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dei soggetti tenuti al loro pagamento, tentando di fornire le basi di riferimento di
una disciplina normativa in continua evoluzione nei confronti del panorama
economico-sociale nel quale si trova ad operare.
In seguito una particolare attenzione viene rivolta alle responsabilità per omessa o
irregolare contribuzione previdenziale, in relazione alle quali ci si sofferma sui
privilegi che assistono tali categorie di crediti in ambito fallimentare, creando le
premesse per un parallelo tra esenzioni e privilegi di cui godono i contributi
previdenziali.
Nel quarto capitolo, infine, si analizza la legge oggetto principale della tesi e
l’articolo di essa che ci riguarda da vicino.
Dopo avere illustrato la situazione consolidatasi prima dell’avvento della norma in
questione, si descrive il testo normativo, con particolare riferimento alla lunga
genesi legislativa che lo ha prodotto, soffermandoci sugli effetti che esso
comporta, nonchè sulle (feroci) critiche ad esso rivolto da un’accesa dottrina.
Terminando poi con la trattazione del dibattuto esame in merito al regime
transitorio (comprese le importanti statuizioni della Cassazione a riguardo) e del
caso particolare della esenzione dall’azione revocatoria fallimentare della
cessione, a pagamento dei contributi assicurativi, di crediti vantati dall’impresa
verso lo Stato.
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Capitolo I
La revocatoria fallimentare.
1.1) Aspetti generali.
Un’impresa che giunge alla dichiarazione di fallimento si trova in un grave stato
di crisi. Di tale evento si può parlare in accezioni diverse: l’impresa può essere
considerata “in crisi” quando non ottenga tutti i profitti astrattamente consentiti
dalla sua organizzazione e dalla collocazione nel mercato in cui opera, oppure
quando subisca perdite che pure non intacchino la normalità del suo flusso
finanziario o che siano ripianate dall’immissione di nuovo capitale.
Il fallimento presuppone invece quella particolare forma di “crisi d’impresa” che
si verifica quando l’imprenditore non è più in grado di soddisfare regolarmente le
sue obbligazioni: questa particolare situazione - ossia “l’impossibilità di far fronte
con mezzi normali di pagamento ai propri impegni alle scadenze stabilite” - è
detta “stato di insolvenza” ed è presupposto fondamentale (oggettivo), per la
dichiarazione di fallimento.
Considerando l’origine del fenomeno possiamo notare che prima dell’insolvenza
si verifica un particolare stato di crisi (del quale, talvolta, non è bene identificabile
la data di inizio, a causa dei multiformi aspetti che esso può assumere), stato che
sul piano finanziario è caratterizzato da illiquidità ossia da un complesso di
difficoltà che l’imprenditore incontra nel far fronte ai propri impegni finanziari,
prima che si manifesti o, meglio, prima che sia portata a conoscenza delle
competenti autorità giudiziarie, l’esistenza dello stato di insolvenza.
La necessità di occultare tale situazione per mantenere il proprio credito, la
speranza di una ripresa economica dell’impresa atta a superare quella che
l’imprenditore è portato a considerare una difficoltà temporanea, la speranza di
afflusso di nuovi capitali, la preoccupazione di evitare che si giunga
all’inadempimento o, gradualmente, all’insolvenza, lo inducono ad orientare il suo
comportamento non sul piano economico, ma in vista del più rapido e massiccio
procacciamento di mezzi finanziari; agli affari lucrosi, ma importanti tempi
lunghi, si preferiscono quelli di minor redditività, non raramente quelli in perdita,
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ma che assicurano rapidi e cospicui afflussi di denaro, si abbonda in sconti ed
abbuoni pur di affrettare i ricavi, si addiviene ad antieconomici regolamenti in
natura o a concessioni di privilegi o ad altre anomale forme di regolamento pur di
placare le insistenti pressioni di creditori non disposti a consentire attese, si arriva
a porre in essere atti del tutto scorretti pur di procacciarsi mezzi finanziari. In
sostanza si assiste ad un comportamento tendente all’ottenimento della massima
liquidità piuttosto che ad un più preferibile ed economicamente soddisfacente
orientamento dell’imprenditore teso a conseguire affari di maggior profitto
(derivanti in genere da impegni di lungo periodo).
