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PARTE PRIMA: IL CONTESTO STORICO
1 I l nuovo c inem a i t a l iano
Tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, in alcuni paesi dell’Est, in
Inghilterra, in Francia, negli USA e in America Latina, nasce un cinema che viene
definito “nuovo” e che suscita notevoli entusiasmi, anche se in gran parte circoscritti ad
élite di critici e di cinefili, di estrazione piccolo e medio borghese e di orientamento
politico radicale: i ceti cioè che manifestavano un‘inquietudine più nervosa per gli
sviluppi della civiltà neocapitalista, e che d’altronde sono per tradizione più disponibili
alle operazioni dell’anticonformismo culturale.
La nouvelle vague francese, il free cinema inglese, il new american cinema di
opposizione antihollywoodiana, il cinema nôvo brasiliano, il nuovo cinema polacco e la
nova vlnà cecoslovacca, rappresentano un’appariscente, e in alcuni casi trascinante,
riscrittura delle regole della narrazione e del linguaggio, che parte da una radicale
negazione dei rispettivi "cinema di papà" o (nel caso dell’America Latina) da concrete,
immediate esigenze politiche.
Un cinema fatto da giovani, che parla dei loro miti, dell’insofferenza, del progressivo
senso d’alienazione prodotto dall’universo consumistico, della ribellione, spesso
confusa e non ancora segnata da un’esplicita militanza politica contro regole borghesi e
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regimi totalitari.
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Questi “movimenti” non rappresentano però un fenomeno unitario.
In America Latina, ad esempio, c’è un’effettiva fusione tra realtà politica rivoluzionaria
ed opere cinematografiche, che rappresentano spesso anche novità linguistiche e
formali. In Francia, invece, la nouvelle vague ha assorbito solo certi umori “di rottura”
e non è politicizzata; solo attorno al 1968 vedrà alcuni suoi elementi (si veda il caso
estremo di Godard) convertirsi alla causa politica, anche in modo radicale.
In Italia, la situazione si sviluppa in modo abbastanza particolare. Innanzi tutto c’è
un movimento operaio tradizionale forte che s’impegna in prima persona in lotte
sindacali e politiche di notevole portata e che vanta una lunga tradizione di familiarità e
d’impegno reciproco con il cinema italiano. L’attenzione verso il cinema della sinistra,
e in particolare del PCI, non ha riscontro non soltanto nelle altre forme politiche
nazionali, ma in nessuna forza politica degli altri paesi. Come d’altra parte, non ha
riscontro in altri paesi la collocazione del cinema italiano nel suo complesso nell’area
della sinistra. Inoltre in Italia c’era già stata una nuova ondata unitaria ed estetico-etico-
politica nel dopoguerra e c’era ancora un nutrito manipolo di critici, teorici e cineasti
molto legati al neorealismo.
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Il direttore dei Quaderni piacentini e critico militante Goffredo Fofi afferma che in quegli anni «si libera una
soggettività che è quasi esclusivamente giovanile: è una generazione che fa le sue prime prove a vent’anni e che
trova in America i suoi emblemi, le sue avanguardie. Nell’espressione di questa soggettività giovanile l’arte ha
un ruolo fondamentale, perché è attraverso di essa che passa tutto: attraverso la musica dei Beatles e Rolling
Stones e attraverso il teatro del Living Theatre, attraverso la pittura della Pop Art, attraverso Schifano e
naturalmente attraverso il cinema, in modo più avanzato in alcune situazioni, più arretrato in altre [...] Quello
che noi avevamo imparato dal Living Theatre, dai Beatles e da James Dean era di non rinviare proprio niente.
