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consapevolezza di essere parte di un tutto organico. Se questa legge empirica
avesse bisogno di una chiara dimostrazione, la troverebbe senz’altro nella
civiltà capitalista, che quotidianamente consuma la profonda contraddizione tra i
suoi presupposti teorici e le conseguenze della loro applicazione.
La superiorità e il successo del capitalismo risiederebbero infatti nell’operare
secondo i principi di razionalità racchiusi nel paradigma dell’Homo
Oeconomicus: se da un lato però questi principi hanno consentito di portare
comodità e benessere nella nostra vita, dall’altro hanno anche causato
profonde alterazioni sia nelle strutture sociali, stravolte e asservite alle esigenze
di una organizzazione economica più efficiente, sia negli equilibri della natura.
Così la retorica della supremazia della civiltà capitalista si rivela essere una
mistificazione costruita giustificando, o addirittura negando, il prezzo del suo
benessere.
Sorge a questo punto un ovvio interrogativo: se la nostra società viola
palesemente il principio di razionalità che altrimenti la domina, quale altra logica
la spinge ad ignorare le conseguenze negative del suo sviluppo, addirittura
anche quando ne pregiudicano il godimento stesso e nel lungo periodo si
rivelano insostenibili? Trovare la risposta significa interpretare in maniera non
convenzionale lo spirito che sin dalle origini ha animato il capitalismo, così
come fatto nel passato dagli economisti che non hanno accettato il pensiero
economico ortodosso. Ed è appunto al massimo interprete di questa
contestazione, Karl Marx, che si ritiene utile rifarsi, pur consci che la sua analisi
deve essere opportunamente spogliata dalle molte incongruenze e soprattutto
da qualsiasi implicazione ideologica, che anzi si rifiuta.
Nel primo volume del Capitale si legge che: “La forma più semplice [di
circolazione delle merci] segue lo schema Beni-Moneta-Beni (B-M-B), ovvero la
trasformazione di una merce in denaro e di questo in una nuova merce: il
principio è vendere per comperare, […] l’obiettivo è soddisfare un bisogno, […]
la moneta è solo un mezzo che facilita gli scambi. [Nell’economia capitalistica
invece,] lo schema di circolazione è Moneta-Beni-Moneta (M-B-M), ovvero la
trasformazione di denaro in merce e di questa in altro denaro: il principio è
comperare per vendere, […] l’obiettivo è accumulare ricchezza, […] la moneta è
solo un fine”. E ancora: “Nella circolazione B-M-B la ripetizione dell’atto di
vendere per acquistare è mantenuta sotto controllo dal suo stesso obiettivo,
ovvero il consumo, che è totalmente al di fuori della sfera della circolazione; al
contrario, nella circolazione M-B-M, si incomincia e finisce con la stessa cosa, il
denaro, pertanto la ripetizione dell’atto non ha mai termine”.
Da questa analisi emergono due importanti considerazioni. La prima è che il
capitalismo risolve l’antica disputa tra valore d’uso e valore di scambio a favore
di quest’ultimo: le cose valgono non in quanto utili, ma per il fatto che possono
essere scambiate. Ciò è solitamente mascherato dal fatto che incidentalmente
molte cose utili hanno anche valore di scambio; il paradosso dell’acqua e dei
diamanti proposto da John Law è un esempio sufficiente per ricordare che
utilità e valore sono due aspetti ben distinti, così come dimostra anche
l’esempio delle risorse ambientali: pur fondamentali per la vita, non rientrano in
alcun calcolo di efficienza economica in quanto essendo un patrimonio
posseduto indistintamente dall’umanità non possono essere oggetto di
scambio.
3
La seconda considerazione riguarda il mito capitalista della crescita continua.