Fatta questa doverosa premessa di carattere economico/aziendale, andrò ora
procedendo in modo da considerare il fenomeno, sotto il profilo giuridico,
esclusivamente nella sua oggettività e , quindi, diverranno ora irrilevanti le cause
che possano averlo provocato, siano esse riconducibili ad errori di organizzazione,
ad errori di gestione, ad insufficienza di capitale o ad accadimenti fortuiti.
Il creditore, normalmente, fa affidamento sul patrimonio del debitore per ottenere
la soddisfazione di quanto gli spetta: << il debitore - infatti - risponde
dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri >> per
dettato legislativo dell’art.2740 c.c.. Condizione insuperabile affinché tale
garanzia operi è la permanenza dei beni nella disponibilità del debitore; peraltro si
può verificare che il debitore disperda il proprio patrimonio mediante alienazioni,
donazioni o pagamenti, sottraendo, in tal modo, quella garanzia su cui il creditore
ha fatto affidamento.
Sorge, a questo punto, il problema di restituire al creditore la garanzia
patrimoniale perduta: problema teoricamente e praticamente di difficile soluzione,
in quanto il debitore ha validamente disposto di un suo bene patrimoniale, senza
che sussistesse alcun divieto, esplicito o implicito, fissato in materia dal
legislatore.
Il “principio generale della responsabilità patrimoniale del debitore”, infatti, non
gli impone alcun obbligo specifico di non disporre, per cui il bene che il debitore
abbia ceduto, non soggiace ad alcun vincolo reale (la questione, ovviamente, non
si pone se il creditore gode di garanzia reale) idoneo a rendere inopponibile ai
creditori il trasferimento ed è transitato legittimamente nel patrimonio
dell’acquirente.
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Il mezzo per recuperare nuovamente il patrimonio del debitore alla garanzia del
creditore è costituito dalla “azione revocatoria” detta anche “pauliana”, in quanto
prevista con tale nome già nel diritto giustiniano.
Nel diritto attuale l’azione revocatoria è concessa a tutela di qualsiasi creditore
che si sia visto arrecare pregiudizio attraverso la diminuzione della garanzia
relativa al suo credito; specificamente l’ordinamento configura i vari aspetti
dell’istituto della revocatoria in un consolidato insieme di norme di diritto
comune: artt.2901 e segg. c.c. (azione revocatoria ordinaria) quale nucleo
principale, accanto al quale è bene associare l’art.524 c.c. (impugnazione, da parte
dei creditori, della rinuncia del debitore all’eredità); l’art.404 c.p.c. (opposizione
del terzo che vede pregiudicati i suoi diritti contro la sentenza, passata in
giudicato, pronunciata da altre persone) e gli artt.192/193/194 c.p.p. (inefficacia,
verso taluni creditori, di atti compiuti dal colpevole prima e dopo il reato). Nelle
ipotesi in cui il debitore sia - inoltre - dichiarato fallito, il curatore potrà esercitare,
per il recupero della garanzia in favore di tutti i creditori, oltre la revocatoria
ordinaria, anche “l’azione revocatoria fallimentare”, che consente facilitazioni di
prova e fissa presunzioni in favore della massa, ai sensi della serie di articoli (dal
64 al 71) posti sotto la voce << Degli effetti del fallimento sugli atti
pregiudizievoli ai creditori >>, nella legge fallimentare attualmente in vigore:
Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267.
