genitori, ad esempio, che non si preoccupano di far mangiare tutti i giorni i propri figli, di
vestirli in maniera adeguata, di pulirli, di farli dormire le ore che servono…
Quindi capita, molto spesso, di vedere bambini a cui è negata la loro infanzia, che sono
costretti ad essere, loro malgrado, dei piccoli adulti, i genitori dei propri genitori; oppure, che
vengono coinvolti nei litigi coniugali o negli scontri con i parenti, con i nonni, gli zii,
costretti, magari, a prendere posizione, a schierarsi da una parta o dall’altra senza capirne il
perché.
Inoltre, ci sono minori a cui manca il padre, o perché morto, o perché in carcere, o perché
ha abbandonato la famiglia, e dove, quindi, è la madre a farsi carico della famiglia e anche del
ruolo di padre: queste sono le cosiddette famiglie monoparentali; in cui non è detto che il
minore diventi un disagiato; perché esistono madri capaci di far crescere un figlio in maniera
sana, equilibrata e serena, anche senza l’aiuto di un uomo a loro fianco. Certamente, questa
situazione di partenza così svantaggiata non li aiuta.
In queste famiglie disagiate, multiproblematiche, con dinamiche distorte e patologiche al
loro interno, a farne le spese sono, soprattutto, i bambini perché sono i più deboli, i più
indifesi; e per i genitori è facile considerarli dei capri espiatori, imputare a loro la causa dei
loro guai, dei loro problemi.
Quindi, vedendo queste famiglie, vedendo in che condizioni questi ragazzi sono costretti a
crescere, vedendo che già fin da piccoli hanno la vita segnata da problemi più grandi di loro,
che senso ha lavorare con questi casi, che sembrano essere già persi in partenza? Perché
sprecare energie, risorse, tempo, con minori già segnati?
Innanzitutto, perché sono dei bambini, che hanno tutto il diritto ad avere quegli apporti
indispensabili per affrontare il loro itinerario di crescita umana, e a non subire quelle
condizioni negative che ostacolano la costruzione di un’identità e la realizzazione di un
positivo processo di socializzazione. Inoltre, in quanto bambini, si trovano in una situazione
cronologica, evolutiva, biografica tale, per cui gli sono dovute delle protezioni e dei servizi
che gli rendono possibile a tutti gli effetti l’esercizio del fondamentale diritto a crescere in
funzione del proprio sviluppo individuale e sociale
1
.
Inoltre, non è detto che se le famiglie da cui provengono questi ragazzi sono
multiproblematiche, spezzate, presentano delle grosse difficoltà, debbano restare tali per
sempre. La multiproblematicità è uno stato in cui si può trovare una famiglia; e se è vero, che
ogni famiglia attraversa, nella sua vita, degli stadi intervallati tra loro, da crisi per adattarsi a
nuove fasi, a nuove situazioni di vita, a periodi di omeostasi, non è detto che queste famiglie
1
C. Scurati, “Il disagio minorile: introduzione”, in C. Biaggio, E. Borghi (a cura di), Minori disagi e speranze,
Edizioni Piemme, Casal di Monferrato (Al) 1994, p. 10
non possano cambiare, modificare i propri equilibri interni, trovare delle soluzioni adeguate ai
loro problemi. Ma vedendo le famiglie di questi ragazzi nella loro realtà quotidiana, nella vita
di tutti i giorni, le possibilità che migliorino, che modifichino certi loro comportamenti nei
confronti dei propri figli, sembrano molto remote, quasi impossibili da raggiungere; adatte a
quegli operatori che vogliono salvare il mondo, che svolgono il loro lavoro come se fosse una
vocazione, con delle aspettative molto alte, senza rendersi conto di quanto possa essere
difficile e frustrante lavorare con loro. Queste sono famiglie che molto spesso diventano dei
casi cronici, che si trascinano per decenni a carico dei servizi sociali, con la convinzione che,
nonostante tutto quello che si fa per loro, non cambieranno mai, resteranno sempre così,
magari tramandandosi gli stessi problemi da una generazione all’altra.