Mentre in origine il complesso delle relazioni economiche era un mezzo per il
soddisfacimento dei bisogni, con l’affermarsi dei principi del libero mercato il
sistema economico è divenuto funzionale solo alla sua stessa sopravvivenza: la
crescita è insieme la raison d’être e l’unico sintomo di vita del capitalismo. Il
fatto che alla crescita corrisponda in generale un maggior benessere è, anche
in questo caso, una coincidenza di aspetti distinti in quanto l’obiettivo del
mercato è il profitto, non la soddisfazione dei bisogni: se così non fosse, il
fenomeno del consumismo non avrebbe ragione di esistere.
E’ ora possibile delineare una risposta all’interrogativo sollevato in precedenza:
la società capitalista insegue forme esasperate di benessere e sviluppo tecnico-
scientifico per giustificare il suo vitale bisogno di crescita; in questo processo
piega alle sue esigenze le risorse umane e naturali senza preoccuparsi delle
conseguenze negative, salvo che non investano interessi privati passibili di una
valutazione economica diretta. Si afferma pertanto la preponderanza degli
interessi economici di breve periodo su quelli della sostenibilità di lungo
periodo, come espresso efficacemente dalle parole di Polany: “L’economia,
strutturandosi sulla base del mercato autoregolato, si è separata radicalmente
dalle altre istituzioni sociali e ha costretto il resto della società a funzionare
secondo le leggi della sua propria organizzazione, trasformando in merci il
lavoro e la terra e minacciando così di distruggere la natura e l’uomo”.
In molte delle considerazioni sinora fatte emerge un atteggiamento che
volutamente esula dal contesto vero e proprio della teoria economica, né
poteva essere altrimenti dacché si muove dall’assunto che quello economico
sia un ambito di discussione troppo angusto. Ciò che non si può perdonare alla
società capitalista è infatti l’aver ridotto l’oikonomía di Aristotele ad un
pedissequo esercizio di massimizzazione vincolata; l’avere isterilito la cultura
che gli ha dato vita rendendola incapace di riconoscere un valore alle cose altro
dal denaro; l’aver dato dignità all’idea che il profitto come fine sia un valido
principio organizzatore della società e trovato giustificazione per il fatto che in
suo nome tutto possa essere sacrificato; l’aver reso l’uomo schiavo del suo
bisogno di consumo, rendendo grotteschi i suoi tanto ostentati principi di libertà.
E dirsi, a dispetto di questo, portatrice di civiltà.
Perché questa analisi sia completa, è necessario infine che alle critiche
seguano delle proposte: si chiede quindi, per dirla con Polany, di ristabilire la
supremazia della società sull’economia, confinando quest’ultima ad un ruolo
strumentale. Tornando ora al problema del traffico, l’autorità pubblica dovrebbe
adottare la soluzione che la teoria economica ha da tempo elaborato per
risolvere il problema delle esternalità negative, cioè il principio pigouviano per il
quale ad ognuno devono essere imputati i costi esterni delle proprie attività di
produzione e/o consumo. Ecco perché primo passo dell’analisi deve essere la
valutazione economica delle esternalità, così da comprendere la reale
dimensione del problema, base di partenza per valutare i possibili interventi
specifici.
4
CAPITOLO 1- STIMA DEI COSTI SOCIALI
1.1- INTRODUZIONE
I trasporti sono un servizio fondamentale per la società in quanto consentono la
circolazione di persone e merci, contribuendo in modo vitale allo sviluppo
economico. Come per ogni altra attività, ai benefici si contrappongono però dei
costi, che possono diventare ingenti e configurarsi quindi come uno spreco in
funzione del livello e del modo in cui la domanda di mobilità è soddisfatta.
Quanto questo possa essere vero lo dimostra il caso dell’automobile, il cui
impiego massiccio comporta conseguenze negative evidenti a tutti, soprattutto
per chi vive in città: le auto inquinano, provocano rumore, sono causa di molti
incidenti, creano congestione, invadono le strade per la mancanza di parcheggi
adeguati e altro ancora. Meno evidente è che tutte queste conseguenze, oltre
ad essere un fastidio più o meno tollerato, rappresentano un costo, sia per gli
automobilisti, sia per la società. Siccome gli individui non sopportano
direttamente questi costi, scelgono di impiegare mezzi di trasporto privati ad un
livello superiore rispetto all’ottimo sociale.