A questo punto è bene evidenziare come la dichiarazione di fallimento sottopone
tutti i creditori del fallito al concorso sostanziale (e cioè al diritto di partecipare
paritariamente alla distribuzione di quanto ricavato dalla liquidazione
fallimentare) ed al concorso formale (necessità di sottoporre tutte le posizioni
creditorie all’accertamento concorsuale). Sotto il primo profilo, il singolo
creditore perde il diritto di promuovere o proseguire contro il debitore azioni
esecutive singolari (art.51 legge fallimentare) e si vede attribuito l’esclusivo
diritto di prendere parte, in concorso con ogni altro creditore, alla procedura
esecutiva concorsuale: diviene dunque creditore concorsuale. Il divieto di azioni
esecutive individuali è generale ma non assoluto dato che leggi speciali
consentono alcune limitate eccezioni (ad esempio l’esecuzione esattoriale ex
art.51 DPR 29 settembre 1973, n.602 ed l’esecuzione avente ad oggetto beni
immobili ipotecati a garanzia di credito fondiario, di credito alle opere pubbliche e
di credito agrario ex artt 41 comma II, 42 comma IV e 44 comma V D.Lgs. 1
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settembre 1993, n.385, consentite anche contro il debitore fallito). Sotto il
secondo profilo, il singolo creditore, per poter partecipare al concorso, è tenuto a
fare accertare giudizialmente il suo credito nelle forme previste dalla legge
fallimentare (art. 52): quando l’accertamento sia stato superato positivamente, il
creditore concorsuale diviene creditore concorrente (vedasi Greco Diritto
fallimentare: effetti del fallimento, Milano, 1994, pag.231; Tedeschi Le procedure
concorsuali, Torino, 1996, pag.67; Maffei Alberti Commentario breve alla legge
fallimentare e alla legge sull’amministrazione delle grandi imprese in crisi,
Padova, 1999; Pajardi Codice del fallimento, Milano, 1988, pag.67).
Il concorso fallimentare, peraltro, lascia integre le cause di prelazione
legittimamente acquisite dai singoli creditori prima della dichiarazione di
fallimento. Si distinguono così i creditori privilegiati (i cui crediti sono assistiti
da pegno, ipoteca, privilegio) ed i creditori chirografari (i cui crediti non sono
invece assistiti da alcuna causa di prelazione).
I primi conservano il diritto di soddisfarsi integralmente per capitale, interessi e
spese, sul ricavato dalla vendita dei beni oggetto della garanzia o del privilegio e
concorrono con i chirografari soltanto per l’eventuale residuo credito
insoddisfatto. I secondi partecipano paritariamente su quanto residua dell’attivo
fallimentare e vengono soddisfatti in egual percentuale. Il principio della parità di
trattamento dei creditori trova dunque piena attuazione soltanto per i creditori
chirografari, mentre per i creditori privilegiati assume il diverso significato di
sottoposizione a regole, uguali per tutti i creditori, che stabiliscono i criteri di
precedenza nel concorso.
L’ordinamento tende poi a ricreare una situazione di parità di trattamento
coinvolgendo, nella redistribuzione della perdita derivante dall’insolvenza del
debitore e dalla sua dichiarazione di fallimento non soltanto coloro che si trovino
ad essere creditori nel momento dell’apertura della procedura concorsuale, ma
anche coloro che siano entrati, a vario titolo, in rapporti con il fallendo in periodi
di tempo determinati e diversi a seconda delle diverse categorie di atti anteriori
alla dichiarazione di fallimento; ciò avviene in base al sistema della
“determinazione legale” che, prefissa per ogni categoria di atti pregiudizievoli il
periodo di tempo anteriore alla dichiarazione di fallimento e rende quindi certo e
determinato l’arco di tempo sospetto nel quale, appunto, si ritiene che le
operazioni finanziarie e gli atti in genere ivi compiuti abbiano con tutta probabilità
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creato o, quanto meno, accresciuto, lo stato di insolvenza provocando danno al
principio fondamentale della “par condicio creditorum”.
A proposito di questi atti vi è infine da rilevare come il legislatore operi una
principale distinzione in due sottocategorie assoggettate ad una disciplina diversa:
gli atti anormali o sintomatici dell’insolvenza, che sono revocati a meno che il
terzo convenuto in revocatoria non provi che ignorava (nonostante la
sintomaticità) lo stato d’insolvenza della controparte nel momento di esecuzione
dell’atto; gli atti normali riguardo ai quali la prova della conoscenza dello stato
di insolvenza (attesa, appunto, la non sintomaticità dell’atto) grava sul curatore
che agisce in revocatoria.
