Introduzione
Quando si intende affrontare la questione dell’annoso problema dello
smaltimento dei rifiuti solidi urbani, si deve fare una necessaria premessa:
qualunque soluzione venga presentata, essa non può essere considerata
universalmente valida, poiché ogni realtà è a sè stante.
In questa ottica pertanto il lavoro cerca di affrontare l’argomento con
una visione il più globale possibile.
Il problema dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani è sostanzialmente
nato con l’uomo stesso, ma solo con l’avvento della società moderna ha
cominciato a farsi sempre più stringente fino ai giorni nostri, in cui crea una
emergenza continua. Per far fronte all’enorme massa di rifiuti che gli abitanti
producono, già nel 1982 si è cercato di regolamentare la materia, con il DPR
n° 915. In esso sono contenuti principi che sono ancora oggi validi: quello di
promuovere, con l’osservanza di criteri di economicità ed efficienza, sistemi
tendenti a riciclare, riutilizzare i rifiuti o recuperare da essi materiali ed
energia e quello di favorire sistemi tendenti a limitare la produzione dei
rifiuti. L’attuazione di questi principi ha richiesto un buon decennio e ancora
non si può dire che tutti gli obiettivi siano stati raggiunti. Ciò che mancava
era chiarezza nella definizione stessa di rifiuto.
Per rifiuto si intendeva infatti qualunque oggetto abbandonato o
destinato all’abbandono. Esisteva pertanto un criterio soggettivo,
l’abbandono, e un criterio oggettivo, l’essere destinato all’abbandono. Ma
non era affatto chiaro quando si potesse intendere che un oggetto o una
sostanza fossa destinata all’abbandono. Solo a partire dalla fine degli anni
Ottanta, con la legge 475 del 1988, e quindi con l’introduzione del concetto
di materie prime seconde, di recupero e di riutilizzo, si è ottenuta una
maggiore chiarezza, seppur non definitiva. Tale legge infatti ha introdotto
l’obbligatorietà della raccolta differenziata e ha costituito all’uopo i Consorzi
obbligatori per il riciclaggio. Essa definisce materie prime seconde (Mps) i
residui derivanti da processi produttivi che sono suscettibili, eventualmente
previ idonei trattamenti, di essere utilizzati come materie prime in altri
processi produttivi della stessa o di altra natura. Ma questa definizione crea
problemi di confusione con la definizione stessa di rifiuto.
Sono le direttive comunitarie a creare nei fatti la chiarezza tanto
desiderata. La direttiva del 1991 infatti supera la distinzione formale e
foriera di numerose controversie tra rifiuti e materie prime seconde. La
norma definisce rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle
categorie riportate nell’allegato 1 della Direttiva e di cui il detentore si disfi o
abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”. Questa va agganciata alla nuova
definizione di “smaltimento”, da cui sono escluse tutte le operazioni di
trasformazione necessarie per il riutilizzo, il recupero o il riciclo dei rifiuti,
costituenti “recupero” in senso lato, e soggette ad una autonoma disciplina.
In questo contesto, il termine riciclo comprende tutte quelle operazioni che
consentono di ottenere dal rifiuto, eventualmente previo trattamento,
materie prime seconde da riutilizzare in un altro processo produttivo della
stessa o di altra natura; allo stesso modo il termine riutilizzo è da intendersi
come il processo produttivo nel quale viene utilizzata come materia prima
anche o esclusivamente materia prima seconda.
Successivamente è stata approvata un’altra direttiva, quella sugli
imballaggi, che pone obiettivi ben precisi di raccolta differenziata, recupero
e riciclaggio, in un’ottica di riduzione dei rifiuti alla fonte e di una
valorizzazione di tutti quei materiali che possono avere una utilità residua
anche dopo che siano stati inseriti nel circuito dei rifiuti.
Introduzione
Esiste quindi una buona quantità di prescrizioni legislative che tentano
di fornire una soluzione al problema dello smaltimento dei RSU, ma in Italia
esiste ancora molta confusione. Un decreto legge più volte reiterato e una
proposta di legge quadro che sembravano dare unitarietà, seppur
necessitassero di qualche miglioria, sono state cancellate e sostituite da
una proposta dell’attuale ministro all’ambiente, Edo Ronchi. La sua proposta
intende recepire la direttiva sugli imballaggi ed è imperniata essenzialmente
sul riciclaggio e sul recupero, prevedendo anche agevolazioni fiscali per le
aziende che effettuano il compostaggio e il riciclaggio. Ma prevede anche il
ricorso all’incenerimento (o termodistruzione), introducendo il principio del
silenzio-assenso dopo 30 giorni dalla presentazione di un progetto per la
costruzione di un inceneritore.