Il primo passo da compiere per risolvere i molti problemi del trasporto urbano è
quindi quello di rendere manifesti i costi che esso impone alla società; sarebbe
poi compito dell’autorità pubblica adottare misure adeguate sulla base di quei
risultati: la logica di tale intervento, i cui aspetti teorici sono stati accennati nella
premessa, sarà oggetto del capitolo successivo. Scopo di questo capitolo è
invece quello di calcolare il valore delle suddette esternalità per la città di
Milano.
1.2- LA VALUTAZIONE DEI COSTI: CONSIDERAZIONI
Per calcolare il valore dei costi sociali dovuti al trasporto, bisogna individuare
innanzitutto le fonti di costo e definire delle procedure di valutazione adeguate
alle loro natura. Le fonti di esternalità connesse ai trasporti che in generale si
possono trovare in letteratura sono:
- l’inquinamento atmosferico: causa danni alla salute, cambiamenti del clima,
spese per la pulizia di infrastrutture e monumenti attaccati dagli agenti
inquinanti;
- gli incidenti stradali: comportano danni a persone, mezzi, infrastrutture;
- la congestione del traffico: ad esso si deve il rallentamento della velocità
media con conseguente perdita di efficienza e maggiore emissione di
inquinanti;
- il rumore: provoca disturbi alla salute e spese per limitarne il disturbo;
- l’intrusione visiva dei mezzi di trasporto e delle infrastrutture stradali;
- la manutenzione delle infrastrutture stradali, variabile secondo l’intensità di
utilizzo.
5
Dato che non esistono i mercati per l’aria pulita, per la sicurezza sulle strade,
per la quiete e le strade libere, non è possibile osservare direttamente i prezzi di
queste risorse: l’intera procedura di calcolo da noi utilizzata si risolve pertanto in
una stima, con alcune importanti conseguenze.
Bisogna innanzitutto accettare il fatto che i risultati ottenuti hanno dei limiti e
costituiscono solo un ordine di grandezza dei costi. Trattandosi di stima, infatti,
non si può prescindere da ipotesi, assunzioni, semplificazioni,
indipendentemente dal volume di risorse e conoscenze impiegato: questo
peraltro non toglie rilevanza ai risultati, che sono sufficienti per dimostrare che
ai benefici privati dell’utilizzo dell’automobile corrispondono notevoli costi
sociali, perlopiù nella forma di sprechi evitabili, e che è quindi necessario
definire interventi che consentano di far pagare un prezzo comprensivo anche
di quei costi.
Secondariamente, siccome il livello di competenze e risorse richiesto per
svolgere una stima ex-novo trascende lo scopo di questo lavoro
1
, è necessario
basare l’analisi perlopiù su metodi e dati esistenti, adattati alla realtà di Milano
laddove necessario. Si ha peraltro il vantaggio di conferire ai risultati la
consistenza e l’affidabilità proprie delle analisi svolte da importanti studiosi ed
organismi internazionali.
Infine, proprio perché bisogna affidarsi a studi esistenti, si è potuto compiere la
stima dei costi solo per quelle esternalità già ampiamente studiate. Così, ad
esempio, mentre in letteratura si possono trovare numerosi e dettagliati studi
sulle conseguenze e i costi dell’inquinamento, lo stesso non si può dire per il
rumore, che pure ha effetti importanti. In definitiva, i costi esterni per i quali si è
potuto compiere la stima sono quelli dovuti alla mortalità e morbilità connesse
all’inquinamento, agli incidenti stradali e alla congestione del traffico.