Appartengono al primo gruppo:
a) gli atti a titolo oneroso, eseguiti nei due anni anteriori al fallimento, nei quali le
prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito siano notevolmente
superiori a quanto dato o promesso (ad esempio, vendite a prezzo rovinoso);
b) i pagamenti eseguiti dal fallito, sempre nei due anni anteriori al fallimento, con
mezzi anormali (ad esempio, con dazioni in pagamento o concessioni di credito);
c) le garanzie costitutive nel biennio anteriore al fallimento per debiti preesistenti
non scaduti;
d) le garanzie (comprese le ipoteche giudiziali) costituite nell’anno anteriore al
fallimento per debiti preesistenti, ma scaduti.
Appartengono al secondo gruppo i seguenti atti, quando compiuti nell’anno
anteriore al fallimento:
a) i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili effettuati con denaro o altri mezzi
normali di pagamento (ad esempio, assegni o cambiali);
b) gli atti a titolo oneroso;
c) le garanzie costituite contestualmente al sorgere del rapporto di debito/credito
garantito.
Riguardo alle esenzioni dall’applicazione di questa disciplina stabilite dalla legge
fallimentare a favore degli istituti di credito fondiario e degli istituti autorizzati a
compiere operazioni di credito su pegno limitatamente a tali operazioni nonché da
leggi speciali a favore di altri soggetti ed altri atti (ad esempio, pagamento di
imposte scadute, di contributi sociali obbligatori) rimandiamo al prosieguo della
trattazione.
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1.2) La natura dell’istituto.
Per comprendere lo scopo dell’istituto della revocatoria e in particolare il suo
risvolto nella vicenda fallimentare, è necessario evidenziarne la natura. Al
riguardo va richiamata la disputa sviluppatasi sia in giurisprudenza che in dottrina
riguardo la diversità/identità delle due azioni, quella ordinaria (artt.2901 ss c.c.) e
quella fallimentare (al capo III, sezione III << Degli effetti del fallimento sugli atti
pregiudizievoli ai creditori >> della legge fallimentare) che, tenterò di illustrare.
Per quanto riguarda la teoria della diversità delle due azioni, vi è da dire che
dottrina (Greco Diritto fallimentare: effetti del fallimento, Milano, 1994, pag.283;
Cuneo Le procedure concorsuali, Milano, 1988, pag.1039; Maffei Alberti
Diritto commerciale - il fallimento, Bologna, 1999, pag.524) e giurisprudenza non
si limitano a puntare sugli aspetti esteriori più marcati ed evidenti, che a prima
vista sarebbero già da soli sufficienti a far decisamente propendere per una netta e
chiara diversità tra le due azioni - (in sintesi: l’indifferenza che riveste lo stato
soggettivo del fallito al momento di compiere l’atto perché questo sia soggetto a
revocatoria fallimentare; l’onere della prova invertito ex art.67, comma I, legge
fallimentare sulla conoscenza dello stato di insolvenza del fallito e spettante al
terzo; la revocabilità di atti cui il fallito non ha partecipato; sufficienza della
conoscenza da parte del terzo dello stato di insolvenza in cui versa l’imprenditore
al momento di compiere l’atto e non anche conoscenza del pregiudizio che l’atto
arreca agli altri debitori, come richiesto per la revocatoria ordinaria;
assoggettabilità alla revocatoria fallimentare anche di atti cui non ha partecipato il
debitore, mentre di norma si possono impugnare con la revocatoria ordinaria solo
atti direttamente impugnabili dal debitore; ecc.) - , ma, come vedremo ora,
considereremo l’essenza delle due azioni revocatorie.