Tutto questo deve ancora essere approvato e quindi resta, per il
momento, ancora confusione.
Ma allora, che cosa si sta facendo in Italia? La diffusione della
raccolta differenziata sembra essere intesa ovunque come il toccasana per
il problema dello smaltimento, in quanto consentirebbe di ridurre
notevolmente le quantità di rifiuti da inviare allo smaltimento finale. In Italia
si è arrivati a produrre circa 26 milioni di tonnellate di rifiuti e si prevede che
la quantità aumenterà con una percentuale media del 2% annuo a livello
nazionale. Incrementare la raccolta differenziata per raggiungere le
percentuali di recupero e riciclaggio previste dalle direttive più recenti (una
quota compresa tra il 50 e il 65% dovrà essere recuperata e una quota
compresa tra il 25 e il 45% dovrà essere riciclata, con un minimo del 15%
per ciascun materiale) significa che un paese può riciclare il 45% dei rifiuti e
limitarsi a valorizzare energicamente il 5% oppure se desidera dare priorità
al recupero energetico, non può comunque non riciclare almeno il 25% dei
rifiuti. Quindi le quantità che sono effettivamente da smaltire sono inferiori.
Ma la raccolta differenziata pone anche il problema di garantire un
mercato ai prodotti recuperati. Per alcuni il problema non esiste e il mercato
garantisce anche dei prezzi interessanti: è questo il caso della carta e del
vetro. Per altri, in primo luogo le materie plastiche, il mercato è molto
ristretto se non addirittura inesistente, a meno che non si intenda effettuare
una raccolta differenziata molto spinta, ossia per tipi diversi di plastica.
Qualcuno quindi ritiene che la plastica si presti meglio alla
termovalorizzazione, possedendo tra l’altro un elevato potere calorifico.
E la raccolta differenziata costa! Sicuramente essa costituisce una
soluzione molto importante anche da un punto di vista strettamente
ambientale, riducendo ogni tipo di impatto, ma da sola non può risolvere il
problema e soprattutto non sempre è sinonimo di convenienza economica.
Esistono infatti valide alternative, sia dal punto di vista dei costi di
smaltimento che, con le moderne tecnologie, dal punto di vista ambientale.
Le tecnologie che oggi sono a disposizione per il trattamento e lo
smaltimento dei rifiuti solidi urbani costituiscono miglioramenti di tecnologie
consolidate (gli inceneritori) ovvero tecnologie altamente innovative. Per
quanto riguarda l’incenerimento, che viene anche chiamato
termodistruzione, viene ormai effettuato in impianti che prevedono il
recupero del calore e/o dell’energia elettrica prodotta dall’impianto stesso e
che nulla hanno a che fare con gli inceneritori degli anni Settanta-Ottanta. I
moderni inceneritori infatti sono costruiti nel rispetto delle più severe norme
sull’inquinamento e garantiscono perciò un impatto limitato. Le famose
diossine, tanto temute dopo l’incidente di Seveso, sono praticamente
Introduzione
assenti; i fumi sono depurati e le scorie per la maggior parte inertizzate.
Sicuramente un impianto di incenerimento non è esente da difetti: questi
sono principalmente legati agli elevati costi di impianto, soprattutto quando
si vogliono garantire i migliori standard di non-inquinamento. I costi di
impianto infatti si aggirano intorno ai 70-140 miliardi. Essi sono però in parte
recuperati quando si vende l’energia elettrica prodotta e/o il calore.
Altri impianti moderni sono gli impianti di biogassificazione e di
pirolisi. I primi sono sostanzialmente impianti chimici che sono adatti a
trattare la sostanza umida contenuta nei rifiuti, garantendone la
trasformazione in gas vendibile sul mercato e con garanzie elevate di
sicurezza. I secondi invece trattano RDF, cioè combustibile derivato dai
rifiuti e altamente selezionato. Sono esenti da emissioni in atmosfera e il
risultato del trattamento è la produzione di gas, che può anch’esso essere
venduto o utilizzato per il riscaldamento. Questi impianti, seppure ne
esistono degli esempi, sono ancora ad un livello sperimentale e suscettibili
di migliorie.