Un’ultima considerazione. Ovviamente le esternalità che si vanno a calcolare
sono dovute tanto ai mezzi di trasporto privati che pubblici: quindi il principio di
far pagare un prezzo che rifletta i costi sociali vale per entrambe le modalità di
trasporto. Con la sostanziale differenza, però, che se l’intero fabbisogno di
mobilità fosse soddisfatto interamente dai mezzi di trasporto pubblici, gli effetti
esterni negativi sarebbero di gran lunga inferiori a quelli attuali
2
: quindi la
differenza tra costi privati e sociali sarebbe limitata, e comunque più facile da
colmare proprio per la natura pubblica del servizio. Ecco il motivo per cui
l’analisi si concentra sul trasporto privato come fonte di esternalità.
1.3- I COSTI DOVUTI ALL’INQUINAMENTO
Di tutti gli oneri che il traffico urbano impone alla società, l’inquinamento
atmosferico è quello che interessa e preoccupa di più. Ciò è vero innanzitutto
per i comuni cittadini che, sebbene in modo ancora vago, ne percepiscono il
pericolo per la salute umana. Lo è per le autorità pubbliche, che fronteggiano
nel loro complesso maggiori spese per ricoveri e perdite di produttività
connesse alla mortalità e alla morbilità dovute all’inquinamento. Lo è soprattutto
per gli studiosi di epidemiologia, che nel tempo hanno prodotto lavori sempre
più approfonditi ed affidabili. Di fatto, i costi sociali dell’inquinamento dovuto al
traffico urbano sono, insieme alla congestione, i più importanti, come dimostra
6
la vastità della letteratura di riferimento e il fatto che tutte le valutazioni gli
attribuiscono, invariabilmente, un peso rilevante rispetto alle altre esternalità.
L’analisi che segue si articola nei due aspetti fondamentali del problema: quello
epidemiologico, ovvero la determinazione del numero di casi per ogni effetto
sulla salute, nella fattispecie mortalità e vari tipi di malattie, attribuibili
all’inquinamento atmosferico; quello economico, cioè la valutazione in termini
monetari del costo che malattie e morti dovute all’inquinamento rappresentano
per la società.
1.3.1- L’analisi epidemiologica
Sebbene estranea alla natura economica di questo lavoro, si ritiene opportuno
riportare, per completezza e per consentire di coglierne i limiti e i punti
controversi, anche le considerazioni principali dell’analisi di epidemiologia sulla
quale la stima economica è successivamente basata. Esulando dalle
competenze economiche, questa parte consiste interamente nella sintesi del
lavoro pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità
3
, cui si rimanda per
maggiori approfondimenti. Scopo di quel lavoro era di valutare l’impatto sulla
salute dell’inquinamento nelle otto maggiori città italiane, tra le quali era
ovviamente inclusa anche Milano. A supportare determinate ipotesi o
conclusioni, vi sono poi riferimenti anche ad altri studi.
Venendo quindi alla questione in oggetto, l’analisi epidemiologica
dell’inquinamento consiste, in termini generali, nel determinare una relazione
statistica tra la concentrazione di agenti inquinanti nell’aria e la probabilità che
questa provochi un determinato impatto negativo sulla salute. In accordo alla
metodologia seguita nei più importanti studi
4
, questo risultato è ottenuto
combinando opportunamente dati statistici sulla popolazione a due fattori da
calcolarsi: il livello di esposizione agli inquinanti e la funzione dose-reazione.
Prima di spiegare la metodologia di calcolo generale, è necessario approfondire
la natura di questi due fattori.
1.3.1.1- Calcolo del livello di esposizione
In epidemiologia, le conseguenze dell’inquinamento sulla salute sono valutate
in termini di percentuale di casi di malattia attribuibili ad un eccesso di sostanze
inquinanti rispetto ad un livello obiettivo. Con “livello di esposizione agli agenti
inquinanti” si deve quindi intendere la differenza tra il livello osservato ed un
livello obiettivo la cui natura sarà poi specificata.