Ma, lavorare con tali famiglie è possibile farlo e occorre farlo, specialmente per il bene dei
minori che vivono al loro interno. In medicina va giudicato gravemente scorretto abbandonare
un paziente solo perché è inguaribile: molto può essere fatto, anche per il malato inguaribile,
per rendergli la vita più tollerabile; e lo stesso concetto va affermato nel lavoro con le
famiglie multiproblematiche. Per contrastare scoraggiamenti e abbandoni è indispensabile che
l’operatore impari a lavorare per tappe limitate, anche modeste, per sviluppi successivi, anche
parziali, ma che aprono la strada ad ulteriori progressi
2
.
Infine, l’educatore professionale viene definito come l’operatore che, in base ad una
specifica preparazione di carattere teorico e tecnico-pratica, svolge la propria attività mediante
la formulazione e la realizzazione di progetti educativi caratterizzati da intenzionalità e
continuità, volti a promuovere lo sviluppo della personalità e delle potenzialità, il recupero e il
reinserimento sociale di soggetti portatori di menomazioni psicofisiche e di persone in
situazioni di disagio o esposte a rischio di emarginazione e di devianza. Il suo compito
principale quindi, è quello di trasformare, attraverso il proprio sapere professionale, la propria
competenza e capacità di riflessione, l’esperienza educativa nata nella spontaneità della vita
quotidiana, in un’esperienza conscia, razionale, finalizzata e programmata. Tale esperienza,
cogliendo gli stimoli della realtà degli utenti e del loro contesto, si propone di favorirne lo
sviluppo e il cambiamento in senso evolutivo. Occorre, dunque, che l’educatore, perché il suo
intervento risulti efficace, riesca a mantenere sempre viva un’aspettativa positiva di
cambiamento
3
e stabilisca una relazione in cui i soggetti su cui opera, si sentano protagonisti
dei loro miglioramenti e siano in grado di ricercare, di costruirsi da soli un panorama di
2
G. Bortolotti, “Il lavoro sociale professionale”, in E. Bianchi, F. Vernò (a cura di), Le famiglie
multiproblematiche non hanno solo problemi, Edizioni Zancan, Padova 1995, pp. 130-131
3
M. Meloni, “I vissuti emozionali dell’educatore”, in Animazione Sociale, 26 1990, p. 65
possibilità di scelta rispondenti alle necessità, alle aspirazioni che, in quel preciso momento
evolutivo che egli sta vivendo, presenta
4
.
Il seguente lavoro è stato strutturato in cinque capitoli, suddivisi in due parti. Nella prima
parte troviamo i primi tre capitoli.
Il primo, intitolato “La figura dell’educatore professionale”, cerca di spiegare chi è questo
operatore, quali sono le sue competenze, le mansioni che gli vengono richieste nei suoi
interventi; gli ambiti in cui può essere impiegato; le qualità e gli atteggiamenti che deve
presentare e adottare, quando si relazione ad un soggetto su cui deve operare. Viene anche
presentata un po’ la storia di questa figura professionale, come è nata, per quali finalità e che
ruolo ha avuto nel corso degli anni, in particolare, all’interno del servizio socio-sanitario. Un
accenno viene fatto, anche, sui rischi che questa professione comporta, specialmente il burn-
out.
Nel secondo capitolo, intitolato “Un particolare ambito di intervento dell’educatore: il
disagio minorile”, si tratta di un ambito in cui l’educatore professionale opera attivamente:
quello del disagio minorile e, soprattutto, si approfondisce il rapporto che c’è tra il disagio
minorile e la famiglia, in particolare con le famiglie multiproblematiche, che sono una
tipologia di famiglia facilmente soggetta al rischio di disagio.
Qui, innanzitutto, viene data una definizione di disagio minorile, distinguendolo dai
concetti di devianza, emergenza e disadattamento. Inoltre, vengono indicati i fattori e i
percorsi che possono portare i minori a vivere questo disagio, non solo all’interno della
famiglia, ma anche nella scuola e in tutta la società; e le forme con cui questo disagio si può
manifestare. Infine, una buona parte del capitolo è dedicata ad uno studio abbastanza
approfondito delle famiglie multiproblematiche: quali sono i loro disagi e le loro patologie
maggiori, le strutture interne che possono presentare, le condizioni in cui vivono e,
soprattutto, quali sono i rischi che i minori di queste famiglie possono correre, appartenendo a
questo tipo di nuclei familiari.