La liberazione si fa nel momento in cui si vive, non c’è un domani che conta, c’è un presente dal quale devi tirar
fuori quello che puoi. In questo senso noi – e con noi intendo la generazione che ha prodotto Glauber Rocha e
Godard – eravamo uno strano miscuglio di rivendicazioni e di liberazione soggettiva, in cui c’era il sesso, la
musica, il divertimento. Divertirsi diventava per la prima volta un concetto politico. Rifiutavamo il mito della
rivoluzione cui sacrificare tutto, i genitali, gli affetti, in funzione di quello che verrà dopo. Rifiutavamo il
cattocomunismo endemico della cultura italiana, che, nonostante la nouvelle vague, nonostante Stalin,
continuava a essere prevalente. In questa situazione il cinema esprime grandi libertà in molte parti del mondo,
con una vitalità sbalorditiva anche se con grande confusione. Gli anni tra il ’60 e il ’68 sono l’ultimo grande
periodo nella storia della cultura, perché c’era ancora grande speranza, c’era ancora l’idea della scalata al
cielo». A cura di Alberto Saibene, Sessantotto: arte e parte. Intervista a Goffredo Fofi, in "Immagini in
movimento". Il Sessantotto nel cinema, Associazione Cinematografica Pandora, Milano 1998.
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Ciò significò, per le nuove leve di critici e d’autori, il rispetto o l’impossibilità di
prescindere da una tradizione e perciò l’attenuazione del senso di rottura con il cinema
passato, con il cinema dei padri.
Per la stessa ragione, mancava, in Italia, un cenacolo teorico che potesse generare
un nuovo movimento unitario, laddove si ebbero, invece, soltanto alcune nuove
personalità d’autore accomunate unicamente da uno stesso milieu e umore
generazionale. Così la tradizione di legame con la sinistra e la tradizione neorealistica
contribuirono a far sì che il fenomeno contestativo avesse, come sua manifestazione più
importante, un comune risveglio di passione ideologica e di carica utopica sopite, ma
mai scomparse del tutto dal cinema italiano.
Avviene in Italia un doppio processo, di assimilazione e di replica. All’inizio degli
anni Sessanta, il nostro cinema ostenta un’energia accresciuta (pur nei limiti accennati)
nella rottura dei canoni e nella ricerca di linguaggio: quest’orientamento ha però come
fine non un rifiuto dello spettacolo ma anzi una ripresa di spettacolarità di massa.
Un’impostazione simile toglieva molto spazio, almeno nell’immediato, all’avanguardia
“pura”: il sistema di produzione commerciale mostrava d’essere in grado di assorbire
anzi sollecitare una maggiore spregiudicatezza tecnica e ideologica da parte degli
autori, ciascuno secondo le sue inclinazioni personali.
In realtà, l’esigenza avanguardistica di appartarsi dal pubblico per condurre un
discorso intransigentemente alieno da compromessi e mediazioni, non era per niente
annullata; piuttosto, l’abilità dell’appello lanciato in nome del superspettacolo d’arte
induceva a ragionare i termini del dissenso in modo più esplicitamente ideologico.
Veniva cioè sollecitata una presa di posizione complessiva sull’industrialismo borghese
e i “miracoli” cui dava luogo, anche in campo cinematografico. In effetti, ai giovani
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registi che compiono gli esperimenti più avanzati, non interessa soltanto fornire una
fenomenologia della crisi dell’individualismo, nel venir meno dei valori della coscienza
morale collettiva; attraverso l’indagine introspettiva, essi intendono raggiungere una
verità sociale, su cui portare fermo giudizio. Naturalmente bisogna tenere conto che
esisteva una situazione politica, sociale ed economica nell’Italia che si avviava
all’esperienza dei governi del centro-sinistra; situazione che favorì l’affermazione di
una nuova schiera di nuovi autori pronti a ristabilire un rapporto arduo, critico,
provocante, tra i film e il pubblico.
Gli esordienti, come suaccennato, non dichiarano guerra al cinema dei padri: le
forme, le macro e microstrutture del racconto mutano senza una logica antagonistica
rispetto al neorealismo. La modificazione del campo oscilla, con un andamento
pendolare, tra il significante e il significato, favorendo ora l’uno ora l’altro, nel senso di
ricorrere a temi noti dando loro una nuova veste significante, o viceversa. Abbiamo
quindi un gruppo di nuovi autori che adottano la koinè neorealista, ne capovolgono la
nozione di punto di vista e non rivelano alcun legame operativo al proprio interno. Gli
esordi di Pasolini, Ferreri, Petri, Olmi, De Seta, Damiani, De Bosio, Wertmüller,
Taviani, ma anche registi al secondo o terzo film come Rosi, Loy, Pontecorvo, non
escludono, nella spinta verso il nuovo, la perdita di contatto con lo sfondo conosciuto.