Passo preliminare è decidere rispetto a quale inquinante, tra tutti quelli prodotti
dalle automobili
5
, misurare il livello di esposizione: il problema sussiste perché
non è possibile determinare quanto di un certo impatto sulla salute sia dovuto
ad un inquinante piuttosto che ad un altro; inoltre, in alcuni casi, solo la
combinazione dei diversi inquinanti diviene nociva, mentre presi separatamente
non sembrano determinare direttamente effetti significativi sulla salute. Per
evitare conteggi multipli e sovrastimare quindi il peggioramento dei parametri
sanitari a causa dell’inquinamento da traffico, è prassi ormai da tempo utilizzare
come proxy il cosiddetto PM
10
, particolato sospeso con diametro uguale od
inferiore ai 10 µ m
6
. Ovviamente in questo modo si perdono gli effetti di altre
7
sostanze non incluse nel PM
10
, come ad esempio l’ozono troposferico
7
, che
sempre più numerosi studi evidenziano essere in relazione con malattie
respiratorie di vario tipo. Ciò nonostante, data la natura probabilistica dei
risultati, è preferibile un approccio conservativo: la questione delle incertezze e
dei limiti dei risultati ottenuti sarà comunque discussa più avanti in dettaglio.
Stabilito che il parametro per la nostra indagine è il PM
10
, il passo successivo è
determinarne la reale concentrazione in un certo periodo di tempo. Nel suo
studio, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha utilizzato la media aritmetica
delle concentrazioni giornaliere per gli anni 1998 e 1999; questi dati a loro volta
sono stati raccolti selezionando con opportuni criteri le apposite stazioni di
rilevazione:
- per garantire un’adeguata rappresentazione dell’esposizione della
popolazione, sono state scelte due stazioni;
- le stazioni dovevano trovarsi entro i confini della città ed in prossimità delle
zone a più alta concentrazione della popolazione; allo stesso tempo non
dovevano essere vicine a sorgenti di emissione locali, come ad esempio
industrie;
- per escludere dal calcolo valori estremi non rappresentativi della reale
concentrazione di fondo, sono stati utilizzati solo dati per i quali la
correlazione giornaliera tra le stazioni era di almeno 0.7; le stazioni sono
quindi state scelte in modo che fornissero un numero sufficiente di dati,
ovvero almeno il 50% delle rilevazioni doveva essere valido rispetto al
criterio della correlazione.
Sulla base di questi criteri è stato calcolato per Milano, nel biennio 1998-1999,
un livello medio giornaliero di PM
10
pari a 47.4 µ g/m
3
.
Ultimo e più importante passo da compiere è quello della determinazione del
livello obiettivo per la concentrazione di PM
10
: nello studio dell’Organizzazione
Mondiale della Sanità tale livello è fissato a 30 µ g/m
3
, valore medio tra quelli
proposti dall’Unione Europea per le norme Stage 1, ovvero 40 µ g/m
3
, e Stage 2,
ovvero 20 µ g/m
3
. La questione è però controversa perché nessuno studio ha
mai dimostrato l’esistenza di una soglia limite per il PM
10
, cioè di un livello sotto
il quale non costituisce pericolo per la salute umana
8
; né gli studi hanno
dimostrato che la curva della funzione dose-reazione decresca
significativamente alle basse concentrazioni: l’Organizzazione Mondiale della
Sanità precisa anzi che “[…] al di sotto dei 20 µ g/m
3
la relazione PM
10
-effetti
sanitari può non seguire un andamento lineare, ma non si esclude che vi siano
effetti negativi al di sotto di tale valore”
9
. Addirittura lo studio di Kunzli
10
, sul
quale si basa quello dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ignora gli effetti
dell’esposizione solo al di sotto dei 7.5 µ g/m
3
, dato che questa è la
concentrazione di fondo per il PM
10
, cioè quella che si registrerebbe in assenza
di attività umane inquinanti. In virtù di queste considerazioni, del fatto che nei
rapporti annuali sulla qualità dell’aria pubblicati dall’ARPA
11
si indica come
obiettivo di sanità pubblica per Milano un livello medio di concentrazione per il
PM
10
pari a 20 µ g/m
3
e dato che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha
sviluppato la sua analisi anche per tale valore, nel presente lavoro si sceglie un
livello obiettivo appunto di 20 µ g/m
3
.