Nel terzo capitolo, “Gli interventi educativi su minori appartenenti a famiglie
multiproblematiche”, si analizzano gli interventi dei servizi sociali su questo tipo di famiglie
e, in particolare, quelli che gli educatori professionali mettono in atto per i minori di queste
famiglie.
La seconda parte è dedicata alla ricerca sul campo, basata sulle interviste ad un gruppo di
venti educatori che lavorano nell’ambito del disagio minorile, in particolare nell’ASL 22 di
Bussolengo, nei centri diurni e aperti e nella comunità educativa della cooperativa “L’Albero”
di Verona.
4
S. Chielfi, “L’educatore professionale come agente destrutturate”, in Animazione Sociale, 54 1992, p. 24
Nel quarto capitolo, intitolato “Un contatto con l’esperienza sul campo: ricerca su un
gruppo di educatori professionali operanti sul territorio di Verona e provincia”, si presenta la
ricerca, lo scopo per cui è stata realizzata; il questionario usato per l’intervista e le
caratteristiche del campione dei venti educatori intervistati.
Infine, nel quinto e ultimo capitolo, “Risultati della ricerca”, si presentano i risultati della
ricerca; un quadro di quello che è il lavoro concreto di questi educatori, cercando anche, di
fare una comparazione tra gli educatori territoriali dell’ASL 22 di Bussolengo e gli educatori
dei centri diurni e aperti, e della comunità educativa della cooperativa “L’Albero” di Verona.
Questi sono due tipi diversi di servizio e quindi, sembrava opportuno considerarli tutti e due,
per avere una visione il più completa possibile dei vari tipi d’intervento che si possono
attivare nell’ambito del disagio minorile. Le modalità di intervento molto diverse di questi
due gruppi, hanno dato luogo alla struttura metodologica della ricerca, che mostra un carattere
comparativo sulla seguente serie di temi: il modo di affrontare il caso; la valutazione delle
difficoltà; le modalità di collaborazione con le altre figure professionali; la formazione fruita;
il suo ruolo e la sua efficacia; la motivazione; il modo di affrontare e superare gli inevitabili
insuccessi e frustrazioni che il lavoro porta con sé.
Primo Capitolo
LA FIGURA DELL’EDUCATORE PROFESSIONALE
1.1. Definizione dell’educatore professionale: inquadramento sociale-
storico-legislativo
L’educatore professionale viene definito come l’operatore che, in base ad una specifica
preparazione di carattere teorico e tecnico-pratica, svolge la propria attività mediante la for-
mulazione e la realizzazione di progetti educativi caratterizzati da intenzionalità e continuità,
volti a promuovere lo sviluppo della personalità e delle potenzialità, il recupero e il reinseri-
mento sociale di soggetti portatori di menomazioni psicofisiche e di persone in situazioni di
disagio o esposte a rischio di emarginazione e di devianza.
Per il perseguimento di tali obiettivi l’educatore professionale, utilizzando metodologie
centrate sul rapporto interpersonale, svolge interventi mirati rivolti ai singoli, alle famiglie, ai
gruppi e al contesto ambientale territoriale, nell’ambito delle istituzioni e dei servizi sociali,
sanitari ed educativi pubblici e privati.
Gli strumenti di cui si avvale sono relativi a metodologie di operatività psicologica, peda-
gogica-educativa e di riabilitazione psicosociale.
Conduce inoltre, attività di studio, ricerca, documentazione e attività formativo-didattica e
di supervisione indirizzate alla globalità dei diversi contesti e interventi educativi.
Il suo compito principale, quindi è quello di trasformare, attraverso il proprio sapere pro-
fessionale, la propria competenza e capacità di riflessione, l’esperienza educativa nata nella
spontaneità della vita quotidiana in un’esperienza conscia, razionale, finalizzata e programma-
ta. Tale esperienza, cogliendo gli stimoli della realtà degli utenti e del loro contesto, si propo-
ne di favorirne lo sviluppo e il cambiamento in senso evolutivo.