Prima di passare all’esame della dottrina segnaliamo una parte minoritaria della
giurisprudenza che in alcune sentenze di merito (Trib. Modena 9 marzo 1972 in
Giur. it.,1973, I, 2, c.618; Trib. Catania 9 marzo 1973 in Dir. fall., 1973, II,
pag.757) rileva come l’azione revocatoria fallimentare non abbia il proprio
presupposto nel danno cagionato specificamente dall’atto revocando, ma miri più
semplicemente a riportare tra i creditori, in modo diverso e più ampio di quello
che risulta all’atto dell’apertura della procedura fallimentare, il danno provocato
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dalla incapienza del patrimonio del fallito. In questo sta la diversità tra le due
azioni revocatorie.
Dottrina autorevole è quella del Satta (in Istituzioni di diritto fallimentare, Roma,
1964, pag.125) che pur riconoscendo similitudini dal lato funzionale, afferma la
diversità delle due azioni in quanto il presupposto su cui si basano sarebbe
differente:<< altro è un’azione che ha il suo fatto costitutivo nel consapevole
pregiudizio, altro è un’azione che trovi tale fatto costitutivo nello stato di
insolvenza del debitore, e come tale può portare alla revoca di atti che sarebbero
con la semplice revocatoria, inattaccabili >>.
Il De Semo (in Diritto fallimentare, Padova, 1964, pag.292), contrariamente al
Satta, nega l’identità di funzione, ed anzi, a suo parere, proprio in questo risiede la
differenza principale; infatti, considerando la diversa funzione loro assegnata dal
legislatore in considerazione del mutato ambito economico-sociale in cui devono
operare: mentre la pauliana è esplicitamente posta per risarcire il danno derivato ai
creditori dal comportamento nocivo del debitore (cfr art.2902 c.c.) ed a ristabilire
sul bene fraudolentemente alienato la normale garanzia spettante ai creditori,
l’azione revocatoria fallimentare ha carattere essenzialmente recuperatorio,
proponendosi di ricondurre nella massa i beni sottratti al patrimonio del fallito o
di liberarli da oneri reali. La revocatoria fallimentare quindi - secondo il De Semo
- non tenderebbe esclusivamente ad eliminare un danno prodotto dall’atto, bensì a
ricostruire con criteri oggettivi il patrimonio del fallito.
A conclusioni similari giunge il Libertini (in Pagamento cambiario e revocatoria
fallimentare. Un contributo alla teoria della revocatoria, in Quaderni di
Giur.Comm., II, Milano, 1974) per il quale, allo scopo di individuare la funzione
della revocatoria fallimentare, bisogna prescindere da ogni criterio civilistico:
precipuo scopo della revocatoria fallimentare è ricostruire nel modo più esatto
possibile il patrimonium debitoris nello status quo ante per permettere la
distribuzione delle perdite tra tutti coloro che sono entrati in rapporti d’affari col
fallito, diventando indifferente che l’atto abbia o meno arrecato un pregiudizio
essendo sufficiente che il terzo abbia contattato il fallito pur essendo cosciente
delle difficoltà in cui esso si trovava.
L’Azzolina (in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Torino, 1961,
pag.1314) punta l’indice sulla diversa origine: la revocatoria ordinaria è sanzione
giudiziale che consegue esclusivamente all’azione costitutiva del creditore,
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carattere non appartenente a quella fallimentare la quale non è altro che un effetto
della sentenza dichiarativa di fallimento e << più precisamente l’estensione
retroattiva del vincolo esecutivo ai beni che furono oggetto di determinati rapporti
giuridici tra il fallito e il terzo >>. Oltre a ciò, lo stesso autore rileva come anche
la natura giuridica sarebbe differente, in quanto mentre l’azione revocatoria
ordinaria è un’azione costitutiva (poiché tende a realizzare un diritto potestativo
del giudice che richiede, per realizzarsi, il concorso del creditore), la revocatoria
fallimentare ha natura meramente dichiarativa e di accertamento.