Per trattare la sostanza organica, esistono gli impianti di
compostaggio, ossia impianti che riproducono artificialmente il naturale
processo di decomposizione della materia organica. In aggiunta al processo
naturale, questi impianti prevedono l’utilizzo del biogas prodotto dalla
putrefazione (che negli impianti viene chiamata digestione aerobica, ad
opera di microorganismi). L’intero processo avviene in impianti chiusi ed
automatizzati esenti da emissioni e odori sgradevoli. Il prodotto di risulta è il
compost, materiale usato come ammendante in agricoltura.
Una tecnologia innovativa è oggi costituita dagli impianti che
producono RDF, cioè combustibile ad alto potere calorifico prodotto dai
rifiuti. Tali impianti possono prevedere diversi tipi di trattamento, ma ciò che
ne risulta è comunque un prodotto igienizzato, esente da produzione di
biogas e percolato, inertizzato ed idoneo alla combustione. Un modello di
impianto di questo tipo è fornito nel seguito, quando si riferisce dell’esempio
del comune di Trezzo sull’Adda.
Tutte le tecnologie presentano vantaggi e inconvenienti, ma quel che
è certo è che non si può prescindere dall’incenerimento, soprattutto per la
cosiddetta frazione secca, e non si può prescindere completamente
dall’utilizzo della discarica. Oggi ancora preponderante ne è però l’uso, in
quanto circa il 90% dei rifiuti è così smaltito. Bisogna drasticamente ridurre
soprattutto perché le discariche esistenti sono di vecchio stampo e spesso
non prevedono la raccolta del biogas che si sprigiona e non vi è un corretto
monitoraggio della produzione di percolato, con ingenti danni di tipo
ambientale. Le discariche che serviranno a completamento dello
smaltimento di tipo moderno saranno più sicure perché accoglieranno
materiali più controllati e perché dovrebbero essere costruite secondo le
moderne tecnologie a disposizione.
La tendenza generale è comunque quella di attuare una raccolta
differenziata spinta, ridurre il ricorso alla discarica e all’incenerimento,
aumentare le percentuali di recupero e di riciclaggio. Questa è
probabilmente la soluzione migliore, ma occorre ricordare che le tecnologie
non sono tra loro alternative , bensì vanno utilizzate in un’ottica di
complementarietà, in una visione integrata, se veramente si vuole fare
qualcosa per superare l’emergenza ed ottenere risultati soddisfacenti e
duraturi.
Introduzione
Se non si vuole arrivare alla raccolta differenziata spinta, che tra
l’altro prevede costi notevoli, necessaria risulta essere la separazione della
raccolta tra secco e umido. Questo tipo di raccolta consente senz’altro di
ottimizzare l’utilizzo di ogni genere di impianto, sia esso di termodistruzione,
perché si brucia rifiuto più omogeneo e quindi a più alto potere calorifico,
sia di compostaggio, perché si ottiene un compost di più elevata qualità, sia
della discarica, perché vi arriva materiale più controllato. In ogni caso
occorre fare riferimento alla realtà in cui gli impianti sono installati, alle
potenzialità dei sistemi implementati in relazione alle caratteristiche del
bacino servito, alla situazione del mercato per le materie seconde e via
dicendo. Insomma, non si può trovare una soluzione che funzioni e sia
ottimale per qualunque realtà: occorre calarsi nello specifico e trovare una
soluzione che sia migliore delle alternative a disposizione, sotto tutti gli
aspetti che la materia rifiuti solidi va a toccare.
E’ per questo motivo che ciò che segue è una disamina generale delle
tecnologie a disposizione, dei loro costi economici e ambientali e delle
implicazioni per i cittadini, soprattutto in termini di tassazione. Ma è anche la
presentazione di un caso concreto, a testimonianza di ciò che si può fare.
Capitolo 1
La normativa sui rifiuti in Italia e nella CEE
La normativa sui rifiuti in Italia e nella CEE
Il quadro normativo vigente in materia di gestione dei rifiuti si
caratterizza per l’estrema complessità delle disposizioni che lo
costituiscono, adottate spesso sotto la spinta dell’urgenza e tali quindi da
generare forti problemi applicativi. Anche dal lato delle direttive comunitarie,
il nostro paese ha adempiuto tipicamente in ritardo all’obbligo di trasporle
nell’ordinamento nazionale, adottando così una serie di atti legislativi e
regolamentari in cui non sono posti chiaramente in evidenza obiettivi di
medio-lungo termine, perché ancora appiattiti sull’emergenza. Del resto
l’erogazione di risorse finanziarie, a livello regionale o statale, non è valsa a
promuovere l’attivazione sul territorio nazionale di una rete di impianti di
smaltimento almeno sufficiente. A poco quindi è servita sul fronte
dell’incoraggiamento alle attività di recupero e di riciclo secondo gli obiettivi
di effettivo contenimento dell’impatto ambientale dei residui.