All’educatore è richiesto, sotto diverse forme e a vari livelli, di rispondere alla domanda
educativa che emerge nell’ambito extrascolastico e in seguito alla crisi della centralità della
scuola e di altre tradizionali agenzie educative come la famiglia, le associazioni giovanili,
l’oratorio ecc., che spesso vengono vissute senza alcuna motivazione, creando varchi sempre
più ampi a fenomeni di disagio, disadattamento, devianza. Perciò, l’educatore si occupa degli
spazi e dei tempi lasciati liberi da queste agenzie educative proponendo interventi, a volte
molto specifici e complessi, che possono essere in interazione con esse, al di fuori di esse, in
sostituzione ad esse e a prescindere da esse, specialmente quando vengono riconosciute come
luoghi che compromettono lo sviluppo dell’individuo o come luoghi inutili alla formazione:
perché questa si compie nella strada, nei gruppi di pari, nelle bande giovanili, ecc.
Spesso l’educatore professionale si trova ad operare in situazioni caratterizzate da rapporti
interpersonali particolarmente difficili e complicati: basti pensare alle situazioni in cui i ruoli
familiari e formativi vengono assolti da operatori, in tempi e spazi “speciali” senza i quali
l’individuo non avrebbe via di scampo a livello di sopravvivenza quotidiana, o a vissuti come
la malattia mentale, l’handicap grave, la reclusione giovanile o adulta, che richiedono struttu-
re, mezzi e metodi, così peculiari da stravolgere ogni modello consueto di trattamento.
L’attenzione rivolta a queste realtà particolari quali l’handicap, l’emarginazione, il recupero di
soggetti in difficoltà come tossicodipendenti, carcerati, malati mentali, è dovuta alla diffusio-
ne di una nuova sensibilità volta al superamento delle forme tradizionali di assistenza e di isti-
tuzionalizzazione e di conseguenza, alla creatività di nuove iniziative per il recupero,
l’integrazione e il reinserimento di questi soggetti.
La giornata di lavoro dell’educatore è caratterizzata dal compito di “gestire il quotidiano”,
cioè la continuità delle relazioni, dei bisogni, dei problemi, sovente dei conflitti che derivano
da situazioni anche molto stressanti
1
. Un quotidiano che va gestito in termini educativi, cioè
in termini di promozione della crescita individuale e sociale dell’utente a cui va anche con-
nesso un lavoro di aiuto, indispensabile in quei momenti e in quelle situazioni in cui tale e-
mancipazione è ostacolata da difficoltà e non appare perseguibile.
Questo compito a cui l’educatore è chiamato è un compito complesso, dai risultati poco
certi e poco appariscenti, che si fonda sulle capacità dell’educatore di individualizzare
l’intervento, di renderlo il più attento possibile all’originalità, all’unicità che l’utente in quan-
to persona esprime, tenendo conto però anche di se stesso, dei colleghi e degli altri membri
dell’organizzazione con cui l’intervento è progettato.
Infatti, se da una parte l’intervento deve cercare di rispondere ai bisogni ed esigenze dello
specifico utente, dall’altra, per diventare realtà, deve tener conto delle concrete forze operati-
ve esistenti. Di conseguenza, da questo punto di vista, il compito dell’educatore si presta mol-
to poco alla standardizzazione e alla condensazione in tecnologie e procedure fissate una volta
per tutte.
In passato l’educatore professionale veniva associato con l’immagine dell’educatore pre-
sente nella cultura classica, ossia come colui che era dedito all’istruzione e al governo dei
fanciulli, come colui che “conduce” fuori (dal significato etimologico: e-ducere, tirar fuori) le
potenzialità del minore, le guida e le indirizza sia attraverso un contributo di formazione teo-
rica che di esperienza di vita. Questa interpretazione ha indotto l’utilizzo dell’educatore in
1
D. Demetrio, Educatori di professione, La Nuova Italia, Firenze 1990, p. 13
modo simile all’insegnante, attivandolo in prevalenza per interventi istituzionali e a favore di
minori
2
.