Più articolate e di maggior rilevanza sono invece le considerazioni e le
argomentazioni formulate da Rossi (in La revocatoria fallimentare delle ipoteche,
in Riv.dir.civ., 1963, I, pag 493) e da Maffei Alberti (in Il danno nella
revocatoria, Padova, 1970, pag.123).
I due autori individuano la sostanziale diversità tra le due revocatorie nel fatto che
alla revocatoria fallimentare è totalmente estraneo un presupposto essenziale a
quella ordinaria: l’eventus damni costituito dal pregiudizio che l’atto deve arrecare
alle ragioni degli altri creditori.
Lo scopo della revocatoria fallimentare non sarebbe più, quindi, quello di riparare
al danno subito dal creditore in conseguenza della fraus del debitore in
collaborazione col terzo, bensì quello di rispettare il principio della par condicio
creditorum, che al primo manifestarsi dell’insolvenza provoca l’indisponibilità
relativa del patrimonio dell’imprenditore in difficoltà e conseguentemente la
revocabilità degli atti di disposizione del suo patrimonio a cui abbiano dato vita,
con o senza la partecipazione dell’imprenditore, i terzi a conoscenza
dell’insolvenza di esso e, quindi, compiuti in violazione di tale principio; oppure,
prescindendo anche dal principio della violazione della par condicio creditorum,
di ripartire con criteri strettamente oggettivi tra una più ampia collettività,
composta dal maggior numero possibile di tutti coloro che hanno avuto rapporti
con l’impresa dissestata, la perdita derivante alla comunità economica dalla
dichiarazione di fallimento di un imprenditore (così Maffei Alberti, op. cit., pagg.
151 e segg.).
Si può notare come in queste ultime due teorie, delle funzioni attribuibili alla
revocatoria fallimentare - cioè quella “preventiva” (remora al compimento di atti
da parte dei terzi incidenti sul patrimonio dell’impresa in crisi) e quella
“redistributiva” (strumento di ripartizione del danno sociale provocato
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dall’insolvenza dell’impresa) - è la funzione redistributiva che va a posizionarsi
ad un livello di preminenza rispetto alla preventiva, intendendosi la revocatoria
fallimentare essenzialmente come istituto che consentirebbe un’estensione
generalizzata degli effetti dannosi dell’insolvenza, rispondendo ad una visione
“moderna” delle cause dell’insolvenza stessa, la quale non è più imputabile al
carattere pregiudizievole di singoli negozi compiuti dall’imprenditore,
accentuandosi pertanto l’esigenza di realizzare una parità di trattamento tra i
soggetti che hanno coscientemente intrattenuto rapporti con l’imprenditore
insolvente.
Nel pensiero “estremo” del Maffei Alberti, poi, è chiaramente radicata la
convinzione che il fallimento rappresenti la risposta normale al fenomeno della
crisi d’impresa, e in tal modo la revocatoria fallimentare finirebbe << per
costituire anche uno strumento atto a premere sui creditori (e, in generale, sui terzi
coi quali l’insolvente deve entrare in rapporto per la continuazione dell’attività
d’impresa), perché impediscano essi stessi la continuazione dell’attività
dell’imprenditore (che sappiamo) insolvente >>: praticamente, l’impresa in
dissesto è vista come una << cellula malata >> da espellere al più presto
dall’organismo sano del mondo commerciale.
Passando ora ad esaminare la teoria che riconosce l’identità delle due azioni,
vedremo come essa sia sostenuta non solo da una consolidata giurisprudenza della
Suprema Corte, ma anche dalla parte prevalente della dottrina. I seguaci di tale
teoria concludono che ambedue la dette azioni hanno per presupposto il
pregiudizio arrecato dal debitore alle ragioni dei creditori e che esse si
differenziano tra di loro unicamente sotto il profilo delle presunzioni introdotte
dalla legge fallimentare a proposito dei presupposti dell’azione.
Così, Pajardi (in Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1998, pag.302) afferma
che le azioni revocatorie stanno tra di loro in un rapporto di species (quella
fallimentare) a genus (quella ordinaria) e aggiunge che, quando l’insolvenza
esiste, c’è sempre anche il danno.