Rispetto a questi registi, le mosse di Antonioni, di Fellini, e, dopo qualche tempo,
anche di Rossellini appaiono ancora più irregolari: in questi tre autori, gli elementi
innovativi prevalgono su quelli conservativi, senza peraltro che la nozione di narratività
sia messa in discussione. Vi è da precisare che questa “nuova ondata” italiana, negli
iniziali anni Sessanta, non è il punto d’approdo di un autentico dibattito culturale,
piuttosto un’iniziativa precipuamente produttiva. Manca una vera e propria dinamica
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autoriale, generazionale e di gruppo, come quella che caratterizza il free cinema
inglese, la nouvelle vague francese, la nova vlnà praghese o il cinema nôvo brasiliano
Il nuovo cinema italiano si può suddividere, pur senza procedere per tagli netti, in
due fasi. Abbiamo una fase, verso la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni
Sessanta, in cui gli autori, rispetto al neorealismo, sono più attenti verso un rapporto più
dialettico e articolato tra soggettività e oggettività, e verso l’individuo e i suoi problemi
esistenziali. L’eclisse del neorealismo e il passaggio di tanti autori o di autori nuovi
(per esempio, Fellini ed Antonioni) a temi di carattere più esistenziale, vengono a
prevalere in anni in cui si fanno luce segni di quell’impetuosa ondata neocapitalistica
che cambierà radicalmente l’assetto sociale ed economico, spostando il baricentro, sia
delle lotte sociali sia del dibattito culturale ideologico al nord, nelle zone industriali, in
un quadro socio-economico più vicino ad altre realtà europee e che darà spazio ad altri
tipi di sentimenti.
Tale fase cede il passo, attorno alla metà degli anni Sessanta, ad un’altra,
caratterizzata prevalentemente da una mediazione, tra autori e realtà, di tipo metaforico.
In altre parole, dopo la mediazione neorealistica (col mito e la ricerca sincera
dell’oggettività assoluta, della “scoperta” di una realtà sociale e storica troppo a lungo
occultata) e dopo quella relazionale o soggettivistica (che tiene conto della realtà ma la
filtra attraverso le emozioni e il subconscio degli autori, o la simbolizza nel
personaggio “tipico”), ci troviamo di fronte ai grandi tentativi di metaforizzazione e di
distanziamento. Si tratta di quel cinema che trova i suoi connotati principali nell’opera
di Pier Paolo Pasolini, di Paolo e Vittorio Taviani e Valentino Orsini, di Marco Ferreri,
di Bernardo Bertolucci, di Marco Bellocchio, di Liliana Cavani, di Carmelo Bene, ma
al quale portano contributi preziosi una serie di autori giovani che operano sul
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linguaggio, smascherano il mezzo e spezzano il discorso in due grandi filoni, quello
dell’opera a forte carattere metaforico, e quella a carattere saggistico (fino alla nuova
oratoria o nuova retorica della fase pre e post-sessantottesca). Si assiste ad una
deflagrazione e a un rimescolamento di moduli espressivi, di stereotipi, di giuochi di
specchi quali non erano ancora mai avvenuti nel nostro cinema. Nascono: l’apologo
(Sotto il segno dello Scorpione), il grottesco kafkiano (i film di Petri), la favola,
l’iperbole, il poemetto (Uccellacci e uccellini), il saggio (La presa del potere di Luigi
XIV), il gioco sul testo (i film di Carmelo Bene). Per alcuni film, come Accattone
(1961) di Pasolini, L’assassino (1961) e I giorni contati (1962) di Elio Petri, Un uomo
da bruciare (1962) dei Taviani e Orsini, Prima della rivoluzione (1964) di Bertolucci,
Chi lavora è perduto (1963) di Tinto Brass, affiora la proposta di una messa in crisi
radicale, una volontà di giudizio o di sospensione di giudizio, non perché svalutata da
una crisi esistenziale a favore della memoria o del subconscio, ma perché
oggettivamente, per tutti gli uomini, la realtà viene proposta come grottesca, labirintica,
perché orientata, in senso storico, in una direzione non giusta (irrazionale) e quindi non
traducibile in termini realistici.