Ben presto ci si è resi conto che le attività di un educatore sono qualcosa di più complesso
delle attività istruttivo-didattiche e per questo, nel corso dell’ultimo secolo, si è delineata una
nuova competenza che è quella di riabilitatore, ossia di colui che è impegnato a ricreare le
condizioni per rendere nuovamente abili le persone che si trovano in condizioni di difficoltà
psicologiche, sociali e sanitarie.
All’epoca dell’unità d’Italia sono rintracciabili i primi impieghi ufficiali in questa direzio-
ne anche se riguardano soprattutto funzioni di carattere strettamente assistenziale come ad e-
sempio, il supporto nelle attività di appoggio scolastico.
La richiesta di personale educativo non docente è partita dagli istituti totali di assistenza ai
minori orfani o devianti, fondati quasi sempre da religiosi, i quali richiedevano che gli educa-
tori fossero in grado di contenere e punire, più che di rieducare. Non era richiesta una forma-
zione specifica, tanto più che la società di allora non aveva ancora maturato una cultura della
salute come la intendiamo ora: lo stato non si interessava al benessere del cittadino e tanto
meno aiutava le persone in difficoltà, questa era prerogativa delle istituzioni di carità
3
.
Negli anni cinquanta l’educatore professionale viene impiegato nel lavoro con ragazzi in
difficoltà o portatori di handicap, solitamente ricoverati in istituti. La sua formazione era spes-
so assente, ma a volte avveniva attraverso apposite scuole di durata triennale ad orientamento
pedagogico o attraverso corsi brevi gestiti direttamente dagli enti datori di lavoro.
Un altro ambito di impiego di personale educativo specializzato si sviluppa a partire dagli
anni sessanta ed è rappresentato dalle attività cosiddette di tempo e di educazione degli adulti
(centri di servizi culturali della Cassa per il Mezzogiorno, centri di educazione permanente del
Ministero della Pubblica Istruzione…), oltre a quelle della rieducazione e dell’assistenza vera
e propria e ciò grazie anche alla sempre maggiore attenzione rivolta alla prevenzione, alla ne-
cessità di fornire servizi non parcellizzati alla persona.
Nasce anche la prima associazione di educatori, l’ANEGID (associazione nazionale degli
educatori per la gioventù disadattata), centrata esclusivamente sull’assistenza di minori in dif-
ficoltà. Gli operatori aderenti erano inseriti pressi gli istituti gestiti da enti nazionali e locali,
quali il Ministero di Grazia e Giustizia, comuni, province, ecc. . E’ stata la prima associazione
ad avere un gruppo di operatori impegnato a riflettere sulle esperienze riabilitative realizzate
al fine di ricercare omogeneità d’intenti, di ottenere un riconoscimento giuridico della profes-
sione e il diritto ad una formazione specifica a livello superiore per lo svolgimento della fun-
2
S. Miodini, M. Zini, L’educatore di professione, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1992, pp. 19-20
3
Ibidem, p. 20
zione educativa. In quegli anni, attraverso questa associazione, gli educatori definiscono la lo-
ro professione, il loro ruolo e le loro competenze:
“ L’educatore specializzato per la gioventù disadattata è un operatore che, per adeguate do-
ti e specifica preparazione professionale, è qualificato a curare l’educazione dei giovani disa-
dattati o in pericolo di disadattamento. Per giovani disadattati o in pericolo di disadattamento
si intendono i soggetti che, privi di valido ambiente familiare o minorati fisici o psichici o ir-
regolari del comportamento, per un buon adattamento alla vita sociale sono bisognevoli di
particolari cure mediche, psicologiche, pedagogiche, sociali […].
Il ruolo dell’educatore specializzato consiste nel fornire al giovane disadattato un aiuto e-
ducativo diretto e personale, attraverso una appropriata organizzazione della vita individuale,
di gruppo e della comunità. In tal modo l’educatore surroga l’azione formativa della famiglia,
procurando di colmare le carenze affettive e pedagogiche e rappresentando i valori positivi; fa
vivere al giovane esperienze utili al superamento delle sue difficoltà; favorisce e sollecita nel
giovane l’assimilazione consapevole di una realtà umana e sociale esistenzialmente a lui più
vicina, capace di far maturare e sviluppare armonicamente la sua personalità.