In tale quadro, strutturato essenzialmente negli anni Ottanta, sono
però inseriti provvedimenti più recenti sia a livello nazionale che
comunitario, al fine di rispondere all’esigenza di predisporre un assetto
legislativo chiaro, snello e di non dubbia applicabilità. Da più parti poi è
sentita l’esigenza di una normativa-ponte la quale conduca ad una legge-
quadro che sia coerente con le direttive comunitarie già vigenti e con quelle
da recepire.
I dati economici del settore ci dicono che il nostro è essenzialmente
un paese trasformatore che per il 50 per cento ormai non lavora più materie
prime, ma materie prime secondarie, cioè “residui”, gran parte dei quali
sono importati; per contro esportiamo, a caro prezzo, rifiuti anziché prodotti
riciclati. Da tali dati emerge anche che nel nostro paese il 90 per cento dei
rifiuti va in discarica e soltanto il 4 per cento viene trasformato, mentre nel
resto d’Europa la situazione si capovolge. L’aver privilegiato le discariche, in
Capitolo 1
luogo della selezione e del recupero dei materiali contenuti nella massa dei
rifiuti, ha inoltre dato luogo alla diffusione sempre più preoccupante di un
business malavitoso su discariche abusive o comunque non garantite e sullo
stesso trasporto dei rifiuti. Una catena che è necessario spezzare al più
presto con una politica che instauri una mentalità fondamentale e cioè una
cultura del produrre e del consumare che punti a ridurre la quantità dei rifiuti
e quindi l’immane problema da essi rappresentato, e che, in ogni caso,
privilegi il recupero in luogo della semplice discarica o della distruzione dei
rifiuti medesimi.
A questo scopo si rende necessario chiarire bene cosa si intende per
residui riutilizzabili, e quindi materie prime seconde (Mps), e rifiuti in senso
stretto, che vanno eliminati. La definizione di Mps risale al 1988, ma la loro
individuazione e la loro regolamentazione è rinviata a atti successivi. Una
chiarificazione è stata fornita dalla direttiva comunitaria del 1991, e si è
cercato di fare altrettanto in Italia con un decreto legge più volte reiterato.
A questo punto appare chiaro che il quadro complessivo si presenta
piuttosto complicato, con normative che si sovrappongono e che talvolta
entrano in contrasto tra loro, ma che comunque si può riassumere in alcuni
punti fermi di riferimento:
1. il DPR n° 915 del 1982, che fornisce un primo quadro di riferimento
per lo smaltimento;
2. la legge n° 441 del 1987, recante disposizioni urgenti in materia di
smaltimento dei rifiuti;
3. la legge n° 475 del 1988, che tra le altre cose istituisce i Consorzi
Obbligatori;
La normativa sui rifiuti in Italia e nella CEE
4. la direttiva CEE n° 156 del 1991, cioè la direttiva-quadro in materia
di rifiuti;
5. la direttiva CEE n° 64 del 1992, in materia di riciclaggio degli
imballaggi
6. il decreto legge n° 530 del 1994, più volte reiterato, in materia di
riutilizzo dei residui derivanti da cicli di produzione e consumo;
7. la proposta di legge-quadro sui rifiuti, cosiddetta “legge Gerardini”;
8. il decreto “Ronchi”.
1.1 Il DPR 915/82 e la legge 441/87
Il DPR n° 915 del 1982 definisce per la prima volta in Italia la
complessa tematica dei rifiuti. In esso sono contenuti il principio di
promuovere, con l’osservanza di criteri di economicità ed efficienza, sistemi
tendenti a riciclare, riutilizzare i rifiuti o recuperare da essi materiali ed
energia e quello di favorire sistemi tendenti a limitare la produzione dei
rifiuti. L’attuazione di questi principi ha richiesto un buon decennio e ancora
non si può dire che tutti gli obiettivi siano stati raggiunti.
Questo decreto ha comunque introdotto una disciplina organica che
ha reso possibile l’attuazione di alcune direttive CEE, tra cui la 75/442. Esso
regolamenta tutte le fasi dello smaltimento: conferimento, raccolta,
spazzamento, cernita, trasporto, trattamento, ammasso, deposito, discarica
sul e nel suolo, ovvero:
Capitolo 1
♦ evitare ogni danno o pericolo per la salute e assicurare l’incolumità,
il benessere e la sicurezza del singolo e della collettività;
♦ garantire il rispetto delle esigenze igienico-sanitarie, evitando ogni
tipo di inquinamento di aria, suolo, sottosuolo, nonché gli inconvenienti
eventualmente causati da odori e rumori;
♦ evitare ogni degrado dell’ambiente e del paesaggio.