La passione e l’ideologia costituiscono l’endiadi che meglio serve a spiegare gli
atteggiamenti di questi autori. La passione, che è anche e principalmente amore per il
cinema, oltre che investimento politico; l’ideologia che è la spinta ideale e insieme lo
strumento razionale per prendere partito, nel cinema e nella società. Film come I pugni
in tasca, Sovversivi, I dannati della terra, Tropici, Dillinger è morto, oltre a quelli
sopra citati, fanno sempre filtrare la loro politicità dalle soluzioni formali adottate, dalle
cifre stilistiche attuate.
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Nel nuovo cinema italiano, dunque, anche quando veniva postulato il primato della
politica, questo era coniugato con il primato del cinema, anche perché reclamava il
massimo di responsabilità semantica.
Ci si potrebbe chiedere come mai inizia, proprio intorno alla metà degli anni
Sessanta, la seconda fase del nuovo cinema, in cui tutti i pezzi del gioco e i termini del
linguaggio, temi e personaggi, vengono di nuovo rimescolati, a pochi anni dalla prima
crisi del neorealismo storico e in un periodo in cui Visconti, Antonioni, Fellini avevano
già gettato le strutture di un linguaggio diverso sulle quali si poteva pensare di poter
lavorare tranquilli ancora per un decennio. Il cineasta Carlo Lizzani risponde
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che
bisogna guardare anzitutto a certi fatti storici come la destalinizzazione, i fatti
d’Ungheria, la crisi del mito rivoluzionario, il grande choc del conflitto russo-cinese,
l’emergere di complotti inquietanti in cui scompaiono figure carismatiche della
democrazia americana, il muro di Berlino, il Vietnam, Praga. Non poche certezze,
speranze, illusioni e fedi sono state messe in crisi. Ad insidiare le certezze del
neorealismo non sono più soltanto le ripercussioni sul terreno italiano della ventata
esistenzialista, la scoperta della psicanalisi, il cauto lavoro di Lukács all’interno del
quadro storico politico culturale creato dal leninismo, l’arricchimento dialettico di
Gramsci, l’evoluzione di Yalta, la ripresa di un discorso europeo su Brecht e le
avanguardie.
Le inquietudini, le smitizzazioni, le incertezze, assumono il carattere di prodromi di
un terremoto che si propagherà al di fuori dei circoli culturali ed arriverà ai grandi
processi a carattere planetario del 1968.
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Carlo Lizzani, Il cinema italiano dalle origini agli anni ottanta, Editori Riuniti, 1992.
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Su questi smottamenti e oscillamenti già di massa, dall’area delle grandi certezze si
passa all’area delle grandi revisioni storiche. Il salto dalla divagazione onirica, dalla
coscienza dell’alienazione a livello privato (quindi patologica), all’alienazione a livello
di masse e di sistema è un avanzamento che provoca mutamenti di linguaggio, fino alla
messa in discussione del linguaggio stesso. Una parola diventa una cosa e il contrario.
Da qui la necessità di un nuovo punto fermo: il distanziamento, da cui la realtà,
osservata in toto, appare anche storicamente doppia, ambigua anche quando gli oggetti
osservati sono l’eroe, la classe operaia, la rivoluzione, le masse, ecc.