Settori di intervento dell’educatore specializzato sono le istituzioni pubbliche o private che
accolgono le diverse categorie di giovani disadattati o in pericolo di disadattamento: centri di
osservazione, villaggi e repubbliche di ragazzi, focolari e case famiglia, istituti di recupero
specializzati, istituti di rieducazione, istituti medico-psico-pedagogici, pensionati […]
4
”.
Inoltre, gli anni sessanta sono caratterizzati dal sorgere di scuole specifiche per educatori
(sia a Milano che a Roma) e dall’emanazione di alcune importanti normative che prevedevano
l’utilizzo degli educatori all’interno di vari settori della formazione e dell’assistenza.
I termini usati con maggiore frequenza per disegnare la figura dell’educatore sono: educa-
tore d’istituto, educatore di comunità, educatore specializzato.
Negli anni settanta i servizi assistenziali conoscono una importante fase di sviluppo: con la
Riforma Sanitaria introdotta con la legge 833/78, nascono i distretti socio-sanitari di base,
sorgono i presidi e i servizi multizonali (ospedali e servizi extra-ospedalieri), le istituzioni to-
tali diventano per i servizi territoriali forme assistenziali da combattere, si crea una serie di
strutture aperte sul territorio atte a prevenire le disfunzionalità, a mantenere nel contesto so-
ciale, il più a lungo possibile, le persone che presentano disagi psico-fisici e a proporre nuovi
metodi di intervento e cure.
4
L. Ronda, “Incontrare. Gli educatori ieri e oggi”, in P. Brunori, M. Peirone, F. Poffa, L. Ronda, La professione
di educatore, Carocci Editore, Roma 2001, p. 22
E’ proprio nell’ambito dei distretti di base che si va delineando sempre più la professione
di educatore, il cui intervento non è più di carattere punitivo o contenutivo ma diventa un
mezzo per il recupero delle potenzialità residue dei soggetti in difficoltà, all’interno del nuovo
concetto di tutela della salute sviluppatosi negli ultimi decenni. Ciò è reso possibile dal fatto
che l’educatore è ancora una professione nuova e non ancora affermata, e che per questo ha
potuto rispondere meglio di altre professioni più affermate, ai bisogni emergenti di questa
nuova organizzazione dei servizi socio-sanitari. Così facendo gli educatori hanno prestato una
immagine di estrema duttilità e di adattamento che ha permesso loro di ampliare enormemente
gli ambiti lavorativi, evitando il rischio della frammentazione in mille compiti del loro lavoro
e il non riconoscimento della loro funzione nella sua unicità
5
.
In questi anni si assiste ad un avvicinamento dell’educatore all’assistente sociale: infatti,
agli educatori vengono attribuite attività di “informazione” e di segretariato sociale, interventi
in aree proprie dell’assistenza sociale come l’ambito integrativo o sostitutivo delle cure fami-
liari.
Inoltre, nell’area terapeutico-riabilitativa l’opera dell’educatore si affianca all’azione di
psicologi, psicoterapisti, neuropsichiatri infantili, psichiatri, psicomotricisti, insegnanti per le
scuole speciali, tutte professioni concrete e tecnicamente precise che evidenziano ruoli etero-
genei di fronte a bisogni differenziati. In questi anni, l’educatore si occupa anche di attività di
promozione culturale e formazione permanente.
Con la legge 10/10/1962 n. 1494, viene legittimata in Italia per la prima volta la professio-
ne di educatore: tale legge, riordinando i ruoli organici del personale addetto agli istituti di
rieducazione per minorenni, prevede, al loro interno, la figura dell’educatore per
l’osservazione comportamentale e il trattamento rieducativo dei minori. Inoltre, questa figura
viene citata nel D.P.R. 20/12/79 n. 761, che propone l’inquadramento funzionale nell’ambito
del servizio sanitario nazionale.
