa sui», fondamento di se stesso). Si tratta
tuttavia di una mera ipotesi (a riguardo si veda L’essere e il nulla, trad. cit., pp.117-123). La metafisica è il
dominio del congetturale, non del certo.
25
Di fatto, l’essere-in-sé-per-sé sarebbe un essere che conserverebbe contemporaneamente la trasparenza,
ovvero la coscienzialità, propria del per-sé, e l’opacità, la pienezza d’essere, tipica dell’in-sé.
26
L’essere e il nulla, trad. cit., p.412.
Proprio in quanto l’in-sé-per-sé è considerato da Sartre come la meta cui il per-sé
tende perennemente e che egli cerca di raggiungere attraverso tutte le sue azioni
(seppur senza averne piena coscienza)
27
, si capisce perché esso sia indicato dal
filosofo francese con il termine «Valore», cioè come quello che per l’individuo
umano è il valore supremo. Dati i caratteri strutturali dell’essere-per-sé, il Valore
resta tuttavia una meta irraggiungibile. In quanto il per-sé è costitutiva distanza da sé,
perenne mancanza d’essere, egli non potrà mai raggiungere l’opacità e la pienezza
d’essere propria dell’in-sé. La continua fuga del per-sé verso l’anelato in-sé non
potrà quindi giungere mai a termine. In tal senso, tutte le azioni umane volte a
raggiungere il Valore sono per Sartre destinate allo scacco. Come il filosofo
riconosce alla fine dell’Essere e il nulla, “…tutte le attività umane sono equivalenti –
perché tendono tutte a sacrificare l’uomo per far nascere la causa di sé – e […] tutte
sono votate per principio allo scacco”
28
. L’uomo è destinato a non superare mai il suo
originario stato di infelicità.
Tirando le fila del discorso sartriano, le due tipologie fondamentali dell’essere sono
l’in-sé e il per-sé. E tuttavia, l’indagine ontologica di Sartre non può fare a meno di
toccare anche, e non potrebbe essere altrimenti, il problema del nulla
29
. Nel condurre
la ricerca sull’essere-per-sé e sull’essere-in-sé si finisce infatti per incontrare, dice
Sartre, la dimensione del non-essere. In quanto l’essere è pervaso dal nulla, il nulla
può essere rilevato in diversi campi del reale. La fessura intracoscienziale propria del
per-sé in quanto coscienza (di) sé rivela, come abbiamo già visto, un nulla d’essere.
La stessa possibilità, per l’individuo umano, di porsi delle domande (e, tra queste, la
27
Per Sartre ogni tentativo di soddisfare un particolare desiderio da parte dell’individuo va ricondotto a
quello che è per il per-sé il desiderio fondamentale e primario: il desiderio, cioè, di attingere l’essere-in-sé. In
quanto ogni desiderio consiste in una mancanza (la sete, come desiderio di bere, consiste per esempio nella
mancanza d’acqua), la soddisfazione di ogni desiderio rappresenta un passo avanti verso il superamento di
quella che è la fondamentale mancanza del per-sé, ovverosia la mancanza d’essere. E tuttavia, nonostante la
soddisfazione dei desideri che di volta in volta gli si presentano, il raggiungimento dell’anelata pienezza
d’essere si risolve per l’individuo in un fine che non può essere mai raggiunto o, detto in altri termini, che
può essere raggiunto solo all’infinito. Ora, non solo il tentativo di soddisfare i propri desideri, ma ogni
azione del per-sé ha come suo scopo ultimo, secondo Sartre, il raggiungimento del Valore o in-sé-per-sé.
Ciononostante, l’individuo non ha mai coscienza del fine che veramente persegue. Egli, per esempio, crede
che il fine del suo bere sia il superamento di un determinato stato fisiologico, ovverosia la sete, e non il
raggiungimento della pienezza d’essere.
28
L’essere e il nulla, trad. cit., p.695.
29
Al «nulla» Sartre dedica la prima parte dell’Essere e il nulla, intitolata appunto Il problema del nulla.
domanda sull’essere) è sintomatica della «presenza», nell’individuo che si interroga,
di un nulla di conoscenza, ovverosia di una mancanza nel campo del suo sapere. E
ancora, il fatto che, per esempio, io constati che Pietro non è al bar in cui ci saremmo
dovuti incontrare mi rivela un’assenza, una mancanza e, di conseguenza, un nulla
30
. Il
nulla, insomma, si insinua nell’essere in una molteplicità di circostanze e di ambiti
31
.
Proprio per questo, dice Sartre, non si deve pensare al nulla come a qualcosa di
nettamente distinto e separato dall’essere. In realtà, la situazione concreta del mondo
ci mostra un continuo intrecciarsi di essere e non-essere, una continua
interpenetrazione di essere e nulla. Anzi, il nulla può esser tale solo come mancanza
d’essere e, dunque, sul fondamento dell’essere stesso. “Il nulla, se non è sostenuto
dall’essere, svanisce in quanto nulla e noi ricadiamo nell’essere. Il nulla non può
essere tale che sulla base dell’essere; se qualcosa come il nulla può essere dato, ciò
non avviene né prima né dopo l’essere, né, in senso generale, al di fuori dell’essere,
ma nel seno stesso dell’essere, come un verme”
32
.