Il nuovo cinema italiano degli anni Sessanta è stato quindi un particolare riflesso
della società italiana di quel periodo, di quanto più vitale e avanzato essa manifestava e
che era ravvisabile nel suo intenso scambio culturale, nella sua accesa temperatura
politica, nelle speranze di cambiamento. Di tutto ciò vi era traccia costante anche in
altre iniziative legate al cinema: nuove riviste, nuove proposte operative (come i
“Cinegiornali liberi”, tentativo di realizzare l’utopia zavattiniana di “una cultura di tanti
per tanti”), nuove manifestazioni culturali. Tra queste, la Mostra Internazionale del
Nuovo Cinema di Pesaro dove l’attività volta a promuovere e studiare il nuovo cinema
s’intreccia con l’intenzione di lavorare anche per una “nuova critica” cinematografica,
così da supplire in qualche misura sia all’insufficienza teorica, allora riscontrabile in
Italia, sia all’insufficienza d’attenzione e sostegno prestati al nuovo cinema stesso.
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2 Gl i ann i Sessanta ne l c inema
In generale, possiamo registrare questi fenomeni:
1) Nel giro di un paio d’anni (dal 1960 al 1962/63) esordiscono più di una ventina
di registi, ognuno con una fisionomia definita fin dalla prima opera. Tutti muovono in
base al presupposto operativo d’affermazione della propria presenza come autori contro
e nonostante le leggi e i condizionamenti dell’industria e del mercato.
2) La ristrutturazione produttiva punta ad una strategia pluridimensionale: si
potenziano le strutture, si razionalizzano i processi di fabbricazione dei prodotti e si
affida al giovane autore il potere di presiedere di persona e artigianalmente alla
confezione dell’intera opera. Sono anni di ottimizzazione delle risorse artigianali che
fanno di Cinecittà il vero polo alternativo per il cinema mondiale rispetto a Hollywood.
3) Entrano in crisi le appartenenze ad aree ideologiche definite: accanto
all’emergere di un gruppo d’autori cattolici, l’area dei registi genericamente
appartenenti alla sinistra presenta un’articolazione interna ampia e difficilmente
inscrivibile in semplici formule. Le distinzioni che prima erano state fondamentali sono
sostituite da altre riguardanti metodi, obiettivi, che passano anche attraverso i vari
schieramenti ideologici (si veda la scissione dell’Aaci dall’Anac).
4) Sul piano tematico, si rivisita la storia del passato prossimo della vita nazionale,
procedendo al recupero della memoria collettiva. Anziché scegliere il livello alto e
drammatico, si punta sulla commedia, alterandone profondamente la morfologia.
5) Sul piano espressivo, si adottano differenti procedimenti di suddivisione logica e
temporale tra le parti e si diffonde l’uso del piano-sequenza e della combinazione
irregolare dei diversi segmenti del racconto. Un referente continuo può essere quello
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dell’”école du regard” e del “nouveau roman”. Sono inoltre messe in discussione le
regole del montaggio classico.
6) Si aprono nuovi spazi e si scoprono differenti modi d’uso e consumo del cinema.
Il cinema militante, da una parte (con la sua ipotesi di servirsi della macchina da presa
per l’immediata registrazione di avvenimenti e la circolazione di un’informazione
alternativa a quella dei mezzi di comunicazione di massa del potere politico) e il
cinema sperimentale e d’avanguardia, dall’altra, vengono a costituire forme di
aggregazione e produzione ideologica ed espressiva di non trascurabile entità.
La tensione riformistica immessa dai governi di centro-sinistra si fa sentire anche
nell’ambito della cinematografia italiana. La doppia dialettica politico-partitica (quella
interna al governo e quella tra governo e opposizione) s’intreccia con un’altra
dialettica, quella riscontrabile nel mondo cinematografico, e il cui aspetto più ricorrente
e indicativo è da vedere nelle divergenze tra le opzioni dei rappresentanti dell’industria
(produttori ed esercenti, i quali peraltro non sempre sono d’accordo tra loro) e le
opzioni dei rappresentanti delle parti creative e sindacali. In tanta confusione e stato di
conflitto d’interessi discordi, che si manifestano su piani diversi, nelle decisioni
politiche vengono, inevitabilmente, a prevalere la mediazione e il compromesso.