Anche il concetto di “favorire sistemi tendenti a ridurre la produzione
di rifiuti” rientra nei principi generali. Tale impostazione è stata accolta
secondo l’ormai noto principio del “chi inquina paga”: la parte dei costi non
coperta dalla valorizzazione dei rifiuti deve essere ripartita. Le azioni che in
concreto sono state previste riguardano interventi sulle fasi di smaltimento
dei rifiuti volti a recuperare da essi materiali e fonti energetiche, nonché
interventi che espressamente incentivano sia l’espansione dei mercati che
l’impiego delle materie prime seconde.
La nozione di rifiuto è data dall’art. 2 della legge 915/82, che definisce
tale “qualsiasi sostanza o oggetto derivante da attività umana o da cicli
naturali, abbandonato o destinato all’abbandono”. Alla condizione
dell’abbandono viene subordinata l’applicazione di tutta la normativa sullo
smaltimento che viene contrapposta alla normativa sulle materie prime
seconde, emanata con la legge 475/88, oltre che alla disciplina dello scarico
delle acque prevista dalla “legge Merli” del 1976. I rifiuti vengono suddivisi
in:
I. Rifiuti solidi urbani (RSU):
A. residui non ingombranti provenienti dai fabbricati o
da altri insediamenti civili;
La normativa sui rifiuti in Italia e nella CEE
B. rifiuti ingombranti quali beni di consumo durevoli, di
impiego domestico, di uso comune, provenienti da fabbricati o
da altri insediamenti civili;
C. rifiuti di qualsiasi natura e provenienza giacenti sulla
strada e sulle aree pubbliche, sulle spiagge e sulla riva dei
fiumi;
II. Rifiuti speciali (RS):
A. residui derivanti da lavorazioni industriali, da attività
agricole, artigianali, commerciali e di servizi che per qualità e
quantità non si possono assimilare ai rifiuti solidi urbani;
B. rifiuti provenienti da ospedali e case di cura non
assimilabili ai rifiuti solidi urbani;
C. materiali provenienti da demolizioni, costruzioni e
scavi, macchinari e apparecchiature deteriorate e obsolete;
D. veicoli a motore fuori uso e loro parti;
E. residui dell’attività di trattamento dei rifiuti e residui
derivanti dalla depurazione delle acque.
III. Rifiuti tossico-nocivi (RTN):
tutti i rifiuti che contengono o sono contaminati da sostanze incluse in
un elenco, allegato al DPR, quali arsenico, mercurio, solventi clorurati,
composti di rame, policlorodifenili e policlorotrifenili.
Altri rifiuti non rientrano invece in questa normativa perché disciplinati
da norme diverse.
Questa rapida panoramica conferma che, malgrado lo sforzo di
precisione da parte del legislatore, manca una definizione concreta e
definitiva di rifiuto.
Capitolo 1
La legge n° 441 del 1987 costituisce un importante elemento
economico del settore, poiché prevede finanziamenti per l’adeguamento
degli impianti esistenti alle norme di legge, nonché per la costruzione di
nuovi impianti. Essa prevede che le Regioni determinino le modalità di
realizzazione dei piani di smaltimento dei rifiuti, favorendo “la raccolta
differenziata e le soluzioni di smaltimento che consentano il riutilizzo, il
riciclaggio e l’incenerimento con recupero di energia”. Le Regioni devono in
particolare “determinare le modalità di selezione, preliminare
all’incenerimento, al compostaggio e al riciclaggio, dei rifiuti solidi urbani,
con specifico riferimento alle materie plastiche cloroderivate”. Essa quindi
riprende e rafforza lo spirito del DPR 915.
1.2 La legge 475/1988
La legge 475 dichiara la raccolta differenziata modalità obbligatoria
dello smaltimento dei rifiuti urbani a partire dal 1° Gennaio 1990. Obiettivo
prioritario della raccolta differenziata deve essere la separazione dei rifiuti
di provenienza alimentare, vegetale e animale, dalla restante parte
cosiddetta secca.
La stessa legge risulta un punto fondamentale di riferimento in tutta la
normativa sui rifiuti in quanto prevede l’istituzione obbligatoria di consorzi
nazionali per il riciclaggio, di cui disciplina la composizione e le funzioni.
Il Consorzio obbligatorio persegue il fine del recupero di alcuni
materiali coinvolgendo produttori, commercianti, consumatori.