Parallelamente allo sviluppo dei servizi si assiste ad una moltiplicazione di denominazioni
(educatore, educatore di gruppo appartamento, educatore/animatore, educatore di comunità,
educatore professionale, educatore di distretto, animatore socio-culturale, operatore pedagogi-
co, educatore extra-scolastico, operatore socio-educativo, ecc.), con cui questa figura viene
inserita nell’ordinamento degli enti locali ma in assenza di precise direttive. I requisiti sono di
volta in volta diversi: diploma di scuola media superiore, l’esperienza in servizi educativi, di-
ploma di scuole per educatori o la semplice licenza media.
5
Ibidem, p. 23
Verso la fine degli anni settanta nasce l’ANEOS (associazione nazionale degli educatori e
degli operatori sociali) che spinge verso il riconoscimento della professione e la definizione
dei confini professionali con altri operatori.
Nel 1982 il Ministero dell’Interno nomina una commissione di studio per la definizione di
studio dei profili professionali e dei requisiti di formazione degli operatori sociali. Nel rappor-
to stilato dalla commissione, ricco di riflessioni riguardo lo sviluppo professionale degli ope-
ratori dell’area educativa, si individua anche “una figura unitaria di educatore sia pure artico-
lata al suo interno che sia capace di promuovere lo sviluppo delle potenzialità di crescita per-
sonale e/o di integrazione sociale attraverso appropriati progetti educativi, con caratteristiche
di continuità, realizzati attraverso metodi centrati sull’uso del rapporto interpersonale e delle
esperienze di vita, di gruppo e in gruppo, sulla base di una precisa intenzionalità, anche in in-
terazione con il sistema familiare, la scuola e altre agenzie di socializzazione e con istituzioni
e servizi del territorio”
6
. Anche il D.P.R. n. 348/83, relativo al contratto nazionale del perso-
nale degli Enti Locali, cita la figura dell’educatore con la denominazione di educato-
re/animatore, definendola come la professionalità che “promuove e sollecita l’attivazione di
interessi, la formazione personale e sociale di giovani e anziani nella vita comunitaria, pro-
gramma e realizza attività espressive e culturali, occupazionali e di tempo libero nei centri so-
ciali, di quartiere, presso gruppi residenziali, ecc.”.
Con il Decreto Degan del 10/02/84 n. 145, l’educatore viene introdotto nell’ordinamento
sanitario con la denominazione di Educatore professionale, definendolo formalmente come
“colui che cura il recupero e il reinserimento di soggetti portatori di menomazioni psico-
fisiche e viene imposto per la sua formazione di base un corso di abilitazione di durata almeno
biennale, svolto in presidi del servizio sanitario nazionale o presso strutture universitarie”
7
.
Infine, il decreto del Ministero della Sanità n. 520/98 delinea il profilo unico definitivo su
tutto il territorio nazionale dell’educatore professionale, definendolo come “l’operatore socia-
le e sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante, attua specifici progetti edu-
cativi e riabilitativi, nell’ambito di un progetto terapeutico elaborato da un’équipe multidisci-
plinare, volti ad uno sviluppo equilibrato della personalità con obiettivi educativo relazionali
in un contesto di partecipazione e recupero nella vita quotidiana; cura il positivo inserimento
o reinserimento psico-sociale dei soggetti in difficoltà”
8
.
6
Rapporto sui profili professionali del Ministero dell’Interno, allegato n. 2, pp. 6-7
7
S. Miodini, M. Zini, L’educatore professionale, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1992, p. 24
8
F. Poffa, “Dove va la formazione dell’educatore professionale”, in Animazione Sociale, 12 1999, p. 86
Alla luce della sua storia e dei vari interventi legislativi, all’educatore viene richiesto di
muoversi nell’ottica dell’aver cura, di intervenire con i suoi specifici strumenti che traducono
operativamente e concretamente il “prendersi cura di”
9
; e ciò permetterà all’educatore di po-
ter contare su una cultura organizzativa che gli sarà propria, che gli consentirà, di operare an-
che in quelle situazioni in cui, come nel caso di lavori con prognosi infauste, non è possibile
pensare a progetti d’intervento che abbiano per obiettivo un miglioramento,
un’emancipazione, sia pure limitata, dell’utente. Ciò richiede all’educatore una preparazione
personale e non solo teorico e tecnica, per poter sopportare la dimensione depressiva che tali
casi portano con se.