La questione più discussa tra produttori, esercenti, autori e sindacati è
sull’opportunità di una nuova legge sul cinema. L’innegabile miglioramento della
situazione del film italiano sul mercato domestico induce a ritenere (in particolare da
parte socialista) ormai anacronistica una normativa che, non discriminando l’intervento
dello Stato sulla base della qualità del film, continui ad elargire contributi dimostratisi
inidonei ai fini del miglioramento strutturale e culturale della produzione. La
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legislazione vigente, risalente agli anni Trenta, tende, infatti, a promuovere l’industria
cinematografica nazionale tramite particolari incentivi, tra i quali assumono particolare
importanza i contributi statali proporzionali agli incassi (i cosiddetti “ristorni”). Questi
hanno finito con l’avvantaggiare i film che più incassano al botteghino e col punire
quelli, magari culturalmente meritevoli, che non ottengono un successo commerciale. È
comprensibile quindi come l’associazione dei produttori, l’Anica (Associazione
nazionale industriali del cinema), si batta con tutte le forze perché il meccanismo dei
premi non modifichi le sue caratteristiche e non sia sganciato dalla resa commerciale
del film. Tale meccanismo rappresenta peraltro un incisivo strumento di controllo e
alleanza tra governo e industria e in questo gioco entrano anche gli interessi industriali
americani. Perciò, la nomina del socialista Achille Corona a ministro del Turismo e
dello Spettacolo nel dicembre 1963 suscitò non pochi timori nell’ambiente produttivo.
La nuova legge sul cinema (n° 1213 del 4 novembre 1965, denominata “legge
Corona”), elaborata nell’ambito delle forze culturali del partito socialista, ebbe così una
gestazione lunga e travagliata.
L’Anica da un lato dichiara la propria propensione ad esercitare un maggior
controllo morale sulla produzione se il governo manifesterà l’antica andreottiana
benevolenza nei suoi confronti, e dall’altro agita lo spauracchio rosso (l’Araldo dello
spettacolo, il 5 marzo 1964, scriveva: «Si tenta di fare sul cinema il primo esperimento
di concreta collaborazione comunista-socialista per assicurarsi il controllo di un settore
di essenziale importanza politica, economica e sociale qual è il cinematografo») per
impressionare i parlamentari più retrivi.
L’allarme trae nuovo alimento dalle dichiarazioni rilasciate dal ministro Corona al
termine dell’ottava ed ultima riunione della commissione di studio da lui costituita: a
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provocarlo è soprattutto l’intendimento espresso di concedere il contributo percentuale
sugli incassi ai solo film ammessi alla programmazione obbligatoria, che, a giudizio di
un comitato di esperti, «presentino adeguati requisiti artistici o culturali o spettacolari».
Come accennato, l’Anica e l’Anac (Associazione nazionale autori del cinema),
produttori ed autori, si trovano immediatamente d’accordo sulla necessità di sganciare i
ristorni da ogni criterio di valutazione che prescinda dal rendimento economico del
film. Il critico cinematografico Lorenzo Quaglietti (tra i fondatori di Cinemasessanta)
fa osservare che la legge in vigore già collegava la concessione del contributo alla
programmazione obbligatoria e che «la declaratoria delle due associazioni poteva
quindi avere un senso solo presupponendo nel ministro Corona un’intenzione di
maggiore rigorosità che, se comprensibilmente mal vista dall’Anica, non avrebbe
dovuto sollevare rimostranze da parte dell’Anac».
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La dichiarazione del ministro è importante perché su di essa, o meglio sulla forma e
sullo sviluppo avuti nell’art. 5 del disegno di legge poi presentato in parlamento, si
attizza una battaglia sedata solo con l’approvazione dell’emendamento di Zaccagnini.
Questo richiede il «rispetto dei principi etico-sociali posti a base della Costituzione
repubblicana». Tuttavia l’emendamento poteva rivelarsi pericoloso, prestandosi, come
osservò Corona, ad «essere adoperato per scopi che esulano da quelli nutriti dal gruppo
democristiano». Inoltre, gli “adeguati requisiti” artistici o culturali o spettacolari, nella
legge si trasformarono in “sufficienti qualità” artistiche o culturali o spettacolari.