Da quanto sinora detto emerge dunque come l’indagine ontologica condotta da Sartre
porti a riconoscere nell’esistente tre dimensioni fondamentali: l’essere-per-sé,
l’essere-in-sé e il nulla. Una terza tipologia d’essere è secondo il filosofo francese il
«per-altri». Di questo parleremo però solo tra poco, nell’ambito della trattazione di
quel nucleo filosofico che costituisce l’argomento principale di questo capitolo,
ovverosia il problema dei rapporti tra l’io e gli altri quali essi si configurano
nell’Essere e il nulla. Prima di passare ad esso, sarà tuttavia opportuno fare qui
un’ultima precisazione.
30
Secondo Sartre, il giudizio di negazione non deriva dal particolare punto di vista da cui il soggetto si
rapporta al reale, ma dalla «presenza» effettiva di un nulla d’essere nel reale stesso. Il giudizio di negazione
«Pietro non è al bar», per esempio, non è una conseguenza del fatto che io, entrato al bar per cercare Pietro,
non l’abbia trovato (io constato l’assenza di Pietro dal bar in quanto lo sto cercando. Se fossi entrato nel bar
per un qualsiasi altro motivo, non avrei notato alcuna assenza). In realtà, tale giudizio non fa altro che
rispecchiare un effettivo nulla d’essere riscontrabile da chiunque (l’assenza di Pietro dal bar). “…il non-
essere non viene alle cose con il giudizio di negazione: è il giudizio di negazione, al contrario, che è
condizionato e sostenuto dal non-essere” (L’essere e il nulla, trad. cit., p.45).
31
Nell’ambito di un’intelaiatura ontologica piuttosto fragile, la trattazione offerta da Sartre del problema del
nulla evidenzia numerosi punti deboli. Si veda a tal proposito l’opinione del Valentini che, proprio in ragione
di tali punti deboli, ha parlato, in rapporto alla trattazione che ne ha dato Sartre, di «pseudoproblema del
nulla» (F. Valentini, La filosofia francese contemporanea, cit., pp.113-118).
32
L’essere e il nulla, trad. cit., p.56.
L’essere e il nulla è presentato da Sartre, come già detto, nella veste di un Saggio di
ontologia fenomenologica, di un’opera il cui fine primario è quello di indagare
sull’essere e sulle sue differenti tipologie. Proprio l’impalcatura ontologica finisce
tuttavia per costituire, secondo la maggioranza degli studiosi, la parte più debole
dell’opera sartriana, rivelando una consistente mole di incongruenze e contraddizioni.
Le parti più riuscite dell’Essere e il nulla sarebbero invece rappresentate dalle
finissime analisi psicologiche dell’uomo e dei suoi comportamenti condotte da Sartre
nell’ambito della messa in chiaro dell’essere del per-sé, le quali rivelerebbero nel
filosofo francese una notevole capacità introspettiva. Sintomatica è, a tal proposito,
l’opinione del Valentini: “…Sartre costruisce una teoria generale della realtà, ossia
una ontologia. Anche lui va dunque «alla ricerca dell’essere», come avverte il titolo
dell’Introduzione all’Essere e il nulla e si ricollega alla cosiddetta «rinascita della
metafisica» e più in particolare a Heidegger, mentre, quanto al metodo di ricerca, è un
fenomenologo dichiarato. In realtà egli, come pensatore, non «cerca l’essere», ma
riflette su determinate esperienze e le chiarifica; la ricerca dell’essere o non c’è, e si
limita ad un rivestimento verbale di ricerche concrete, o è irrilevante e mitologica”
33
.
“Che cosa resta allora della filosofia di Sartre propriamente detta? Restano le analisi
psicologiche, alcune delle quali hanno, nel loro ambito, una validità, e resta, nel suo
insieme, una assai notevole testimonianza di uno stato d’animo di smarrimento e di
sbigottimento della borghesia europea”
34
.
L’ontologia dell’Essere e il nulla, nonostante il progetto filosofico che stava alla base
di quest’opera, finisce così per rappresentare la parte più debole del testo sartriano.
Ben più stimolanti si sono rivelate le analisi condotte dal filosofo sui fenomeni che
caratterizzano l’esistenza umana. Fenomeni, questi, che hanno alle loro spalle, come
loro nucleo di base, la costituzione ontologica del per-sé e dunque, in ultima istanza,
proprio la tanto criticata ontologia sartriana, ma che vanno ben oltre tale ontologia.
Tra l’ontologia e la psicologia si colloca anche la trattazione che Sartre ha offerto dei
rapporti tra l’io e gli altri. È su tale trattazione che ora ci soffermeremo.
33
F. Valentini, La filosofia francese contemporanea, cit., p.101.
34
Ivi, p.178.