Attualmente gli educatori hanno sviluppato una forte spinta alla professionalizzazione,
hanno elaborato una cultura professionale capace di definire la propria funzione e la propria
identità e hanno dimostrato una grande capacità di adattamento ai bisogni dei soggetti dei
quali si occupano e alle richieste del contesto sociale nel quale sono inseriti; ma questa stessa
capacità di mediazione spesso rischia oggi di diventare un pericolo non soltanto per la profes-
sione, non sempre riconosciuta e regolamentata, ma anche per la funzione socio-educativa
stessa, che nelle attuali società potrebbe essere snaturata fino a diventare un semplice control-
lo contenutivo per la sicurezza sociale.
Inoltre, gli educatori si interrogano sulla loro funzione socio-educativa in contesti multicul-
turali come quelli che si impongono oggi, e su quali fondamenti etici basare una loro cultura
professionale multiculturale e multietnica. Ciò è dovuto al fatto che ancora adesso emerge,
anche grazie ad un confronto tra educatori in ambito internazionale, una certa confusione o
disomogeneità intorno all’identità professionale, e che lo scenario sociale dove essi operano si
sta modificando profondamente.
Questa nuova cornice all’interno della quale gli educatori sono chiamati a lavorare richiede
un momento di riflessione e di ripensamento per una migliore e più ampia conoscenza di que-
sti fenomeni e per individuare un insieme di strategie di risposta in modo tale da non essere
colti impreparati davanti all’incertezza e alla precarietà
10
.
Infatti, mai come adesso gli educatori devono fare i conti con il disordine, con la soggetti-
vità, il relativismo e mai come ora debbono attrezzarsi per lavorare in queste condizioni, nel
caos, perché questi aspetti del lavoro educativo, non sempre totalmente eliminabili, possono
essere gestiti insieme all’organizzazione, alla ragione e al sapere.
9
L. Sempio, “Introduzione”, in M. Groppo (a cura di), L’educatore professionale oggi, Vita e Pensiero, Milano
1990, p. 25
10
L. Ronda, “Incontrare. Gli educatori ieri e oggi”, in P. Brunori, M. Peirone, F. Poffa, L. Ronda, La professione
di educatore, Carocci Editore, Roma 2001, p. 26
Per gestire l’incertezza e il disordine è necessario cambiare ottica, cambiare punto di vista:
non si parte più dal sapere, ma è dal tentativo di riorganizzare il disordine che si producono
saperi e metodi nuovi.
L’educatore oggi interagisce con gli utenti e con il contesto e, dalle risposte che essi danno
ai suoi interventi, riesce a cogliere il senso che gli permette di capire, e poi di interagire in un
anello ricorsivo che naturalmente si spezza quando anche l’utente riesce a dare da solo signi-
ficato al contesto, o con il gruppo sociale al quale sente di appartenere.
Quindi, oggi più che mai la professione abbisogna di una identità trasversale non rigida-
mente collegata a contenuti, ma a una diffusa capacità di riflettere e di rielaborare: questo im-
plica che la formazione degli educatori deve metterli in condizione di apprendere ad appren-
dere, di apprendere a riflettere. Inoltre, la regolamentazione della funzione socio-educativa ri-
chiede la definizione di un codice deontologico che non solo diventa una prassi di tutela della
professione, ma è il solo strumento di tutela al quale l’utente può riferirsi per regolare una re-
lazione asimmetrica dove il potere si trova dalla parte del professionista.
Infine, la diminuzione delle risorse da destinare al lavoro socio-educativo e l’aumento del-
la richiesta di interventi rischiano di creare identità diversificate tra educatori dei servizi pub-
blici e del privato sociale e confusione tra professionisti e volontari.
Si tratta di un rischio reale a causa della non regolamentazione della professione, della sua
debole visibilità e della scarsità delle sedi formative. Gli educatori oggi si muovono tra il bi-
sogno di definire un paradigma professionale culturalmente e scientificamente forte che con-
fermi l’identità professionale e la necessità di un sapere trasversale, capace di costruire rispo-
ste nell’incertezza, nella precarietà, nella mobilità alla quale sono sottoposti i loro utenti
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Ibidem, pp. 28-29