In definitiva, la legge sul cinema appare come l’ago della bilancia di una situazione
che si vorrebbe riequilibrare, senza deprimere il cinema d’autore e, al tempo stesso,
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Lorenzo Quaglietti, Storia economico-politica del cinema italiano 1945-1980, Editori Riuniti, 1980.
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senza assumere di colpo atteggiamenti punitivi nei confronti di un’industria in ascesa. Il
primo articolo della n° 1213 ne enuncia i presupposti e le finalità:
Lo Stato considera il cinema mezzo di espressione artistica, di formazione culturale, di
comunicazione sociale e ne riconosce l’importanza economica e industriale. Le attività di produzione,
di distribuzione e di programmazione sono ritenute di rilevante interesse generale.
Pertanto lo Stato:
a) favorisce il consolidarsi dell’industria cinematografica nei suoi diversi settori;
b) promuove la struttura industriale a partecipazione statale, assicurando che sia di
integrazione all’industria privata e operi secondo criteri di economicità;
c) incoraggia e aiuta le iniziative volte a valorizzare e diffondere il cinema nazionale con
particolare riguardo ai film di notevole interesse artistico e culturale;
d) assicura, per fini culturali e educativi, la conservazione del patrimonio filmico
nazionale e la sua diffusione in Italia e all’estero;
e) cura la formazione di quadri professionali e promuove studi e ricerche nel settore
cinematografico.
L’affermata considerazione per gli aspetti culturali del cinema si accoppia con
l’attenzione per le componenti economico-industriali dello spettacolo cinematografico.
Da un lato si vuole controllare il sempre presente pericolo di colonizzazione da parte
dell’industria cinematografica americana, dall’altro s’intende valorizzare la produzione
di qualità senza deprimere la normale e corrente attività industriale. Il governo intende
mantenersi in una posizione di equilibrio: in modo da garantire «un aiuto industriale di
base a tutta, o quasi tutta, la produzione cinematografica italiana, attraverso il credito, i
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contributi percentuali sugli incassi, i contributi sugli interessi e gli incentivi alla
diffusione». Questi ultimi sono degli abbuoni sui diritti erariali del 18% per gli
esercenti che programmano film italiani.
Il critico cinematografico Bruno Torri (docente di storia e critica del cinema,
presidente del SNCCI, presidente del comitato coordinatore della Mostra Internazionale
del Nuovo Cinema di Pesaro, direttore di Cinecritica ed ex collaboratore di
Cinemasessanta) sostiene che l’articolo n° 1, pur non essendo sbagliato in via
strettamente teorica, finisce però, nella stesura complessiva della legge stessa, con il
risultare disarmonico, nel senso che le iniziative e le incentivazioni a favore
dell’economia e dell’industria cinematografica nazionale (i “ristorni”) vengono
mantenuti (anche se i contributi sono ridotti dal 16% al 13%), continuando così ad
indirizzare la produzione verso i film ritenuti più commerciali, anziché promuovere una
più selettiva domanda culturale del pubblico.
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I “ristorni” (così come gli abbuoni fiscali)
non solo non favoriscono la produzione di qualità, ma neppure agevolano realmente lo
sviluppo produttivo, poiché per questo, continua Torri, «sarebbero stati necessari
adeguati stimoli e supporti finanziari nel momento iniziale della realizzazione dei
prodotti, senza farli dipendere meccanicamente dal loro esito mercantile».
Quaglietti rileva che la legge 1213
non solo non ha fatto la “rivoluzione” ma ha lasciato circa le cose come stavano. […]
Sostanzialmente la legge Corona continuava a premiare non la qualità ma la commerciabilità del film.
E ciò in un momento in cui il film nazionale appena decente riusciva in genere a coprire i costi di
produzione e consentiva buoni margini di guadagno.
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Bruno Torri, Il timido riformismo in Prima della rivoluzione – Schermi italiani 1960-1969, a cura di Claver
Salizzato, Marsilio Editori, 1989.